media mainstream
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Bernie Sanders furioso con capitalismo e oligarchi nel suo nuovo libro e in Congresso
Recensione di It's OK to Be Angry with Capitalism,l'ultimo libro di Bernie Sanders che illustra il sistema oligarchico spacciato per democrazia e i metodi per contrastarlo. Molti sono gli episodi autobiografici tra cui le guerre sferrategli dall'establishment democratico nelle corse presidenziali e la sua partecipazione accanto ai lavoratori in lotta per ottenere i sindacati.
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Intervista con l'icona progressista Nina Turner, candidata al Congresso nelle elezioni di midterm.
Icona del progressismo americano, carismatica alleata di Bernie Sanders e sua diretta erede naturale, Nina Turner torna a correre per il Congresso dopo la sconfitta subita l'estate scorsa nell'elezione speciale dell'Ohio, vinta dalla candidata scelta dall'establishment Shontel Brown. Nell'intervista rilasciatami il 22 febbraio 2022 Nina racconta di quella sconfitta, della necessità per i progressisti di non demordere, del primo anno di Biden e di altro ancora.
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USA: nel primo anno di presidenza "l'agenda progressista" di Biden bloccata dalla corruzione di Manchin e Sinema
Punte dell'iceberg della corruzione democratica, Joe Manchin, proprietario di industrie fossili che trattano carbone di pessima qualità, e Kyrsten Sinema, enormemente finanziata da Big Pharma e Camera di Commercio, continuano a trarre ingenti profitti personali contrastando provvedimenti socio-sanitari, diritti di voto, riforma del filibuster e misure contro il cambiamento climatico, tra l'inerzia di Biden e il silenzio dei media mainstream.
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Insediamento Biden-Harris: i guanti di Bernie a un'inaugurazione sbagliata
Come si arrivati è all'insediamento di Joe Biden e Kamala Harris; la falsa retorica dei media mainstream sull'inizio di "una nuova era" nella parata biparisan dei potenti pro-corporation; l'utilizzo fuori posto di "This Land is your Land" di Woody Guthrie; l'autenticità e la purezzza di Amanda Gorman col suo poema e di Bernie Sanders con i suoi guantoni.
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Che la giornata dell’insediamento di Joe Biden e Kamala Harris sia destinata a far capitolo a sé nella storia degli Stati Uniti è fuori discussione per una molteplicità di motivi, alcuni dei quali ormai scontati e altri del tutto imprevedibili. Ripercorrendo alcuni momenti salienti che hanno portato allo storico giuramento del 20 gennaio 2021, consideriamo qualcuno di quei motivi, smontando i fiumi di ipocrisia con cui alcuni dati di fatto sono stati caricati di connotazioni eccezionali e positive che non hanno, cercando però al contempodi intravedere dei segni di speranza, oltre che nei guanti di Bernie, in qualche altro momento di quella cerimonia.
La retorica e la sostanza della “Nuova Era”
Strettamente connesso alle false retoriche di Cnn Msnbc & Co. e di Joe Biden è lo sconforto rinnovatosi più forte che mai in milioni di persone convinte che quel giuramento spettasse a Bernie Sanders, cosa che avrebbe dato sia una sostanza concreta a espressioni ripetute fino alla nausea quali “inizio di nuova era”, “vittoria della democrazia”, “trionfo della giustizia”, “prevalere della verità”, sia un significato ben diverso al ribadito richiamo di Biden “all’unità e all’anima della nazione”.Tutte formule che danno il benvenuto allo status quo che precedeva gli anni di Trump, causati, è bene ribadirlo, da due fattori interdipendenti.
Primo: il fallimento dell’ammistrazione Obama-Biden, di cui Hillary Clinton era vista come la continuazione naturale, che fin dall’inizio aveva tradito gli elettori giovani e progressisti formando un governo pieno di artefici della crisi del 2008, e collaborando con i repubblicani anche nei primi due anni, quando tutto il Congresso era democratico.
Quel tipo di governo viene ora riproposto più o meno simile, come dimostrano tanto l'insistenza Biden sull'intenzione di lavorare con i repubblicani, quanto il suo “Cabinet of Firsts” che, come sottolinea The Intercept, “mostra un approccio cinico alla diversità”. Biden “punta l’enfasi sulla diversità per assicurarsi un’eredità presidenziale storica ancora prima di entrare in carica”, ma quelle scelte illustrano “come i Democratici sappiano usare il linguaggio del multiculturalismo senza prendere provvedimenti forti per aiutare la gente marginalizzata”. A dispetto insomma delle crocette messe su tutte le caselline riguardanti genere, razza e orientamento sessuale, il fatto è che la maggior parte dei ministri e collaboratori di Biden ha stretti legami con lobby e corporation in affari con le varie sezioni governative.
