Sommozzatori o surfers?
«<>Penso a un sacco di cose.. penso al fatto che probabilmente molti di voi
non leggeranno questa mail perché non hanno tempo.. e mi sento bene qui,
dove ho un sacco di tempo per vivere.
Ma come incastrare la vita che in realtà ho con quella che <>vorrei?
Ma poi non so nemmeno che vita vorrei, ora non lo so. Sono un po’ cosi... »
Marta Mainini
Si tratta ora di scegliere da che parte iniziare: dal senso o dal tempo?
Bergson, anni fa, sottolineava che le due cose sono abbastanza legate, e non saremo certo noi, oggi, ad isolare le due variabili in discorsi a sé stanti.
<>Scelgo comunque di partire dal tempo; dal tempo “percepito”, ovvio. Per dirla in greco, mi riferirò più al Kairos che al Chronos. A scuola ve l’avranno ripetuto più volte, gli antichi greci avevano più nomi per indicare il tempo: Chronos, che divora i propri figli, era il tempo che passa; quello del cronografo, appunto; Kairos era il tempo dell’azione, il tempo per cogliere l’occasione che si presenta; una misura qualitativa. Infine, Aion era il tempo sacro; era addirittura quasi un non-tempo, perché il sacro è un atteggiamento del vivere, non del fare. Interessante, sì, ma allungheremmo troppo la strada. Il saggio è breve.
Proverei ora a raccogliere alcuni spunti che ci potrebbero dire qualcosa sul nuovo modo di percepire e vivere il tempo. Poi, in seconda battuta, li collegherei per vedere che figura compongono, il risultato, il disegno complessivo. Pronti?
<>Partiamo di qui: abbiamo sottolineato che ci affligge un’incapacità temporanea di leggere il presente, causata da una mutazione in atto, elementi cardine della mutazione sembrano la distruzione di quella che noi chiamiamo anima dei luoghi, della memoria connessa ai luoghi, l’abolizione di forme totemiche legate al paesaggio fisico. Esse richiedevano conoscenza, concentrazione, interpretazione. Tempi lenti, insomma. Capacità di un’altra epoca, dico male?
<>Oggi? oggi, cosa avviene? I trend sono appena abbozzati, riguardano un piccolo spicchio di mondo, ma dicono già molto e dicono questo: crescente ricerca di non-luoghi, luoghi senza memoria, senza anima, veloci, pieni di stimoli acceleranti. L’accelerazione (o, almeno, l’abolizione della lentezza) viene eretta a principio cardine del nuovo modo di fare esperienza: l’esperienza ora necessita di velocità, non è se non è veloce, odia l’approfondimento, odia rallentare. Si vive se ci si muove, (lentamente) si muore se si rallenta. Forse per questo, vediamo individui che veleggiano rapidi, da un punto all’altro, da un locale all’altro, da un divertimento all’altro, da un consumo all’altro. La stasi o la perdita di velocità equivalgono alla fine dell’esperienza, all’impossibilità di dimostrarci che siamo; all’annullamento, insomma. Guardate, vale anche per noi, noi col nostro software della nonna, anche noi ci dobbiamo scontrare con una difficoltà totale: ci muoviamo spinti dalla necessità di diventare sempre più rapidi e conviviamo con la sensazione di avere sempre meno tempo.
<>Scriveva Luc Ferry, qualche anno fa: “il progresso <>è diventato un movimento senza una causa, che sfugge a qualsiasi controllo, che procede per conto proprio senza alcuna destinazione o finalità; come un giroscopio o una bicicletta che non ha altra scelta che continuare a muoversi o cadere<>”, credo che in questa osservazione non sia contenuta soltanto una lucida critica alla nostra idea di avanzamento sociale, ma anche l’individuazione della forma nuova, del nostro nuovo modo di vivere e fare esperienza.
Questa velocità di consumo (veloce) si è sostituita al desiderio dell’accumulazione (lenta). Questa velocità di consumo ha invaso ogni campo. L’informazione, ad esempio: pensate alla modalità predominante di informazione: ve lo dico da amatore, scrivere un articolo sta diventando un capolavoro di sintesi, vorremmo racchiudere il mondo in cinque righe, senza lecite scorciatoie.
E’ in estinzione l’approfondimento.
