Cristiano Bottone, facilitatore del movimento delle Transition Town in Italia, ci parla della sua esperienza diretta, dei concetti fondanti e dei risultati raggiunti nei dieci anni di vita della Transizione
Abbiamo precedentemente trattato di Bioregionalismo, di Panarchia, di Spiritualità Laica e Decrescita Felice, definendole con il termine Post Utopie. Perché, a differenza delle utopie classiche, contengono parti già realizzate o in fase di assimilazione nelle attuali società. Transition Towns non possiamo nemmeno considerala una post utopia: se proprio dobbiamo catalogarla, con la sua sintetica formula “qui ora e subito”, si può classificare nella categoria di anti utopia, non demandando altrove e in un futuro remoto il suo compimento. Più che un pensiero è una metodologia pratica per la soluzione dei problemi generati dalla disfunzione del sistema dominante e per questo è dotata di “cassette degli attrezzi” pronte per l'uso e disponibili a chiunque voglia riparare guasti o progettare nuove forme sociali e modelli di vita sostenibili.
L'idea è stata concepita nel 2003 dall'inglese Rob Hopkins, quando insegnava a Kinsale in Irlanda e messa in pratica al suo rientro in Inghilterra nel 2005. Partendo da un progetto scolastico su come si dovesse riorganizzare una cittadina in un mondo senza petrolio, l'idea si è evoluta in tre successivi stadi: dalla necessità di affrancarsi dalla dipendenza del petrolio, peraltro fonte primaria dell'inquinamento del pianeta, con tutte le conseguenti ricadute negative, è arrivata a delineare un metodo di sostenibilità al processo di trasformazione e deindustrializzazione, introducendo il processo naturale di resilenza; infine, nello stadio attuale, si propone in forma sistemica, insinuandosi nei diversi livelli della società e con l'idea di sostituirsi dall'interno al sistema dominante, quello basato sull'ideologia della crescita infinita.
Per questa rivoluzione epocale non ci sono moti rivoluzionari da fomentare, né palazzi del potere da assaltare. Non ci sono bibbie né altri testi ideologici in cui misurare la fedeltà degli adepti. Non necessita nemmeno di folte schiere di sostenitori e addirittura, nell'ultimo stadio evolutivo, si impone di non farsi troppa pubblicità finalizzata al proselitismo, nella convinzione che procedere con discrezione ne favorisca la sua azione in forma più trasversale, universale e pacifica. Abbiamo conversato in Skype con Cristiano Bottone: ha 50 anni ed è uno dei referenti del nodo italiano di Transition Town. Abita a Monteveglio, un paese di 7000 anime della Città Metropolitana di Bologna. Proviene da un background nel marketing della pubblicità e della comunicazione.
Cristiano Bottone, Rob Hopkins e Luca Lombroso
Cristiano Bottone
Cristiano, quando hai cominciato a lavorare nel marketing?
Durante il periodo finale degli anni '80, quando il nostro mondo era ancora nel pieno del delirio della crescita illimitata.
Alla fine mi sono accorto che il sistema era diretto verso il baratro e intorno al 2005 ho iniziato a interrogarmi su come porvi rimedio
Era il periodo dell'edonismo reganiano, considerato l'inizio della fase storica più virulenta del capitalismo?
Chiamiamolo pure così: eravamo al massimo fulgore del neoliberismo e dell'ideologia della crescita. Quando quel modello è cominciato a declinare, lavorando ai margini del mondo patinato del marketing, per me è stato più semplice scorgere le prima crepe, le contraddizioni che portava con se. Per una ventina di anni ho lavorato con un'impostazione abbastanza insolita per quei tempi, totalmente off-chain e tuttavia ero in contatto con molte persone provenienti da quel mondo. Così mi sono trovato nella condizione di poter osservare i fenomeni da dietro le quinte del sistema: svolgendo questo lavoro si conosce la zona nascosta, i segreti delle imprese e del sistema produttivo che non fanno parte della narrazione ufficiale, più conosciuta e diffusa dai media. Questo ha facilitato la mia graduale comprensione dei tanti problemi conseguenti al modello di sviluppo dominante e dell'infinità di vicoli ciechi che genera. Alla fine mi sono accorto che il sistema era diretto verso il baratro e intorno al 2005 ho iniziato a interrogarmi su come porvi rimedio.
