Mentre Biden sta per annunciare la sua VP, diamo una panoramica delle finaliste: Kamala Harris, ex-candidata presidenziale e favorita fino alla fine di luglio; Susan Rice, ex-consulente di Obama per la sicurezza nazionale, la cui vendita delle azioni di Netflix sembra porla in pole position; infine la sorpresa degli ultimi giorni Karen Bass, presidente del Black Caucus del Congresso, mentre Elizabeth Warren sembra ormai fuori gioco.
Mai come in questo assurdo ciclo presidenziale americano, condizionato da una imprevedibile catena di eventi che appare interminabile, la carica vicepresidenziale democratica è una questione di estrema importanza, sempre che Joe Biden vinca le elezioni di novembre e sempre che le elezioni di novembre ci siano. La contrarietà di Donald Trump alle elezioni per posta e le sue esternazioni di rimandare il voto potrebbero infatti riservare pericolose derive anche in quel senso. Ma non è questo un argomento da digressione.
Joe Biden candidato presidenziale quasi a sua insaputa
Non è tanto l'età di Biden a preoccupare, quello era un fattore da propaganda negativa solo per il suo coetaneo Bernie Sanders, quanto le facoltà cognitive che, sebbene di proposito ignorate dall'establishmernt, se dovessero peggiorare drasticamente potrebbero rendere necessaria una sua sostituzione. E questo anche nel caso in cui la macchina presidenziale dovesse funzionare perfettamente nell'etero-direzione di un presidente fantoccio. Ecco dunque perché la scelta vicepresidenziale è una questione delicatissima e fondamentale.
Dopo che i risultati dei primi tre stati al voto avevano visto Joe Biden precipitare dalla posizione di favorito a risultati a una sola cifra, il deus ex-machina Barack Obama, che aveva sconsigliato Biden di correre evidentemente consapevole del declino delle sue facoltà mentali, non aveva altra arma che la sua riesumazione per impedire la vittoria di Bernie Sanders. Falliti gli esperimenti Kamala Harris e Beto O'Rourke e non vedendo né Pete Buttigieg né Amy Klobuchar, e ancor meno Michael Bloomberg, come possibili rivali di Bernie Sanders, l'ex-presidente ha dato il via alla coalizione intorno a Joe Biden a tre giorni dal primo decisivo supermartedì del 3 marzo. Obiettivi primari erano il mantenimento dello staus quo e, ancor di più, la salvaguardia della sua legacy. Vale a dire quella eredità da lasciare agli Stati Uniti Uniti e alla Storia che una eventuale presidenza di Sanders, allora dato come vincente nella corsa democratica e con le maggiori possibilità di battere Trump, avrebbe offuscato o surclassato.
E così, complici gli eventi e l'incapacità assoluta di gestirli di Donald Trump, in preda a comportamenti non solo sempre più antiscientifici, autoritari e fascisti, ma che paiono ormai sempre più fuori controllo a livello psicologico-psichiatrico, Biden si ritrova ora quasi presidente, anche se con Trump non si può mai sapere. E si trova in quella posizione senza aver fatto campagna elettorale, senza aver portato a termine un discorso di senso compiuto non letto dal teleprompter, e anzi automettendosi in difficoltà anche davanti al teleprompter, con le casse della sua campagna piene di soldi, sebbene completamente al verde prima del 3 marzo, provenienti non solo da tutto l'establishment democratico ma anche da settori repubblicani, e pure con l'annuncio che non sarà presente alla Convention Democratica Nazionale di Milwaukee in programma dal 17 al 20 agosto.
Le uniche cose sagge che Biden sembra aver detto e dire in autonomia di pensiero sono che si considera un presidente di transizione, che con tutta probabilità non correrà per un secondo mandato e che avrà una vicepresidente donna. Eufemisticamente piuttosto inquietanti, sebbene per nulla sorprendenti, le dichiarazioni del maggio scorso quando, ribadendo la sua caratteristica di "transition candidate", Biden diceva anche di voler "portare i sindaci Pete del mondo" nella sua amministrazione. Grande gratificazione per il soldatino Pete Buttagieg che obbedendo agli ordini imposti dall'alto si ritirava dalla corsa, insieme alla collega Amy Klobuchar, giusto in tempo affinché i voti di entrambi, insieme a quelli texani di Beto O'Rourke, andassero a Biden in quel decisivo e funesto supermartedi di marzo.
