Passato il timore per l'improvvisa operazione chirurgica di Bernie Sanders, ripercorriamo alcuni momenti politici significativi per il senatore americano e per Pier Luigi Bersani, facendo qualche confronto tra i due uomini, all'insegna del motto "Not Me Us", e tra i loro due Partiti Democratici di riferimento, giocando contemporaneamente con shakespiriane trame di potere e coincidenze alfanumeriche.
Premessa
Quasi completato una settimana fa, il seguente articolo ha subito un imprevisto arresto martedì scorso per l’improvvisa notizia che Bernie Sanders, ricoverato in un ospedale di Las Vegas per dolori al petto, aveva subito un intervento chirurgico nel quale gli erano stati inseriti due stent in un’arteria. Come per i milioni di persone che vogliono bene a Bernie quasi fosse di famiglia, l’iniziale paura è stata relativamente attenuata dalle rassicurazioni del successo dell’intervento, definito di routine, e dal tweet da guerriero inviato da Bernie stesso non molte ore dopo. Ma è stato solo nel fine settimana che si è potuto tirare un sospiro di sollievo, prima con il video in cui il senatore, sorridente e in forma accanto a sua moglie Jane, ringraziava tutti e annunciava la sua partecipazione al prossimo dibattito del 15 ottobre, e il giorno dopo con le riprese della sua dimissione dall’ospedale.
L'improvviso intervento chirurgico di Bernie Sanders della settimama scorsa ha ricordato quello di Pier Luigi Bersani del 2014, soprattutto per l'affetto dimostrato ai due uomini dalla gente comune. Molto diverso invece il momento politico in cui sono stati colti dalle rispettive malattie.
Inevitabile, soprattutto dato il tema dell'articolo, sia il ricordo dell'emorragia cerebrale di Bersani nel gennaio 2014 e di come quei giorni di prognosi riservata siano stati vissuti da tantissimi italiani con grande preoccupazione e affetto, sia una prima analogia tra i due uomini per la sincerità e intensità delle reazioni emotive suscitate nella gente comune in occasione di eventi a rischio per la vita.
Per nulla analogo invece è il momento politico in cui Bersani e Sanders sono stati colti dalle rispettive malattie. Le conseguenze politiche sono infatti molto più preoccupanti per Bernie di quanto non lo fossero nel 2014 per Bersani.
A quell'epoca Bersani era già stato fatto fuori, sebbene non senza qualche responsabilità personale, dalle manovre di uno dei due Mattei della politica italiana che potremmo definire, anticipando gli annunciati riferimenti shakespiriani, due doppi del Riccardo di Gloucester nel subdolo percorso per arrivare al regno. Assicuratosi l'appoggio di vari duchi di Buckingham e di baroni minori, smaniosi di far parte della corte del futuro re Riccardo III, Matteo Renzi, ormai incurante non solo di Bersani ma anche di Gianni Cuperlo e Pippo Civati stracciati un mese prima nelle primarie del PD, stava per rivolgere le sue attenzioni al presidente del consiglio Enrico Letta con quello “stai sereno” che avrebbe trasformato il significato dell’espressione. Un’espressione che sembrava presa pari pari dalla scena in cui Riccardo, dopo avere tramato con successo per fare incarcerare suo fratello Giorgio, lo rassicura amorevolmente sul fatto che lo tirerà fuori di prigione quanto prima. In effetti Giorgio lascerà la cella della Torre di Londra molto presto grazie alla “serenità eterna” donatagli da due sicari mandati da Riccardo.
Terrorizzati dalle concrete possibilità di vittoria di Bernie, i media mainstream, governati dai poteri forti della finanza, hanno già cominciato ad appofittare dell'intervento chirurgico nella loro instancabile vergognosa propaganda.
Bernie Sanders oggi è invece più che mai al centro della feroce guerra avviata contro di lui nel 2015. Il Riccardo e la folla di cortigiani con cui se la deve vedere sono un Moloch più mostruoso di quello affrontato da Bersani, comprendendo, come nel 2016, non solo l'establishment democratico a partire dal comitato direttivo, il DNC, ma tutti i poteri forti di finanza e megacorporation, più tutti i media mainstream, compresi quelli "liberal" ed antitrumpiani la cui propaganda contro Bernie è paradossalmente più calunniatrice e basata su menzogne di quella di Fox News. Figuriamoci dunque che cosa riusciranno a fare, in effetti già lo stanno facendo, ora che un attacco cardiaco c’è effettivamente stato, sebbene risolto egregiamente, abbinandolo ai 78 anni del senatore.