Secondo: le bugie e le calunnie su Bernie Sanders a cui quella informazione “liberal”, che ora celebra la vittoria di verità giustizia e democrazia, ha fatto da potentissima cassa di risonanza nelle primarie del 2016, ignorando volutamente gli imbrogli messi in atto da Hillary Clinton e dall’establishment democratico.
Il ruolo dell’establishment democratico e dei media nelle primarie 2020
I boicottaggi contro Bernie si sono ripetuti anche nelle ultime primarie fin da molto prima delle vicende apocalittiche del 2020 e dei conseguenti comportamenti di Trump. Un esempio su tutti è quel “Bernie mi fa accapponare la pelle” spiattellato senza spiegazioni e senza contraddittorio in un panel della Msnbc dalla consulente legale Mimi Rocah nella primavera 2019.
Con l'inizio, il 3 febbraio 2020, delle fasi operative del voto, la prima truffa è andata in scena proprio nella notte di esordio col mancato arrivo, per la prima volta nella storia, dei risultati del caucus dell'Iowa. I “disguidi informatici” della misteriosa ditta “Shadows” appaltata per elaborarli, che aveva collegamenti con Pete Buttigieg e Hillary Clinton, sono stati il pretesto per comunicare nei giorni successivi risultati parziali che davano al giovane Mayor Pete dei vantaggi su Sanders che in effetti non aveva, favorendolo nel New Hampshire e offrendo a diversi “giornalisti” l’occasione di ridicolizzare Bernie battuto da un ragazzino. Lo scorso dicembre le collusioni del Comitato Democratico Nazionale e del suo presidente Tom Perez in quella brutta vicenda sono state definitivamente provate, ma diffuse solo da fonti indipendenti.
Il supertuesday del 3 marzo 2020 e il l’arrivo della pandemia
Tuttavia, nonostante i boicottaggi, dopo le tre vittorie consecutive di Iowa, New Hampshire e Nevada, Bernie Sanders, avviato verso una quasi certa conquista di una consistente maggioranza relativa, terrorizzava l'establishment democratico, tanto che concorrenti presidenziali e opinionisti avevano cominciato a parlare della necessità che alla convention generale si arrivasse a una maggioranza assoluta, anche attraverso una seconda votazione che avrebbe visto l’intervento dei superdelegati, esclusi dalla prima, dotati del superpotere di ribaltare il voto popolare. Come sappiamo non ce n’è stato bisogno, soprattutto grazie al Covid, intervenuto come una manna a miracolare Joe Biden. Ma le manovre per il suo recupero sono cominciate prima della conclamazione statunitense della pandemia, quando, a due giorni dal supertuesday del 3 marzo (dove Bernie era dato per vincente in una decina di stati su quattordici), “qualcuno” ai vertici del partito, “ha invitato" Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, i due candidati in quel momento più forti dopo Bernie, a ritirarsi dalla corsa per sostenere Joe Biden.
Nonostante la bella vittoria del 29 febbraio in South Carlina, dovuta in buona parte all'endorsment del potente deputato afroamericano Jim Clyburn,“il padrino della politica democratica” di quello stato, arrivato tre giorni prima del voto, Biden, reduce da tre precedenti sconfitte pesantissime, aveva scarse prospettive per il 3 marzo, poiché ormai da tempo senza soldi non aveva neppure aperto un ufficio elettorale in diversi di quegli stati stati. “L’obbedisco” di Pete (ora risarcito col ministero dei trasporti) e Amy (finora organizzatrice della giornata inaugurale), che di tutto potevano avere in mente tranne che di ritirarsi galvanizzati com’erano dai loro risultati di febbraio, ha così regalato a Joe Biden la vittoria in dieci stati lasciandone a Bernie solo quattro. E questo, è il caso di ripeterlo, in un momento in cui negli Stati Uniti il Covid 19 era ancora soltanto un fenomeno italiano.
La riesumazione di Joe Biden voleva dunque dire dirigersi consapevolmente verso una sconfitta quasi certa contro un Donald Trump non ancora compromesso dai comportamenti disastrosi dei mesi successivi, sebbene la sua base adorante non si sia mai spostata di un millimetro neanche dopo. Ancora una volta l’intero sistema democratico, a parole vicino al suo elettorato ma nei fatti distante anni luce, ha dimostrato di preferire alla presidenza Sanders un bis di Trump che, pur con l’enorme responsabilità di avere sdoganato e amplificato il suprematismo bianco (per quanto allora non ancora ancora spinto fino ai punti che oggi conosciamo), aveva comunque fatto gli interessi di quella palude bipartisan che aveva promesso di prosciugare.