Nel senso di pensare a soluzioni?
Ho cominciato a riflettere e a chiedermi sempre più seriamente cosa fosse possibile fare per deviare il percorso, già evidentemente segnato. Solo che, conoscendo bene quel sistema, ero consapevole che quasi tutte le presunte soluzioni, pensate o proposte sempre all'interno di quel mondo, erano parte integrante e funzionale al meccanismo stesso: in realtà veniva e ancora oggi viene raccontata una mistificazione, facendo intendere che le soluzioni ventilate portino a una meta, quando invece non ne hanno alcuna. Ho passato tre anni a esplorare, cercando di capire, o quantomeno sapere se altri nel pianeta avessero scoperto o ideato qualcosa di utile e risolutivo.
Esistono scuole di pensiero, anche estranee al sistema, che hanno teorizzato la nostra fase storica, quella appunto iniziata negli anni '80, come egemonizzata dal ruolo centrale della finanza che, immettendo nel mercato enormi risorse finanziare, è andata a supplire alla riduzione del margine di profitto e alla deindustrializzazione occidentale. Se è così, il ruolo della finanza non sarebbe una forma di ammortizzatore?
Siamo mammiferi creativi. Esiste un istinto positivo nel genere umano e consiste nel credere a un qualcosa, anche alle favole, se ci sembra che questo abbia una ricaduta utile. È una caratteristica che potrebbe ammorbidire in parte il processo di transizione, purché si rientri in tempo nei limiti fisici, termodinamici, che il pianeta impone. Possiamo continuare a credere che con un dollaro (un pezzetto di carta o una notazione nel computer di una banca) si possa comprare una mela, ma finite le mele, crederci non serve più a molto. Mi viene in mente una scena classica dei catoon, quando il coyote che insegue lo struzzo si trova oltre il ciglio del burrone e li resta sospeso per un attimo nel vuoto: prima di quell'attimo c'è ancora la possibilità di compiere un scatto all'indietro. Come civiltà siamo lì, abbiamo ancora qualche attimo che potrebbe consentirci di non precipitare, ma sono appunto attimi: li coglieremo?
Wile E. Coyote defies gravity
Michel Foucault sosteneva fin dalla metà degli anni '60 la crisi irreversibile dello Stato Sociale. In effetti per decenni la politica occidentale ha tentato di riformare il sistema. Ma ogni riforma introdotta non ha scalfito più di tanto la nostra lenta trasformazione da paesi produttori a meri consumatori di merci prodotte altrove. Si può affermare che la nostra attuale situazione di crisi, coincida con il venire meno della rendita di posizione, quella prodotta dalla ricchezza accumulata nel passato industrializzato e produttivo?
I miei anni di immobilismo tra il 2005 e il 2008, li ho trascorsi a esplorare, come dicevo prima, le diverse soluzioni contenute nelle più disparate scuole di pensiero, a leggere tutto quello che era stato scritto e teorizzato in precedenza. Purtroppo quasi tutte le teorie si configurano in visioni parziali, in segmenti di soluzioni condizionate dal limite di angolazioni visuali, spesso fortemente ideologizzate e che non danno le risposte complessive di cui abbiamo bisogno. Ammetto che all'inizio ero scoraggiato, non vedendo in nessuno di questi approcci una possibile via d’uscita. Quando ho scoperto un approccio, derivante in modo abbastanza diretto dalle logiche del pensiero sistemico, ci sono entrato con entusiasmo, perché almeno rappresentava un tentativo mai fatto in precedenza.
Ti riferisci a Transition Towns?