Pier Luigi Bersani nell'attuale contesto italiano
Imbattibili il tempismo e la strategia da Riccardo III con cui Matteo Renzi ha appofittato dell'autogoal dell'altro doppio di Riccardo Matteo Salvini.
Volendo scegliere, in ambito PD o ex-PD, due infelici ricadute delle vicende che si stanno susseguendo dall’8 agosto, nelle quali alle trame shakespiriane si è aggiunto il mix di assurdo, surreale e grottesco alla Jonesco, Dürrenmatt e Brecht messi insieme, la piu scontata è la rinnovata onnipresenza protagonistica di Matteo Renzi. Il tempismo e il calcolo strategico della sua mossa, nel momento in cui l’altro doppio di Riccardo Matteo Salvini segnava il suo clamoroso autogoal, sono stati tali che nemmeno il Riccardo originale avrebbe saputo far meglio. Una seconda, tra le tante, è il ritorno al ministero della cultura di Dario Franceschini, un duca di Buckingham molto più astuto e lungimirante di quello vero.
Tra le ricadute positive invece, oltre alla momentanea sparizione dal governo di Salvini, che comunque è ancora ben lontano dal perdere quel cavallo che a fine tragedia Riccardo III invoca sul campo di battaglia urlando “Il mio regno per un cavallo”, vi è la frequente ricomparsa sui media di Pier Luigi Bersani, seppure insufficiente per fare da antidoto a quella di Renzi.
Seppur insufficienti per fare da antidoto all'onnipresenza di Renzi, le frequenti apparizioni di Bersani, richiamato in causa per la diretta streaming del 2013, portano un’ondata di genuinità ed onestà oltre ad istanze politiche alla “Not Me Us” di Bernie Sanders.
Il suo tentativo di mettere insieme PD e 5 Stelle, fallito nella famosa diretta streaming del 27 marzo 2013 ed ora diventato realtà, lo ha infatti richiamato infatti in causa da profetico protagonista. Pur non dimenticando alcuni suoi errori, tra cui spicca il mancato appoggio di Stefano Rodotà in quei complicati giorni post-elettorali del 2013 che avevano conclamato il tripartito, il ritorno di Bersani porta un’ondata di genuinità ed onestà oltre ad istanze politiche alla “Not Me Us” di Bernie Sanders. Quanto poi ciò pesi o peserà nella nuova compagine governativa è purtroppo tutta un’altra questione. Tuttavia, ora che la realtà ha dimostrato di superare la fantasia, potrebbe essere non così fantastica l'idea di Bersani alla guida di un movimento che prendendo esempio dalla Political Revolution di Bernie Sanders, sul quale nel 2014 nessuno avrebbe scommesso un centesimo, possa aggregare in Italia coloro che credono possibile la costruzione di una sinistra ispirata al “democratic socialism” o “socialist democracy” di cui Bernie si è fatto portabandiera, diventando quella realtà che terrorizza l'establishment. Poiché ultimamente Bersani ho dato più volte fatto riferimento ad un nuovo movimeto in cui, come ha detto ieri sera a Di Martedì, sarebbe indifferentemente disposto a fare da "capitano o mozzo", e siccome lui stesso ha spesso citato Bernie Sanders, vediamone possibili analogie ripercorrendo i loro ultimi anni. Prima però qualche gioco con lettere e numeri.
BER-SAN-I, BER(nard) SAN(der)S e i numeri 27 e 3
Tra gli elementi alfanumerici di stampo un' po enigmistico e un po' enigmatico con cui giocheremo, partiamo con il buon auspicio della composizione letterale del cognome di Bersani, formato dalle prime tre lettere di Bernard e di Sanders, più la “i” che rappresenta il plurale italiano della “s” finale di Sanders. Esagerando potremmo anche azzardare un neologismo come “Bersander”, un diminutivo come ”Bersie" e un "Feel the Bers” come uno dei motti per quell'ancora fantomatico movimento alla “NOT ME US” .
Quanto ai numeri cominciamo con il 27 e il 3, giorno e mese della diretta straming che ora rivaluta Bersani.