Beati gli ultimi perché saranno i primi
Ecco dunque come “l’ultimo” dei big, artificialmente portato in pole position dalle strategie del suo ex-capo, è diventato, almeno momentaneamente “il primo”. Un momentaneamente che valeva però solo nella testa di chi ancora sperava, invano, in un ravvedimento di Elizabeth Warrenche, sebbene precipitata a causa dei continui voltafaccia, aveva ancora tre o quattro giorni di tempo per unirsi a Bernie e al movimento progressista, permettendo la formazione di una coalizione che avrebbe goduto del supporto di Marianne Williamson, Tulsi Gabbard e Andrew Yang, già sostenitori di Sanders quattro anni prima, e magari, anche se non lo sapremo mai, di qualche carrierista a caso col piede in due scarpe.
La diffusione della pandemia e il mancato rinvio delle successive primarie, vergognosamente vendute da Tom Perez come non rischiose per non compromettere il momentum di Biden, hanno fatto il resto, chiudendo in fretta la partita. Bernie è stato accusato di mollare troppo presto, ma capendo che ormai i giochi erano fatti ha preferito dedicarsi con tutte le sue forze alla protezione dei più deboli, anche girando la sua raccolta fondi a favore dell’aiuto concreto di una piccola parte dei milioni di persone in difficoltà a cui la nazione più ricca del mondo non dava risposte nemmeno nella tragedia della pandemia.
Ed è così che Joe Biden, “l’ultimo diventato il primo”, è rimasto tale senza colpo ferire, rintanato nel letargo del suo scantinato di Wilmington dal quale riemergeva di tanto in tanto per leggere qualche comunicato dal teleprompter.
Bizzarra connotazione della parola cristiana “beati gli ultimi perché saranno i primi”.
Una bizzarria ancora più strana per Kamala Harris, una “prima” diventata “ultima” per poi ridiventare “prima”. Come raccontato su Jacobin Italia in Si scrive Kamala Harrisi, si legge Hillary Clinton, Harris, partita come punta di diamante e salita ulteriormente nei sondaggi dopo aver dato del segregazionista a Joe Biden (“that little girl was me”), è poi crollata sia perché smascherata su provvedimenti discutibili presi da procuratrice, sia per il doppiogioco su posizioni sandersiane che millantava in pubblico e ritrattava dietro le quinte. Per non perdere la faccia, Kamala ha abbandonato le scene senza nemmeno affrontare la competizione dei voti reali, calcolando che quel ritirole avrebbe permesso di riciclarsi in attesa della scelta vicepresidenziale.
Il blocco di Kamala Harris al ristoro di 2000 dollari
Nel frattempo però in Senato i suoi trucchetti sono andati avanti. Il suo “no” alla proposta di Bernie Sanders di tagliare del 10% i 740 miliardi di dollari per le spese militaria favore di interventi per le classi sociali più colpite dal covid ha curiosamente a che fare anche con il suo ultimo voto in Senato alla fine di dicembre, dopo che la Camera aveva approvato il passaggio da 600 a 2000 dollari come ristoro per i meno abbienti, come persino Donald Trump aveva sollecitato.
Passata sotto silenzio dai media mainstream ma ben documentata da David Sirota sul Daily Poster e su Jacobin Magazine, la questione riguardava l’intenzione di Bernie Sanders di fare ostruzionismo, se prima non fosse stato approvato lo Stimulus Bill con i 2000 dollari, sull’approvazione di un’altra legge, per coincidenza proprio quella delle spese del Pentagono. Donald Trump l’aveva infatti reinviata al Senato perché vi aggiungesse alcune clausole, ma il Senato poteva comunque passarla indipendentemente dal veto presidenziale. Non appena Mitch McConnell ha chiesto di approvare quella legge prima dello Stimulus Bill, Kamala è stata tra i moltissimi che hanno votato sì, impedendo l'ostruzionismo di Bernie, dando il via libera senza condizioni a un’approvazione che sarebbe comunque avvenuta nel giro di pochi giorni. e relegando invece allo stallo la legge sui ristori da 2000 dollari. E pensare che proprio lei in maggio se ne era fatta promotrice insieme a Bernie Sanders e a Ed Markey, sostenendone la necessità e l’urgenza. Per la cronaca quella legge è ancora lì che aspetta, così come aspettano i milioni di americani in difficoltà, moltissimi dei quali di colore come Kamala, che di quei soldi per loro vitali avrebbero potuto beneficiare.
Comunque, visto che la speranza è l’ultima a morire, c’è sempre la possibilità che Kamala facciadietro-front rispetto ai suoi abituali comportamenti a vantaggio di altri che favoriscano quelle fasce della popolazione che dice di rappresentare e di voler proteggere.