Sì. Alle idee che stanno alla base del movimento, organizzate in un processo più o meno consapevole, perché inizialmente era costituito da un particolare mix di pragmatismo britannico, approssimazione ed empirismo. Mi sono subito piaciute e ho deciso di dedicarci tempo ed energie. Quando nel 2006 Rob Hopkins torna dall'Irlanda nella sua casa di Totnes in Inghilterra e si associa a una serie di persone, con esperienze molte diverse tra loro, si creano le condizioni per la nascita di una visione più complessa e matura. La caratteristica essenziale della Transizione è la capacità di attingere per il 90% a esperienze precedenti e, nonostante questo, creare una forma completamente nuova della gestione dei processi. Inizialmente non avevo nessuna certezza che potesse funzionare, ma ero tuttavia fortemente attratto dalla novità.
A dire il vero, alcuni tentativi di un approccio sistemico erano iniziati negli anni '60, con movimenti di varia natura, anche di carattere politico, ma nessuno è riuscito a trovare compiment
Quali sono le novità di Transition Towns?
Per la prima volta abbiamo un idea che tenta un approccio sistemico e considera poco utili tutte le forme ideologiche, funzionali semmai a dividere le persone in gruppi di appartenenza. Dieci anni fa, quando ho iniziato la mia esperienza nel movimento, non avrei immaginato di raggiungere la comprensione attuale. A dire il vero, alcuni tentativi di un approccio sistemico erano iniziati negli anni '60, con movimenti di varia natura, anche di carattere politico, ma nessuno è riuscito a trovare compimento. Esiste un problema di fondo e consiste nel fatto che i cervelli umani non sono fatti per ragionare in modo sistemico: ci siamo evoluti come specie in un contesto in cui la comprensione dei sistemi che ci circondavano non era poi così fondamentale e questa caratteristica “genetica” permane.
Installazione di Eduardo Abaroa
Per quale ragione?
Stiamo parlando di sistemi complessi e contro intuitivi, in cui quasi nulla funziona come possiamo immaginare. Paradossalmente siamo bravissimi a crearli ma sostanzialmente limitati nella capacità di comprenderne il reale funzionamento. È probabile che per questa ragione i numerosi tentativi del passato, anche se armati di buone intenzioni, siano falliti e nonostante il fallimento abbiano proceduto, in modo esponenziale e deleterio, a insistere caparbiamente sempre nella stessa direzione. Con Transition c'è un movimento che prova ad utilizzare i migliori strumenti di analisi disponibili, per interpretare i sistemi complessi e a tradurre l’analisi in azione concreta, quotidiana. Si è cominciato in un modo nemmeno tanto consapevole, ispirandosi a modelli quali la permacultura di David Holmgren e le teorie del cambiamento e del pensiero sistemico. Nel tempo si sono aggiunti tanti altri contributi, provenienti dalle discipline psicologiche, dal mondo open source, dallo studio delle discipline democratiche ecc. Tanto per fare un esempio: Transition non propone mai buone pratiche, al massimo buoni ingredienti, l’idea di fondo è che l’unica buona pratica consista nell’imparare a pensare bene, mentre le azioni vanno costantemente adattate al contesto, alla situazione, valutate nelle conseguenze a livello locale e globale, ecc. Per fare tutto questo servono poi nuovi meccanismi democratici.
La democrazia rappresentativa non funziona più?
Penso che tutti ormai abbiano capito che le decisioni a “maggioranza” possono non avere alcuna relazione con il perseguire il “bene comune”. O con la qualità della decisione presa. Gli studi accademici sui modelli democratici ce lo segnalano da parecchio tempo. Ci servono altre metodologie che facilitino l’attivazione del pensiero collettivo, consentano forme di partecipazione costruttiva e utile (quando partecipare serve davvero) e ci permettano di prendere decisioni che la democrazia rappresentativa non consente di prendere. Queste metodologie esistono. Non c'è bisogno di ricorrere a pensieri utopistici. Nei servizi che stai pubblicando hai utilizzato il prefisso Post Utopie, ma se dovessi tentare una classificazione di Transition Towns, forse sarebbe più preciso il termine anti utopia.