27 è il numero simbolo di Bernie dal 2015, quando 27 dollari erano risultati essere la media delle donazioni ricevute per la sua campagna presidenziale che, anche oggi come allora, non contempla alcun tipo dei mega-finanziamenti di cui si sono avvalsi e si avvalgono gli altri candidati, compresa l’apparentemente immacolata, ma in effetti molto ambigua, Elizabeth Warren. Pur vantandosi di condurre le primarie senza accettare “big money”, sta usando parte di quei 10 milioni messi da parte nella campagna senatoriale del 2018 durante la quale non si è sdegnata di prenderlo. Non stupisce dunque che contrariamente a Bernie non solo non sia odiata dall'establishment, ma sia anzi calorosamente sponsorizzata, soprattutto ora che Biden è a serio rischio e che gli altri candidati si stanno dimostrando molto deboli.
Unico tra i candidati, Bernie ha superato il milione di donatori unici, spesso persone che possono donare solo pochissimi dollari. I suoi principali elettori sono i lavoratori di Walmart, Sturbucks e Amazon e gli insegnanti.
27 dollari è dunque la cifra che Bernie chiede ai sostenitori che se lo possono permettere, è il prezzo delle magliette, dei manifesti e di altri articoli del merchandizing ufficiale che, così come le donazioni, è ad esclusivo appannaggio di cittadini americani. Sapendo quanto la sua base appartenga alle classi sociali meno abbienti, 3 dollari è l'altra cifra richiesta ai destinatari della sua mailing list. Va notato che, unico tra i candidati presidenziali, Bernie ha già superato il 1 milione di donatori unici distanziando enormente tutti gli altri. In quest’ultimo trimestre ha raccolto la stratosferica cifra record di 25 milioni, con una media che si è abbassata a 18 dollari, confermando come il suo seguito si sia ulteriormente esteso tra coloro che maggiormente soffrono delle ingiustizie del sistema americano. I suoi elettori vedono in prima fila i lavoratori di Walmart, Sturbucks e Amazon, oltre agli insegnanti, grande bacino di voti anche del PD italiano pre-renziano.
Bersani, la diretta streaming del 2013 e l'odierno "governo del cambiamento"
Rivedere adesso sia quella mezz’ora di trattative tra Bersani, affiancato da Enrico Letta, e Vito Crimi e Roberta Lombardi, sia le dichiarazioni post incontro dei due grillini, mostra tutta l’arroganza e la mancanza di lungimiranza del Movimento 5 Stelle per aver sbattuto la porta in faccia a Bersani, che con umiltà e saggezza chiedeva un accordo su “un pacchetto d’urto sul tema sociale e un pacchetto sul grande tema della moralizzazione” , nello specifico evasione fiscale, corruzione, riciclaggio, guerra alla mafia, specificando dunque punti non estranei a quelli che il Movimento aveva sbandierato per tutta la campagna elettorale.
Il “pacchetto d’urto" sui temi sociali sulla moralizzazione della politica proposto da Bersani non era "potabile" per il centro-destra.
Consapevole che quel "pacchetto d'urto" non era “potabile per tutti”, vale a dire lontano anni luce dal centro-destra, che l'intransigenza e la rabbia dei grillini avevano solide e giustificabili motivazioni, che tanti erano gli elettori PD confluiti tra le loro fila e che quindi in quel momento c'era una forte contiguità nell'essenza di sinistra di molti elettori grillini, Bersani aveva visto in un accordo programmatico con il Movimento 5 Stelle, malgrado il suo disprezzo per l’autoritarismo con cui veniva gestito, l’unica possibilità per un reale cambiamento. Quel cambiamento che ora ci viene rifilato a sei anni e mezzo di distanza, senza Bersani in prima linea, con un Movimento 5 stelle indelebilmente macchiato dall'alleanza con la Lega, e soprattutto privo delle prospettive e della piattaforma che forse si sarebbero potute realizzare allora. A differenza di oggi i grillini avrebbero infatti avuto l’opportunità e la forza di imporre il veto su equivoche personalità, vecchie e nuove, di un PD ormai inesorabilmente diretto verso lo sfaldamento e verso la metamorfosi operata dalla divaricazione sempre più ampia con la sua base popolare. Senza contare che ci saremmo risparmiati la patetica pantomima dei capricci di Luigi Di Maio per restare inchiodato alla poltrona.
Ma le mosse di Bersani contrastavano con i piani pronti in casa sua per dare il via al governo di larghe intese, e non stupisce dunque che a quei tempi i commenti sull’umiliazione di Bersani si sprecassero, a dispetto della perspicacia profetica delle sue parole:
«Io vi rendo avvertiti, proprio ve lo dico in scienza e coscienza da una persona che non è ambiziosa (…) io ritengo la cosa che sto dicendo, la cosa realistica. Fuori da questo io vedo un meccanismo che ci porta a passare dal faremo, diremo, all’avremmo potuto farlo, avremmo potuto provarci.»