<>In cinque anni è cambiato molto anche l’approccio al sapere: se i primi esami all’università li preparai ancora immerso in alti tomi, da esaurire anche nelle loro parti più inutili e tediose, alcuni degli ultimi appelli – alcuni, non tutti – li ho, invece, vissuti facendo zapping, anzi, surfing: rincorrendo l’onda, la cresta, link dopo link. Uno sguardo veloce, una frase, una nozione, un’informazione carpita al volo e poi via all’inseguimento di una pagina migliore, più adatta, più sintetica, più confacente.
<>Esami preparati surfando, chi l’avrebbe mai detto…
<>Eccoci lì, sommozzatori, da secoli lanciati allo scandaglio delle profondità dell’animo umano, virtuosi dello studio, dell’impegno profondo, estimatori della concentrazione, e surfisti, indiscussi re delle superfici e della traslazione, ricercatori della facilità, protagonisti della dispersione.
<>Prima dicevo che le nuove generazioni, che qualcuno malamente reputa profetesse del modello urbano, non cercano la città, non amano il cemento più dell’erba, o il mare più della montagna. Semplicemente sono alla ricerca di luoghi che sappiano fornire esperienza (immediata, intensa, pronta al consumo) e tante più opportunità di “fare” esperienza. Non il centro urbano in quanto tale, ma il centro urbano come crocevia di possibilità esperibili, sintetiche, come tripudio di stimoli acceleranti.
Non a caso, al centro di una attempata ed elegante cittadina, la generazione 3.0 preferisce spesso una ludica gita al centro commerciale, con tutti gli ultimi ritrovati per fare esperienze.
Centro commerciale (Lecco, inverno 2008)
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<>Il 3.0 non cerca altro: annullamento dell’anima dei luoghi, annullamento dell’esigenza di sapere, di possedere informazioni esterne, di fare riferimento a cornici, di avere memoria; tutto deve essere dato in quel momento: il mondo, lì, nei grandi centri commerciali, si sviluppa tutto in superficie, in orizzontale, non richiede fermate, rallentamenti, si lascia scivolare, diviene flusso di esperienza, concatenazione di momenti acceleranti. Offre occasioni a distanza ravvicinata, quasi l’istantanea possibilità di fare molte cose, e contemporaneamente. Mangiare un Big-Mac, in un orecchio l’auricolare, in una mano una bibita, nell’altra la mano dell’amica; guardare nella vetrina le nuove mutandine di Tezenis e pensare che, sì: “Filippo preferirebbe quelle arancioni”, mentre intanto la nostra amica ci racconta che l’altra sera, porcaccia di quella miseria, Judy ce l’ha fatta: è riuscita a portarsi a letto Jack.
Cara grazia. Robe da ricchi. Robe da tre punto zero.
Terribile?
Per noi col software un po’ pigro, sì. Non potremmo vederla in altro modo.
Con questa rapida, superficiale (ci stiamo adeguando ai tempi), acquisizione abbiamo fatto un bel passo nel guado. In questo istante siamo oltre la metà del guado. Sarebbe ora il caso di approfondire il rapporto che corre tra tempo, senso e nuovi paesaggi sorgenti, per poi tirare le fila del discorso. Arrivare a delle conclusioni sarebbe ambizioso, mi prefiggerei piuttosto una meditazione ultima che sappia dirci qualcosa di noi. Questo sì, mi pare più a portata, quasi possibile.
<>Qualcuno potrà obiettare che quello tracciato fino a qui è un quadro che ci fa ripiombare dritti dritti in quella posizione di pregiudizio a priori che vi avevo caldamente suggerito di abbandonare. In qualche modo sì, per fare il ritratto alla generazione in arrivo, ho calcato un po’ la mano, ma, tenete conto, senza esprimere alcun giudizio. Non è questa la sede. Ho descritto dei tratti e ora mi interessa capire cosa li stia generando, mi interessa scoprire cosa porti le nuove generazioni a vivere, a fare esperienza, attraverso nuovi canali. Siamo davanti ad un branco di surfers, non sarà, forse, il caso di iniziare a chiederci il perché?
<>Domani ripartiremo dai già citati non-luoghi, Marc Augé coniò il termine prima che in molti se ne accorgessero: aeroporti, autogrill, grandi uffici, parchi divertimento, metropolitane, centri commerciali, sono sempre di più i non-luoghi che incontriamo nella nostra routine; e lì, lì dentro, si realizza un connubio per noi interessante, lì si incontrano il nuovo tempo e il nuovo senso. Lo so, lo so, per noi romantiquati, spariscono entrambi. Facciamocene una ragione.
<>Purtroppo, oggi non ho fatto in tempo a consegnarvi pupille 3.0. Sarà per domani. Intanto, esercitatevi osservando le ombre.