L'idea di affannarsi a raggiungere un punto di arrivo ideale, che è la logica dell'utopia, non è molto funzionale, nel senso che limita e impone restrizioni e blocchi
Perché?
L'idea di affannarsi a raggiungere un punto di arrivo ideale, che è la logica dell'utopia, non è molto funzionale, nel senso che limita e impone restrizioni e blocchi. È noto quanto scarto esista tra l'utopia immaginata e la realizzazione effettiva, perché in mezzo c'è la realtà. L'utopia ha una funzione utile quando compie uno sforzo immaginativo, ma non è per definizione realizzabile. Secondo me gli utopisti stessi lavorano affinché non possa essere mai realizzata, nemmeno per sbaglio, perché altrimenti non sarebbe più utopia. Dopo averla creata preferiscono tenersela e coccolarsela, protetta in una campana di vetro. Transition tenta un approccio diverso. Per quale motivo dobbiamo faticare a immaginare un mondo ideale, se i processi sono talmente complessi, da modificare costantemente i percorsi? Che senso ha immaginare un punto di arrivo lontano e presumibilmente irraggiungibile? Non è meglio intervenire quotidianamente nei processi sul fattibile? Proviamo e vediamo che succede.
Non potrebbe esistere un mondo perfetto?
Intanto chiediamoci: perfetto per chi? Come possiamo decidere se sia perfetto o meno o che l'utopia del pianerottolo di fianco sia meno perfetta della nostra? E' molto più utile chiedersi oggi qui, ora e subito: cosa posso fare nell'immediato per perseguire il bene comune? Tante idee possono apparire belle e suggestive, ma se non sono realizzabili, ci tengono fermi e i cambiamenti auspicati restano un pensiero teorico che nella pratica trova insormontabili difficoltà di attuazione. Per questo dedico il mio tempo alla Transizione, dove a ogni idea deve corrispondere un comeattuarla. Mi sta bene, tuttavia, che esistano tanti altri modi di vedere e di provare: fanno parte delle naturale biodiversità dei tentativi.
Particolare della Tomba Brion, progettata dall'architetto Carlo Scarpa - Foto di Pino Timpani
Nella logica di Transition l'altra sponda del fiume è la capacità della nostra specie di reintegrarsi, anche concettualmente, nell'insieme pianeta
L'approccio di Transition Towns, il temine stesso stabilisce l'esistenza di un mondo in trasformazione, ha la funzione di accelerare il processo in atto?
Forse più che accelerare fornisce un metodo di gestione del processo. Ricorro a una metafora: immagina di dover guadare un fiume nel quale ogni tanto emergono corazze di tartarughe su cui puoi poggiare i piedi per procedere verso l'altra sponda. Ma non sai in anticipo quando potrà essere disponibile il successivo appoggio di tartaruga. Tuttavia sei determinato ad andare dall'altra parte del fiume. Ecco, Transition ti offre una bella serie di consigli di come vedere prima i gusci utili, quelli più solidi e stabili, quelli meno scivolosi su cui appoggiare i piedi e procedere nel percorso. Nella logica di Transition l'altra sponda del fiume è la capacità della nostra specie di reintegrarsi, anche concettualmente, nell'insieme pianeta. Uno dei tanti nostri problemi di fondo è quello di concepire l’uomo come separato da tutto il resto. Continuiamo a utilizzare impropriamente il concetto di naturale e artificiale. La centrale nucleare di Fukushima è naturale? Certo che lo è: è il prodotto di una delle creature del pianeta.
Tutto ciò che esiste nel pianeta è naturale?
È cos’altro può essere? Non esiste qualcosa che non sia “naturale” e la non comprensione di questo tuttavia ci porta a costruire forme di pensiero deviante, di pensiero riduzionista, dove il cervello umano tenta di imporre le sue fantasie come regole di funzionamento del sistema che lo contiene: un buon modo per finire male.
