L’Anti-Paesaggio

«Amoreggiate con le idee finché vi piace; ma quanto a sposarle, andateci cauti.»

Arturo Graf

 

<>Il necessario post sui nuovi spazi della rete ha rotto l’andamento lineare che avevo in testa. Fatemici pensare.. ah sì, due puntate fa vi avevo promesso di parlare della nuova distribuzione del senso e di farlo a partire dai non-luoghi. Questo è il passaggio conclusivo, quello più delicato, occorre che io ribadisca per l’ultima volta l’assunto iniziale, leggete tenendovi stretti questa indicazione: pensieri stesi per riflettere.

<>E allora eccoci: come dicevamo, fu Marc Augé, un simpatico antropologo francese, a tratteggiare il concetto di non-luogo. Lui contrappose ai luoghi abituali, ai luoghi antropologici (quelli in cui si sedimentano la storia, la memoria, in cui si allacciano relazioni, in cui si creano e ricreano le identità), i non-luoghi, ovvero, spazi divenuti via via più frequenti con la modernità in cui il paesaggio, appunto, non dice nulla del luogo, del tempo, delle relazioni e delle identità che lo percorrono. A dirla tutta, il non-luogo è anche un non-tempo in cui la memoria si azzera, le identità si fondono e il senso si altera. L’avanzata dei non-luoghi viene avvertita, da parte nostra, come un’erosione del paesaggio e dei valori da noi attribuitigli; come l’avanzata di un non-paesaggio.

<>Raccontata così, pare impossibile preferire i non-luoghi ai territori vissuti, antropologici, dove la storia sedimenta e crea memoria e senso. Eppure, ai surfisti, ai tre punto zero, agli intenditori della crosta e non del contenuto, piacciono molto i non-luoghi, piacciono perché collezionano in sé tutti quei tratti caratteristici elencati nella precedente puntata: sono sequenze di stimoli acceleranti, sono occasioni di esperienza veloce, superficiale, a corto raggio, sono zapping emotivo all’ennesima potenza. Non implicano la necessità di sapere, non implicano la necessità di ricordare, annullano il tempo e le distanze, permettono un flusso di esperienza che al di fuori sarebbe impossibile riprodurre con tanta comodità e leggerezza.

<>Ogni cosa si offre come materiale da esperienza e nessuno giudicherà male gli imberbi surfisti se si divertiranno senza conoscere, se parleranno senza incontrare, se mangeranno senza sapere. Al centro commerciale, oggi, possiamo stare ore in libreria, mangiare l’ormai celebre kebap, il sushi, andare in sala giochi o in un internet point, al cinema, a mangiare un gelato, tutto senza troppo approfondire, solo per il fatto che ci ritroviamo lì dentro; per dirla in musica: badando più al ritmo che al tocco.

Andiamo al centro commerciale, è l’involucro il nostro obiettivo, ci frega poco di cosa faremo poi là dentro.

<>Si mangia cous-cous, senza sapere da dove viene e perché ha quella forma, semmai puoi intuire, dato che te lo serve un giapponese, che sarà un tipico piatto del Giappone: pallini piccoli per occhi a mandorla. Un po’ come dire che la pizza a domicilio è una specialità tradizionale dell’Egitto antico, nata per non far muovere gli schiavi dal luogo di lavoro. Filantropi.

Tutto bene fino a qui? Bravi, ultimi passi.

Forse dovremo aspettare ancora qualche tempo, una nuova versione, una generazione di là da venire, ma quello che possiamo già scorgere nel nostro oggi è che i non-luoghi seguono un corso da malevola metastasi: guardate bene, l’omologazione esce lenta dalle corsie tutte uguali dei supermercati, guardate le nuove case a schiera, in ogni dove, non notate una certa somiglianza?

<>Scrutate ai bordi delle strade, attenzione, eccola la bettola che fa kebap nel cuore della Brianza, decontestualizzata, astorica, senza memoria. Il bookstore, il videonoleggio, i marciapiedi tutti uguali, eccoli lì i piccoli figli del non-luogo. Ecco la modalità dei non-luoghi!, il territorio si sta riempiendo di occasioni di esperienza diretta, immediata, senza cornici, senza profondità, tutto è predisposto per una fruizione veloce, piaciona, effimera; per noi, stupida.