Dopo la diretta streaming, Bersani cercò l'aiuto di Napolitano per provare a formare un governo in aula senza il centro-destra, ma il presidente gli disse di no..
Comunque in quel momento fu soprattutto il no dei grillini, che volevano governare da soli, il primo passo verso quel “governissimo” che Bersani cercò ancora di contrastare sperando di trovare un appoggio in Napolitano, al quale chiese esplicitamente di concedergli la possibilità di cercare una maggioranza in aula. Napolitano però gliela negò, fece un ultimo consapevolmente inutile giro di consultazioni, forse per far sembrare meno perentoria la sua liquidazione di Bersani, e passò oltre. Nominò “10 saggi”, rigorosamente appartenenti alle aree governative e parlamentari pre-elettorali, che individuassero alcuni punti alcuni programmatici su cui far convergere le rispettive forze politiche, e garantì la piena operatività del governo Monti fino all’elezione del nuovo presidente che programmò per il 18 aprile.
Dalla carica dei 101 alle dimisssioni di Bersani dalla segreteria PD
Aprile 2013: il triste capitolo della rielezione di Giorgio Napolitano, invece di Stefano Rodotà, vide anche incomprensibili mosse di Bersani in antitesi tra loro e in contraddizione con le sue stesse posizioni.
E fu proprio quello il capitolo più triste di quella primavera 2013, che non solo fece esplodere tutti i vecchi bubboni del PD e portò a maturazione le trame più recenti, ma vide anche gli errori di Bersani il quale, probabilmente sfinito per un insieme di motivi complessi, logoranti e conflittuali, infilò una serie di mosse non solo in completa antitesi tra loro, ma anche in contraddizione con le sue precedenti posizioni. Candidò Franco Marino, in sostanza aprendo al centro destra e scatenando le ire furenti della folla che, all’esterno del teatro Capranica al civico palindromo 101 dell’omonima piazza dove si riunivano i quasi 500 grandi elettori del centro sinistra, chiedevano a nome della maggioranza della base il voto per Rodotà, proposto dai 5 Stelle come “candidato dei cittadini e non dei partiti”. Passata con soli 222 voti dei grandi elettori, la candidatura di Marino fu bocciata anche in aula. Ancora ignorando Rodotà, Bersani passò allora dal candidato gradito al centro destra al suo peggior nemico, Romano Prodi, che dopo l’apparente approvazione di tutti al civico 101 venne silurato in aula da 101 franchi tiratori.
Forse per la regola del non c’è il due senza il tre, in quel caso più un maleficio che una regola, Bersani invece di approfittare dell’ultima possibilità di convergere con i 5 Stelle su Rodotà, cosa che avrebbe potuto riaprire quella porta sbattutagli in faccia ed evitare in extremis gli “avremmo potuto” da lui stesso ipotizzati una ventina di giorni prima, si aggregò incomprensibilmente all’ammucchiata che, fatti salvi i grillini, SEL e qualche PD, implorava Napolitano di accettare una seconda candidatura.
19 aprile 2013: Renzi approvò le dimissioni di Bersani e dichiarà che nel suo piccolo avrebbe fatto di tutto per dare una mano al Pd e all'Italia.
Contemporaneamente però rassegnava le dimissioni da segretario del PD, così salutate da Renzi: «Trovo inevitabile e saggio che Bersani abbia annunciato le sue dimissioni e spero che il mio partito possa subito uscire dalla delicata crisi che stiamo attraversando dal dopo elezioni: nel mio piccolo farò di tutto per dare una mano al Pd e al Paese (…) E spero tanto che i grandi elettori facciano il loro dovere, con trasparenza e senza i disgustosi giochini di ieri.» I "disgustosi giochini" fanno ovviamente riferimento alla carica del 101 tra i quali non potevano non esserci duchi e baroni della sua imminente corte reale.
Il resto è storia. Prima di passare oltre però suggeriamo la lettura dell’articolo di Chiara Geloni “I giorni bugiardi continuano … e i 101 diventano 202”, non tanto per i palindromi, ma perché è un gran bel pezzo di analisi politica scritto in quei giorni.
Il 25 febbraio 2017 per Bernie e Bersie
Nel giorno in cui Bersani lasciava il PD e fondava Articolo 1- Movimento Democratico e Progressista, lo yes man dell'establishment dem americano Tom Perez veniva eletto presidente del Comitato Democratico Nazionale.