Cos'è il pensiero sistemico per Transition Towns?
È la capacità di collegare ogni azione alle sue potenziali conseguenze nel tempo, ad ogni possibile scala. Non c'è vantaggio a immaginare modelli termodinamici diversi da quelli reali. Figuriamoci poi se su questi modelli fantasiosi costruiamo i nostri sistemi economici. Oltre a questo, visto che nel pianeta siamo le uniche creature ad avere il problema di essere felici o meno, forse l’altra riva del fiume dovrebbe anche rappresentare quel luogo dove viene distribuita nel modo più equo la “felicità” disponibile. Attualmente nessuno ha l'idea certa di come raggiungere l'altra riva. Per il momento ipotizziamo di attraversare il fiume un passettino alla volta, con una metodologia assai pragmatica e attenta alle logiche dei sistemi. Nonostante i nostri limiti di specie, abbiamo fatto tanto fatica, ma alla fine abbiamo capito come funzionano i sistemi complessi e ci siamo dotati di strumenti per interpretarli: allora usiamoli, no?
A un certo punto Rob Hopkins si è inventato una sintesi che si può esprimere in tre parole: testa, cuore e mani
Che strumenti sono?
A un certo punto Rob Hopkins si è inventato una sintesi che si può esprimere in tre parole: testa, cuore e mani. Può sembrare banale, ma andando a vedere i tentativi precedenti, si scopre che nessuno utilizza davvero questo tipo di ciclo. E' basato sull'idea che per interfacciarsi a un sistema complesso, bisogna innanzi tutto conoscerlo: questa è la testa. Ci sono una lunga serie di problemi incombenti: siamo di fronte al baratro e senza dargli soluzione immediata, non esiste nessuna prospettiva di futuro. Ma aldilà di questo, mettiamo il caso che riusciamo a dargli una soluzione, si pone l'obbiettivo successivo di rendere le relazioni migliori tra il genere umano, soddisfacendo gli altri elementi fondamentali per l'uomo. Per fare questo bisogna partire dalla conoscenza della realtà, cosa purtroppo che tendiamo a non fare, preferendo quasi sempre analizzare dati alterati dal pensiero ideologico o da obbiettivi fuorvianti che abbiamo pensato di raggiungere: quasi nessuno guarda in faccia ai dati, tranne alcune aree dello studio scientifico, peraltro anche esse pervase da problematiche e che comunque restano le più affidabili e utili. Questa è la testa: qualunque cosa tu decida di fare, procurati la migliore fonte e quantità di dati possibile.
In cosa consiste il cuore?
Una volta che abbiamo conoscenza dei dati, l'aspetto psichico dell'interpretazione di dati, chiamiamolo anche aspetto emotivo o altro, ha un peso immenso nel passaggio in azioni successive. Per esempio, se i dati ci incutono paura, corriamo il rischio di rifugiarci nell'immobilismo. Oppure, se un certo tipo di dati ci esaltano, corriamo il rischio di tendere a considerarli in modo univoco rispetto alla complessità. Il cuore entra in funzione quando, una volta ottenuti i migliori dati, si è in grado di prendersi cura ed elaborare tutte le implicazioni psicologiche che questi procurano, sia al singolo che a gruppi o a sistemi sociali.
Insomma, prendere coscienza delle complessità espresse dai dati?
Prenderne coscienza e soprattutto capirne tutte le implicazioni. Ottenere i dati non è sufficiente, perché molte persone ancora non sono in grado di agire a causa di deterrenti psicologici. Esiste un passaggio delicato tra l'acquisizione dei dati all'azione e ancora in generale non si riesce a produrre nulla di risolutivo. Questo è un aspetto di cui Transition Towns si cura molto. Se si ha cura dei dati e si è studiato a fondo gli aspetti emotivi, quando entrano in funzione le “mani” è molto probabile che agiscano nel migliore dei modi, con azioni concrete ed efficaci, rimettendo in circolo con le azioni nuovi dati, nuove interpretazioni emotive e conseguenti nuove azioni pratiche. Finora non ho conosciuto nessun'altra metodologia così efficace, o meglio, c'è chi lo dichiara in uso, ma non conosco nessuno che lo pratichi effettivamente.
