A livello locale manca spesso un’analisi delle cause e delle contraddizioni antagoniste che si creano nella società. Molto spesso nei programmi elettorali si scrivono gli obiettivi che si vogliano raggiungere per superare una determinata situazione o un determinato problema, ma non si esplicitano le analisi e le cause profonde che l’hanno portato a quel livello di scontro tra esigenze opposte.
Parlando di una città e/o di un comune, subito si pensa alla sua vivibilità come bisogno primario (Maslow). Noto è lo scontro tra chi vuole cementificare il territorio rendendolo invivibile, cancellandone anche la sua memoria storica e le sue radici, e chi invece lo vuole difendere e tutelare perché quella situazione è diventata insostenibile.
Alcuni diranno che la colpa profonda è propria di un sistema (es. quello capitalistico) che porta a quei risultati, dove la forsennata ricerca del guadagno, porta alla distruzione della città e del territorio. Non bisogna poi dimenticare come la smodata ricerca del profitto si sia trasformata negli anni in accumulazione giocata anche sulle rendite finanziarie urbane e dai suoi intrecci tra profitto e rendita, a volte anche con forme illecite. In estrema e semplice sintesi: “il guadagno di pochi e il danno per molti”.
E’ bene ricordare che fintanto che la proprietà privata svolge anche un ruolo sociale, è riconosciuta dalla Costituzione che dice all’art. 42: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.”.
Questo articolo introduce il concetto di interesse pubblico e collettivo che oggi potremmo anche chiamare “Bene comune”. Anche la città e il territorio sono un Bene Comune e non possono essere deturpati e resi invivibili da un manipolo di speculatori e dai loro sostenitori più o meno interessati.
A questo punto si pone il problema di chi garantisce che quel principio costituzionale sia garantito. Evidentemente questo ruolo non può essere svolto da un privato, ma dallo Stato nel suo complesso, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni.
Come noto, il sistema politico italiano è organizzato secondo il principio della separazione dei poteri: il potere legislativo è attribuito al Parlamento (art.70 Cost.), al governo spetta il potere esecutivo (art.92), mentre la magistratura, indipendente dall'esecutivo e dal potere legislativo, esercita il potere giudiziario (art. 101). A questi tre poteri, si è da tempo aggiunto informalmente anche il cosiddetto 4° potere, cioè quello dei mezzi di comunicazione di massa (stampa, tv, oggi anche i social, ecc.).
Gli strumenti urbanistici e la loro gestione, nel proprio campo, possono fare la differenza e devono governare le trasformazioni del territorio. Non a caso, l’articolo 9 della Costituzione, recentemente modificato, precisa che:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.”.
Ma da dove si deve partire per comprendere le necessità di una collettività? A mio parere, dalla attendibile previsione dei suoi reali fabbisogni e non dagli appetiti di alcune decine di speculatori economici e finanziari. Un mercato senza regole e considerato come illimitato porta e enormi diseguaglianze sociali e la rovina del territorio. Altresì si dica per un controllo del tutto centralizzato che rischia di trasformarsi in una dittatura economica (e non solo quella) dello Stato.
E’ nota la frase di Churchill che diceva nel ’47 alla Camera dei Comuni: La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora.”
Il 5° potere. Nella situazione attuale, dove molto spesso alle elezioni a qualsiasi livello i votanti sono meno della metà degli aventi diritto al voto, viene da pensare che le forme spontanee di organizzazione in associazioni e in comitati, in continuo aumento, costituiscano una sorta di 5° potere che potremmo definire come popolare e “non parlamentare”.
Accade quindi che i cittadini, ormai stanchi delle continue promesse fatte in campagna elettorale, mai mantenute o del tutto contraddette, si stiano organizzando da soli anche aggregandosi tra loro. Il distacco della popolazione dai partiti è in continuo aumento, mentre i partiti stessi, sono sempre più succubi del potere economico, pur restando formalmente i decisori politici.
Queste mie considerazioni non hanno la pretesa di essere fatte da un giurista o da un sociologo, ma potrebbero fornire alcuni spunti di riflessione per tutti coloro che non vedono la politica come mero esercizio del (proprio) potere o come occasione di (propria) carriera politica o professionale. Se non peggio.