Con un ellissi temporale andiamo al 25 febbraio 2017, quando Pier Luigi Bersani, ormai impotente di fronte al PDR (PD di Renzi), lasciò la ditta e insieme a qualche altro big e diede vita ad Articolo 1- Movimento Democratico e Progressista, un partito purtroppo destinato a non raccogliere il sostegno sperato, nemmeno nella sua successiva unificazione con altre formazioni di sinistra in LEU.
In quello stasso 25 febbraio 2017, l’establishment del Partito Democratico americano eleggeva lo yes-man del potere Tom Perez a nuovo presidente del DNC, riconfermando il rifiuto di qualsiasi orientamento progressista nell’organo più importante del partito. Senza ritornare alle ultra -provate collusioni del DNC con Hillary nel 2016, sotto la presidenza della corrotta Debbie Wassermann Schultz, basti dire che le macchinazioni del comitato continuano. Perora la vittima principale è stata Tulsi Gabbard, l'unica candidata che l'establishment odia quanto Bernie, di cui ho recentemente scritto in Primarie Usa: il caso Tulsi Gabbard su Jacobin Italia.
Comunque in seguito ad una estenuante lotta condotta da Bernie e dai progressisti, il DNC ha dovuto approvare l'eliminazione dei superdelegati dalla prima votazione della convention finale delle primarie. C'è da scommettere però che nel caso le cose si mettessero molto bene per Sanders, il comitato troverà il modo di introdurre una seconda votazione, peraltro già ventilata a titolo preventivo dall'ambizioso candidato Pete Buttigieg, in cui i superdelegati potranno ribaltare il voto popolare, come accaduto nel 2016 quando i voti di diversi stati vinti da Bernie andarono a Hillary.
Qualcosa da copiare da Bernie e dal suo movimento
Per concludere, potrebbe essere utile considerare quali strategie concrete della Political Revolution e quali aspetti dei punti programmatici di Bernie possano adattarsi anche alla realtà italiana, per "mettere in moto" per quel " qualcosa” a cui Bersani fa spesso riferimento e che, come ha detto qualche giorno fa con la similitudine del governo e del caciocavallo, non si può far partire “coi vecchi attrezzi”:
«Quel governo lì non può stare come un caciocavallo appeso (…) Bisogna creare un ambiente, mettere in moto qualcosa, se no, guardate, la destra è ancora lì. E' una destra mondiale, perché il fenomeno è un fenomeno mondiale, perché la sinistra è nei guai in tutto il mondo. Perché il passaggio è stato troppo grosso e quindi non faremo coi vecchi attrezzi.»
Le strategie organizzative, comunicative, informatiche e telematiche sviluppate ed implementate dopo il 2016 hanno permesso l'espandersi esponenziale della Political Revolution
Personalemente, dopo aver visto nella settimana della convention democratica di Filadelfia del 2016 attivisti e delegati di tutti gli Stati Uniti reagire alla sconfitta di Bernie invocandone la candidatura per il 2020, e soprattutto scambiarsi promesse ed indirizzi per costituire una rete sempre più capillare e collegata, ero sicura che sarebbe scaturito qualcosa di potente. Spesso collaborando con i DSA (Democratic Socialists of America) che grazie a Sanders hanno allargato parecchio la loro base, molte organizzazioni di varie dimensioni hanno aggregato persone di tutte le età e le razze lavorando a livello capillare su tutto il territorio americano. Le strategie organizzative, comunicative, informatiche e telematiche, di volta in volta messe a punto da qualche team e poi condivise, unite agli instancabili tour di Bernie a favore di tanti candidati, hanno permesso che già nelle elezioni del 2018 molti politici pro-establishment, magari rieletti di default da molti anni venissero rimpiazzati da progressisti ai vari livelli locali, statali e federali. Come ho raccontato in Elezioni Usa: tutto cominciò a Filadelfia, ho potuto constatare successi e progressi di alcune strategie soprattutto nella giornata inaugurale della campagna nazionale di Alexandria Ocasio Corte, nella zona del Queens, quando ho visto mettere in funzione sotto i miei occhi un'applicazione informatica appena escogitata dal team di AOC, che lei stessa ha detto sarebbe poi stata condivisa con altri candidati.