Il facilitatore è l'operatore a cui viene affidata la gestione del processo ed è dotato di uno strumentario chiamato “cassetta degli attrezzi”
Quali strumenti fornisce Transition Towns per l'uso di questa metodologia?
Il modo più efficace che abbiamo messo a punto finora è di formare o educare facilitatori specifici della Transizione. Sono figure preparate adeguatamente per aiutare altri a intraprendere percorsi, fornendo quanto serve a secondo del punto di partenza, anche perché esistono un'infinità di punti di partenza. Non basta avere pacchetti già pronti nello scaffale, ma occorre introdursi nelle specificità. Transition Towns si occupa poco del cosa e molto del come, proprio perché agisce in contesti culturali profondamente diversi tra loro: pensa a cosa può essere Transition in una favela del Brasile, piuttosto che in una cittadina italiana o in Svezia, in Giappone o in Israele. Il facilitatore è l'operatore a cui viene affidata la gestione del processo ed è dotato di uno strumentario chiamato “cassetta degli attrezzi” che comprende migliaia di attrezzi differenti a secondo dei contesti, dove viene utilizzata la metodologia più appropriata, in relazione alla specificità culturale ed emozionale.
Transition Towns ha un'organizzazione mondiale?
E' nata in Inghilterra e si è diffusa nel mondo. Esiste una rete globale in una cinquantina di nazioni. Tendenzialmente ogni paese, o area, ha una struttura che definiamo Hub, un centro preposto a fornire strumenti e a conservare il DNA del processo di Transizione. In ogni area si sviluppano poi iniziative di transizione locale. La propagazione è stata aiutata in parte dai servizi e divulgazioni dei media che ne hanno stimolato l'interesse. Abbiamo acquisito notorietà quando abbiamo cominciato, nel pieno della crisi economica, a proporre l'auto produzione di cibo ed energia. In quel momento sembravano cose molto strane, ma poi sono diventate rapidamente main stream.
Com'è organizzato Transition Towns in Italia?
C'è un Hub e una trentina di iniziative di transizione. Il nodo italiano, per come si sta evolvendo, è una declinazione particolare. Non consideriamo più le iniziative di transizione come elemento fondamentale del processo, perché abbiamo capito quanto sia importante che il processo diventi patrimonio di tutti. Quindi consideriamo la forma della contaminazione, cioè il trasferire la logica di Transition Towns a tutti gli altri sistemi, come la più efficace. Che poi è la stessa modalità di propagazione utilizzata dal modello opposto, cioè quello della crescita. Qual'è il partito della crescita? Per me, venendo dal marketing, è molto chiaro: per sostenere l'ideologia della crescita si spargono una serie di concetti virali che vanno a installarsi nelle menti di ogni singola persona: dall'ultra conservatore capitalista, fino all'ultra ambientalista. Quei segni, le convinzioni di fondo della crescita, guardando bene oltre l'apparenza, si possono scorgere innestati un po' ovunque. L'esperimento che stiamo tentando in Italia è provare a diffondere altri segni di fondo e vedere che effetti ne derivano. Gli esperimenti in corso nella Città Metropolitana di Bologna, da questo punto di vista sono interessanti.
Ci spieghi meglio?
