Regole (parte II)

«Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo.
Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni,
di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti,
di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire,
scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.
»

Jorge Luis Borges

 

<>Ci eravamo lasciati ieri con la seguente domanda, un po’ rozza, ma utile ad arrivare al cuore della vicenda (ammesso che, un cuore, la vicenda, ce l’abbia): il paesaggio plasma la società anche quando quest’ultima non se ne accorge?

<>Il dibattito tra i geografi, e gli umanisti tutti, è stato lungo, lunghissimo, estenuante, tomi su tomi per arrivare a dire che, sì, anche <>la società plasma il paesaggio. <>Alla fine l’hanno vinta loro, i geografi della percezione, che sostenevano, accanto ad un’innegabile azione del paesaggio sull’uomo, un ruolo di primo piano dell’uomo, in quanto soggetto che esperisce il paesaggio e senza il cui sguardo il paesaggio non sarebbe. La risposta è quindi un “sì” non scontato. Ci troviamo di fronte a due entità, paesaggio e società, poste in relazione ciclica: senza la percezione della prima, il secondo non esiste, ma, senza il secondo, la prima non sarebbe la stessa. Quarta regoletta, quindi: l’uomo modifica il paesaggio tramite le proprie azioni, più o meno invasive, e, non secondariamente, tramite il mutamento della percezione che avviene sul piano immateriale, quindi, discendente da modificazioni di ordine sociologico, culturale, spirituale e cose così. Direi che è in questa seconda parte della regola che stanno gli aspetti più interessanti per capire l’oggi e per prospettare “un” domani.

<>La volontà dell’uomo di plasmare i paesaggi è, del resto, scritta nei secoli, nel tempo però le cose sono cambiate: prima i maggiori sforzi avevano come fine accresciute bellezza o utilità (si pensi, cito la prima cosa che mi passa per la mente, alle modificazioni paesaggistiche che percorrono tutto “Le affinità elettive” di Goethe, per la bellezza, si pensi al parco nazionale della Cinque Terre e ai suoi settemila chilometri di muri a secco, per quanto concerne l’utilità). Oggi, invece, il processo di modificazione è coatto, alienato, da proprio quell’impressione apocalittica descritta nella prima puntata: che non siano modificazioni dell’uomo per l’uomo, ma azioni mosse da una sotterranea forza extraterrestre, processi in divenire descritti quasi fossero oscure tendenze preordinate da entità oblique, lontane, superiori. Sensazioni che ci accompagnano sempre, quando non conosciamo. Ecco perché la parte più interessante dell’ultimo enunciato paesaggistico, mi pare sia la seconda. Oggi non conosciamo, siamo disorientati perché non abbiamo ancora fatto nostre le nuove categorie di lettura; non comprendiamo ancora il nuovo rapporto che intercorre tra la nostra psiche collettiva, l’anima sociale, e il suo habitat, e i nuovi paesaggi che da questa relazione scaturiscono. Questo rapporto si esprime a livello inconscio, nell’inconscio sociale, o almeno della maggior parte della società. Probabilmente i più giovani non avvertono alla stessa maniera, quello che noi leggiamo come un pericolo imminente o una perdita d’anima.

Non avete capito nulla?

<>Poco male. Proviamo a riassumere il contenuto di queste prime tre puntate e trarre una conclusione di metà percorso: abbiamo detto che il paesaggio è identità, nostra, della nostra comunità; esprime il nostro grado di armonia, volendo usare un concetto romantico; il nostro grado di cura, attenzione, coscienza, che l’uomo usa nei confronti del territorio in cui risiede, utilizzando concetti a noi più vicini.

<>Abbiamo anche detto che il paesaggio è un sentimento, parla di noi, se sappiamo interrogarlo, se sappiamo leggere tra le sue pieghe, se lo “sentiamo”. Terzo ordine di considerazioni: anche se noi non ci curiamo del paesaggio, non lo “sentiamo” e ci pare di esserne indifferenti, lui continua ad esprimere il nostro rapporto col territorio, modifica le nostre azioni, viene modificato dalle nostre azioni; il circolo, virtuoso o depressivo che sia, è inesauribile, fino alla scomparsa di uno dei due poli della relazione.

 

 

 

Muretti a secco (Monte Sant'Angelo, primavera 2008)

-

<>Questo è il succo delle prima parte, che serve, anche se non lo dice, a fare un po’ un riassunto di alcune delle principali teorie sul paesaggio. Ci siamo, con una certa leggerezza, scofanati rudimenti di determinismo, possibilismo, soggettivismo e qualche elemento di eco-psicologia. Abbiamo dunque fatto un po’ di teoria. Facciamo ora un ulteriore passo avanti, cercando di isolare meglio l’ultimo concetto: il degrado del paesaggio, così come noi lo leggiamo oggi, è frutto di una mutazione di carattere socio-culturale. Si modifica la modalità di esperire il mondo e con essa, ineluttabilmente, si modifica il modo di guardare e interagire coi paesaggi. Per ora, vi chiedo di fissarvi in testa quest’ultima intuizione, di ritenerla valida almeno per qualche ora. Riprenderemo il discorso.