Concludendo
"A chi mi domanda ragione dei miei viaggi,
solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quel che cerco."
Michel De Montaigne
Credevate vi avrei lasciato veramente così? In quel clima di profonda malinconia, con una lepre stesa tra crampi e fiatone? Dopo tanto tempo ancora non vi fidate, eh?
Farò finta di niente.
Siamo giunti al dunque del dunque. Signori miei, è ora di scoprire le carte sul tavolo.
Possiamo raccontarci tutte le balle che vogliamo e farlo alla lunga. Io sono dalla vostra.
Finora abbiamo diviso tra noi e loro, tra vecchi e giovani, tra romantici e consumisti, tra palombari e surfers. Vi ho assecondato, ho assecondato finora la nostra naturale tendenza a schierarci, a nasconderci dietro un’etichetta (specie per noi, per noi cresciuti guardando i cartoni animati giapponesi, un vero e proprio istinto naturale: il mondo per quel che ci riguarda è ancora diviso tra buoni e cattivi. E noi tendenzialmente, anche quando siamo cattivi, siamo cattivi buoni). La verità, però, è un’altra, è che siamo di fronte a quello che gli storici chiamano “cesura”, una stagione che segna un cambiamento profondo, un cambiamento che inevitabilmente sta trasformando le nostre relazioni e il paesaggio fisico in cui esse si creano e ricreano.
Scriveva Moravia, qualche decennio fa: "viaggiare non è veramente piacevole, si va incontro all'ignoto e l'ignoto è qualche volta sgradevole e sempre traumatico; però, fa bene". Il cambiamento è appena iniziato e questo crea più di qualche paura, perché ancora non ne comprendiamo esattamente le cause e non ne percepiamo precisamente la sintomatologia. Chi è nato sommozzatore ha imparato negli anni a concedersi qualche vezzo da surfer; infondo infondo, ci piace, ci sentiamo al passo, ci inganniamo bene. In superficie abbiamo paura, perché i gesti compiuti non appartengono all’ordine di valori a cui ancora ci riferiamo; assumiamo sempre più atteggiamenti che per la nostra cultura, sostanzialmente ottocentesca, meriterebbero una sanzione o altrimenti condurrebbero a un lento svilimento dell’anima. La difesa da questa paura per noi si configura come la corsa ai ripari dall’invasione dei surfers, la denuncia dei bug del nuovo software e si traduce nell’ostinata volontà di non credere che i comportamenti delle nuove generazioni abbiano una logica, seguano una causalità. Dall’altra parte chi è nato surfer, in un contesto sociale che regala la prima tavola e la prima vela in tenera età, si è trovato in famiglie di sommozzatori: loro lucidavano la tavola, mentre mamma e papà toglievano la polvere dagli scafandri. La loro difesa è assimilabile ad una fuga dal disagio, dall’incapacità di trasmettere la loro logica, i loro contenuti, e prende la forma che abbiamo individuato nei suoi elementi di massima: accelerazione, esperienza facile, veloce, movimenti orizzontali, zapping.
Ecco tutto: il paesaggio di oggi è in preda al panico (e, in questo, ancora una volta, ci raffigura perfettamente), è diviso tra le correnti del cambiamento, un cambiamento appena accennato, che confonde tutti: surfers con sensi di colpa da sommozzatore, sommozzatori con ambizioni da surfers. In mezzo a questo caos, come succede sempre in mezzo alle situazioni confuse, pascolano alla grande speculatori, gretti, uomini senza qualità, individui senza scrupoli. Mentre noi stiamo ridistribuendo senso e riorganizzando la percezione, loro se la spassano, facendo il bello e il cattivo tempo. Questi simpatici signori stanno approfittando dello smarrimento di due generazioni, no, anzi, di due epoche storiche, per costruirci in mezzo il loro piccolo impero cariato.
Stiamo assistendo al naturale disordine del cambiamento, ad una muta. In questa muta, noi, noi umani, al posto delle penne, perdiamo le cornici di riferimento, cambiamo i valori che muovono l’azione e, ovviamente, vediamo modificate le fonti del senso.
Probabilmente è possibile guidarlo, questo cambiamento, ma possiamo provarci solo sapendo che un cambiamento è in atto. Ammettendo che a cambiare siamo anche noi.