 

Malpensa secondo Isabella Stampa

<>E gli spazi in mezzo? Ovviamente quelli ne subiscono, vengono relativizzati: al surfer interessa la cresta dell’onda, vuole cavalcare l’istante, non gli interessa ciò che è sotto la sua tavola, figuriamoci dei motivi che hanno generato l’onda. Si finisce, così, per non dare alcun valore a quei paesaggi che non incidono direttamente sulla possibilità di fare esperienza 3.0.

<>Cade, quindi, la concezione di paesaggio tradizionale: velocità e dissoluzione delle vecchie fonti di senso stanno trasformando il paesaggio fisico, che sta riproducendo esteriormente i processi in atto nel profondo del carattere sociale, nel nostro carattere. Spersonalizzazione, tendenze omologanti, voglia accelerata e facile di fare esperienza.

Lo so, mi starete dando del matto, ma se ci pensate bene, le cose non stanno in maniera molto diversa da come ve le ho raccontate. Forse, sono solo un pochino meno marcate.

<>Ok, eccoci, abbiamo tratteggiato un quadro che riassumerei al minimo in questa frase: nuove modalità di trovare senso <>stanno disordinatamente modificando il paesaggio<>. Ve lo dico, ma voi non fateci caso: quello che mi pare emerga da un tale comportamento è una sorta di fuga dall’anima, dal trascendente declinato fino alle sue forme più semplici, un riparo da una intima, dissimulata, recondita, fragilità.

<>E’ uno slancio da lepre, quest’ultimo. Cerco di intuire più in là delle mie possibilità visive. Mi assumo i rischi del tentativo.

<>In quello che io reputo un capolavoro, La lentezza, Milan Kundera scriveva così: “C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio“.

<>Vuoi vedere che il cambiamento non fa paura solo a noi? Vuoi vedere che i 3.0 sono un po’ romantici e noi romantiquati abbiamo già sotto braccio la tavola da surf? Accelerazione per sfuggire, zapping emotivo per distrarci. Mi pare che qui, grattando ancora un poco, sotto sotto, troveremmo qualche risposta.

<>Trovremmo però, se solo.., e invece, cari miei, signore e signori, siamo arrivati al capolinea: abbiamo raggiunto lo scopo fissato. Se volessimo trarre una morale della favola potremmo scriverla così: ci spaventiamo davanti ai cambiamenti in atto nel paesaggio fisico poiché il cambiamento è dettato da un cambiamento della società che ancora non riusciamo a decifrare in tutta la sua portata. Paesaggio fisico e società stanno cambiando, ma noi, per ostinazione o semplice difficoltà, vogliamo negare che tale cambiamento possa seguire una logica e sia mosso da un proprio senso, vogliamo negare che questo nuovo paesaggio possa avere un senso. Per noi il nuovo paesaggio è un anti-paesaggio, è l’esatto contrario di quanto noi intendevamo con il termine “paesaggio”. Eppure un senso ce l’ha, semplicemente, è un senso diverso, molto diverso dal precedente.

<>Tornate indietro nel vostro blocco appunti e aggiungete alla sezione “regole” quest’ultima. Dovremmo sempre tenerla presente, ogni qualvolta ci capiti di analizzare un paesaggio contemporaneo. Al netto di quella regoletta, forse, e dico forse, potremmo capirne qualcosa di più e potremmo iniziare, prendendo atto del cambiamento in corso, a guidare le trasformazioni, piuttosto che a respingerle come insensati attacchi alla civiltà.

<>Ora, lo so, se fossimo proprio proprio bravi, toccherebbe il passo più importante: capire il perché questo popolo stia scegliendo il surf e non il pattino, persegua un modello anziché un altro. Ma vi avevo avvisati fin dall’inizio, qui non siamo proprio proprio bravi, qui, siamo quelli della fila in fondo. Siamo lepri, ricordate? Corriamo un poco avanti, ma poi abbiamo il brutto difetto di scoppiare, e normalmente ci succede sul più bello.

Il nostro lavoro non era quello di arrivare primi al traguardo, ma di lanciare altri perché ci riuscissero.