Nel maggio scorso poi, al mio primo rally di Bernie a Charlotte in North Carolina, dove la temperatura era di circa 40 gradi, ho visto in azione una macchina organizzativa perfetta, con alcuni staffer di Bernie arrivati in mattinata per istruire e coordinare le decine di volontari presentatisi. A proposito di quel giorno, per me entusiasmante e commovente sebbene sfiancante dal punto di vista fisico, ricordo di essermi chiesta come Bernie riuscisse a reggere tour così faticosi. Arrivato intorno alle sei del pomeriggio dopo un precedente comizio in un'altra città, avrebbe tenuto lo stesso ritmo nei giorni successivi in altri stati del sud. Ora per Bernie è arrivato il momento di delegare un po' di più, soprattutto dal momento che può vantare di avere come co-chair la carismatica Nina Turner, conosciutissima personalità della comunità afroamericana che potrebbe essere un'ottima scelta per la vicepresidenza, in grado di affascinare la folla come sapeva fare Martin Luther King.
Il Medicare for All e il Workplace Democracy Plan di Bernie e l'Italia
Quanto ai punti programmatici del piano di Bernie, in tutti c'è qualcosa che potrebbe offrire spunti anche per quel cambiamento strutturale di cui l'Italia come gli Stati Uniti ha bisogno. Due su tutti il Medicare for All e il Workplace Democracy Plan (piano per la democrazia sui posti di lavoro).
Quel "damned bill" del "Medicare for All", che prevede una copertura sanitaria pubblica nazionale e l'eliminazione degli stratosferici profitti delle assicurazioni private e delle grandi corporation farmaceutiche, potrebbe offrire spunti anche per la sanità italiana.
Noto anche come “damned bill”, dopo che nel secondo dibattito presidenziale Bernie ha interrotto un candidato che gli stava spiegando il suo stesso piano esplodendo in un esilarante: “Ma se l’ho scritta io quella dannata legge”, il Medicare for All è una delle tante istanze che Bernie ha introdotto nel dibattito pubblico. Il piano, che prevede una copertura sanitaria pubblica nazionale e l'eliminazione delle assicurazioni private, e quindi dei loro stratosferici profitti così come di quelli delle grandi corporation farmaceutiche, è infatti millantato per convenienza da quasi tutti i candidati. Consapevoli che l’idea di una copertura sanitaria gratuita piace al 70% degli americani, parecchi candidati puntano sulla mancanza di informazioni approfondite della maggior parte della popolazione per giocare con l’ambiguità dei loro personali “medicare for all”, nessuno dei quali elimina le assicurazioni private. Bernie è invece l'unico il cui piano trasformerebbe la sanità americana da privilegio a diritto.
Considerata la tragica situazione della sanità italiana e delle enormi ingiustizie che ogni normale cittadino ha sperimentato chissà quante volte, il piano di Sanders potrebbe essere un utile esempio da studiare, sebbene anche in Italia incontrerebbe la stessa ostilità da parte di quei corrotti poteri pubblico-privati, non solo consolidati ma in continua ascesa, che risulta impossibile immaginare di abbattere. Oltre a Milena Gabanelli, occupatasi tante volte del tema in pezzi dai titoli eloquenti come Sanità, un fiume di denaro ai privati convenzionati, rimandiamo alla lettura dell'articolo Sanità, la privatizzazione strisciante di Carmine Tomeo su Jacobin Italia.
Il "Workplace Democracy Plan", piano per la democrazia sui posti di lavoro, di Bernie Sanders sembra fotografare la realtà italiana del mondo del lavoro.
Sulla stessa rivista è perfettamente illustrato nei suoi punti principali l'articolato Work Democracy Plan in Il Piano di Sanders sul lavoro , traduzione di un articolo dell'americano Barry Eidlin. Il piano di Bernie, che propone soluzioni concrete per cambiare strutturalmente la situazione di precarietà, instabilità e ingiustizia che regola il mondo del lavoro americano, sembra descrivere alla lettera anche la situazione italiana. Ecco un brevissimo estratto dell'articolo:
«Complessivamente il Wdp propone una serie di riforme che non permettono ai datori di lavoro di sottrarsi dalle responsabilità verso i lavoratori e stabilisce norme per la protezione sui posti di lavoro. Richiede la «giusta causa» per il licenziamento. Non permette che i lavoratori vengano classificati come «liberi professionisti» per negare loro diritti e tutele, o evitare di pagare loro gli straordinari ritenendoli «supervisori». È previsto anche che le grandi corporazioni non abbiano più modo di nascondersi dietro franchising e particolari contratti che riconoscano gli impiegati come “soci” solo per evitare responsabilità sugli stipendi e le condizioni lavorative.»