“The Hill We Climb” di Amanda e i guanti di lana di Bernie
Chissà che non possa indirizzarla sulla strada giusta l’intervento dell’incantevole creatura materializzatasi ad un certo punto della cerimonia con un cappottino giallo e un nastro rosso nei capelli. Ha commosso tutti Amanda Gorman, la giovanissima poetessa che ha accompagnato con delicati e armoniosi gesti delle sue piccole mani la potente declamazionedel suo “The Hill We Climb”, un ”Urlo” ginsberghiano del ventunesimo secolo insanguinato dal razzismo, ma anche colmo di speranza.
Si sa che la commozione, perfino quella suscitata da un’apparizione forte come quella di Amanda, ha quasi sempre breve durata, eppure a volte può capitare che ciò che l’ha provocata si imprima nel profondo, lasciando messaggi e significati non più ignorabili.
Nel loro piccolo anche i guanti di Bernie hanno inconsapevolmente lanciato un messaggio carico di significati. In maniera più prosaica e senza l’aura di bellezza ed elegia che Amanda ha diffuso intorno a sé, ma con la stessa purezza, onestà e autenticità “the Dad of America” era lì. Seduto in disparte, quasi che il Covid in tutta la sua crudeltà gli avesse comunque concesso il regalo di potersi smarcare da quella folla di politici così diversi da lui. Era lì con il parka, la mascherina, quella cartelletta arancione che sembrava dire “dai sbrighiamoci con questi orpelli che il lavoro ci aspetta”.E con le sue manopole giganti fatte di lana riciclata da una maestra del Vermont, indossate per ripararsi dal freddo proprio come si fa nel Vermont, senza immaginare quale ripercussione avrebbero avuto. Quasi volessero testimoniare l’esistenza di una giustizia superiore o di un “caso” resosi conto che quando è troppo è troppo, quei guanti hanno restituito a chi li indossava la dimensione di realtà che la propaganda dei media gli ha sempre rubato, diffondendola finalmente in tutto il mondo attraverso un’inondazione di meme scherzosi e spassosi ma mai irridenti. E chissà che la curiosità stimolata su quel vecchietto per molti ancora sconosciuto, ma appena diventato presidente della commissione budget del Senato, non faccia di lui un esempio da seguire, magari trasformando “the dad of America” in “the dad of the world”.
This land is your land
E allora, proprio in virtù dell’autenticità di Amanda e di Bernie trova posto un terzo elemento di purezza che era parso un po’ stonato in quella inaugurazione all’insegna della retorica e della forma, la “This land is your land” cantata da Jennifer Lopezprima della comparsa di Amanda.La canzone, diventata l’inno di battaglia dei “Feel the Bern” fin dal 2015, in quel contesto suonava quasi come un’offesa a Woody Guthrie.Lui, l’hobo per eccellenza, l’interprete delle voci dei milioni di ultimi diventati sempre più ultimi nel mondo delle disuguaglianze sempre più estreme, il cantore che aveva scritto una canzone per Franklin Delano Roosevelt ma che mai si sarebbe potuto sentire a suo agio, come Bernie, a quella riunione di potenti enfaticamente celebrata come “l’inizio di nuova era”, ma priva di gran parte della “sostanza” tanto importante per Woody. Perché se è vero che sconfiggere Trump era sostanziale per l’inizio di una nuova era, così come lo era per Woody sconfiggere i fascisti durante la guerra, è anche vero che il messaggio sulla sua chitarra, “this machine kills fascists”, andava ben al di là dell’interpretazione letterale e della contingenza temporale. Quel messaggio voleva dire, proprio come “This land is your land, this land is my land …this land was made for you and me” e tutti i versi apparentemente folcloristici e patriottici ma carichi di significati politici e sociali, che ci sono altri obiettivi sostanziali da raggiungere prima che gli Stati Uniti possano davvero essere quella terra di democrazia che pretendono di essere. Quegli obiettivi erano ancora lì dai tempi di Woody Guthrie e di FDR, in attesa di un presidente come Bernie che cominciasse a dare loro consistenza. Invece è arrivato Joe.
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2013-2019: cronistoria parallela di Bernard Sanders e Pier Luigi Bersani
Passato il timore per l'improvvisa operazione chirurgica di Bernie Sanders, ripercorriamo alcuni momenti politici significativi per il senatore americano e per Pier Luigi Bersani, facendo qualche confronto tra i due uomini, all'insegna del motto "Not Me Us", e tra i loro due Partiti Democratici di riferimento, giocando contemporaneamente con shakespiriane trame di potere e coincidenze alfanumeriche.
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La propaganda della CNN: Sanders vs O’Rourke
Prendendo a paradignama la CNN, ed in particolare le breaking news per le candidature di Bernie Sanders e Beto O’Rourke, tentiamo un’analisi di alcune delle strategie di cui si serve l'informazione mainstream per fare propaganda pro o contro i personaggi politici graditi o invisi all'establishment.