Siamo partiti si può dire casualmente, senza particolari piani strategici. Come ti dicevo prima, noi aspettiamo l'affiorare dei gusci di tartaruga e poi mettiamo i piedi dove è possibile. Vicino a Bologna è nata la prima iniziativa di transizione italiana, quella che ho fondato a Monteveglio. Nei suoi primi cinque anni di vita si è trovata a operare a stretto contatto con l'amministrazione comunale, potendo contare su amministratori che avevano colto i concetti. E' stato in qualche modo sconvolgente, in quanto un'amministrazione targata Pd ha redatto un documento politico molto rischioso, in cui venivano sposate in toto le tesi di Transizione. Per quanto il paese conti solo 7 mila abitanti. Si sono susseguite una serie di conseguenze che hanno coinvolto altre realtà e per ultima l'Anci regionale su alcuni temi del Patto dei Sindaci, stabilito alcuni anni fa in riferimento alla riduzione delle immissioni inquinanti proposte in sede di Comunità Europea. Procedendo in questo modo, le contaminazioni del pensiero sono penetrate un po' ovunque. Oggi lavoriamo con le amministrazioni locali e con la Regione Emilia Romagna. Nello statuto della Città Metropolitana di Bologna abbiamo inserito i concetti di resilenza e di rispetto dei limiti per la pianificazione urbanistica. Sappiamo che avere articoli e principi scritti in uno statuto non basta, però, insieme all'accoglimento dei principi di oltre 60 sindaci, sono un evidente segnale di un cambiamento culturale in atto. Mi capita di andare in altre regioni, per esempio nel Lazio, nel Veneto o in Lombardia e quando racconto queste cose, si manifesta un certo stupore: alcuni sostengono che in quelle regioni non siano ancora fattibili.
Forse perché in Emilia siete più avanti?
Può essere. Abbiamo un tradizione diversa e siamo più attenti verso certe tematiche e innovazioni, ma propendo a credere che la contaminazione e l'assimilazione dei temi della Transizione, siano anche dovute al modo, completamente nuovo e difforme, con cui ci siamo interfacciati e relazionati. Penso sia stato determinante.
Il movimento Transition Towns ha una relazione con la spiritualità?
Pensiamo che sia una necessità umana di base. Siamo gli unici animali che hanno bisogno di avere questa dimensione che è appunto fisiologica. I delfini sono animali intelligenti, ma per quello che possiamo capire, non hanno bisogno di fare arte o coltivare lo spirito. Ognuno fa le sue scelte in base alle sue necessità. Transition opera nel mondo in contesti religiosi e spirituali enormemente differenti tra loro.
Il modello sociocratico utilizzato per le decisioni prese in Trasition Towns Italia
Invece con la politica istituzionale?
Ne avevamo in parte parlato prima. Gli strumenti che chiamiamo democrazia rappresentativa e le sue organizzazioni sono assolutamente inadeguati. Proprio per questo facciamo tanta ricerca e tanta pratica di modelli alternativi di governance. A livello globale utilizziamo al momento una versione adattata del modello sociocratico
Ci sono modelli di governance che vi sentite di consigliare?
Nella nostra “cassetta degli attrezzi” vengono evidenziati alcune metodologie, come quelle della democrazia deliberativa che è facilmente affrancabile al sistema democratico attuale per migliorarlo, oltre alla già citata sociocrazia nelle sue forme più contemporanee.Un esempio di buon uso della democrazia deliberativa può essere quello della sua applicazione alla fusione di comuni che ha visto coinvolto il comune di Monteveglio. La legge prevedeva un referendum che però è un pessimo strumento democratico, quindi gli abbiamo affiancato uno strumento di democrazia deliberativa, studiato appositamente per migliorare lo strumento referendario. Si chiama revisione civica, (civic review).
Come vi relazionate con gli altri movimenti e in particolare con la Decrescita Felice a voi più vicina?
Con la Decrescita Felice ci siamo ufficialmente sposati fin dal primo giorno. Ma non lo sa nessuno. In generale i sistemi organizzativi nascono secondo le logiche dei “compartimenti stagni” che regolano il nostro mondo, quindi non è facile mantenere in piedi relazione efficaci.
Eppure un mese fa avete costituito una rete comune.
Certo, ci si prova, e forse l’attuale indebolimento generale del sistema favorisce i percorsi di condivisione delle idee e delle risorse, vedremo quale guscio emergerà dal fiume.
Il Blog di Cristiano Bottone
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