Sembra superata la competizione diretta tra Kamala Harris ed Elizabeth Warren
Nell'articolo di alcuni giorni fa La lotta per la presidenza su Jacobin Italia, ho cercato di documentare la penultima fase della guerra nelle retrovie femminili per la vicepresidenza, che dopo le proteste per la morte di George Floyd si è rivolta sempre più a una donna di colore. Ignorando fin dall'inizio, come se non esistesse nemmeno, quella forza della natura che risponde al nome di Nina Turner, afroamericana ex-senatrice dell'Ohio, co-chair delle campagna di Sanders e personalità di altissimo profilo per popolarità, impegno e onestà, negli ultimi giorni di luglio i giochi ormai sembravano fatti arribuendo a Kamala Harris la quasi certezza dell’incarico in un testa a testa con Elizabeth Warren che, sebbene bianca, sembrava ancora la principale rivale di Kamala. Il duello finale sembrava dunque svolgersi tra le due candidate che hanno spiccato per doppiogiochismo, voltafaccia e volontà di tenete i piedi in tutte le scarpe disponibili.
Elizabeth Warren dal tradimento del suo "amico" Bernie nel 2016 alle pluri-pugnalate di quest'anno, sempre nella speranza di una vicepresidenza
Per la verità in questo campo la vincitrice assoluta è Elizabeth Warren, campionessa dei tradimenti non solo verso il suo "amico" Bernie Sanders, ma verso i punti della sua piattaforma, rinnegati pezzettino per pezzettino nella speranza che Uncle Joe le desse la vicepresidenza. Se nel 2016 Warren aveva già tradito Bernie quando, sorridente come una Pasqua, appariva sul palco insieme a Hillary Clinton, che da brava Hillary Clinton la stava prendendo in giro sulla vicepresidenza che Liz si aspettava, quest'anno Warren ha ripetutamente pugnalato Bernie a cominciare dalla squallida acccusa di sessismo del dicembre scorso.
Tornando a Kamala la sua vittoria sembrava quasi certa dopo una fugace apparizione di un articolo di Politico del 28 luglio scorso, immediatamente modificato , ma non sfuggito alla cattura della rete, che con tre giorni di anticipo annunciava: “Il primo di agosto Joe Biden ha scelto Kamala Harris come compagna di corsa per le elezioni del 2020.” La presunta svista aveva fatto presumere che la testata avesse avuto la soffiata, come molto probabilmente altri media importanti che hanno comunque taciuto l'episodio, con l'obbligo di embargo fino al primo di agosto.
Il primato di Kamala messo in seria discussione dal consulente di Biden Chris Dodd che, oltre a non perdonarle la questione del bussing, la accusa di mirare alla presidenza più che alla fedeltà verso Joe Biden.
Da quel momento però le cose sono cambiate e la discesa di Kamala incentivata da Chris Dodd, uno dei più ascoltati consulenti vicepresidenziali di Biden, ha avuto inizio. Non disposto a perdonare le accuse di segregazionismo lanciate da Kamala a Biden nel primo dibattito presidenziale del 2019, sulla questione del bussing, il servizio di trasporto degli alunni in scuole diverse da quelle di residenza per favorire l'integrazione che Biden avrebbe impedito di istituire a livello nazionale, Dodd ha accusato Kamala di pensare molto di più alla sua carriera personale, vale a dire alla presidenza, che non a essere una fedele compagna per Biden.
Del resto l'ambiguità di Kamala era cosa nota, avendo fatto il doppio gioco anche con Bernie Sanders, fingendosi dalla sua parte sul Medicare for All e su altre istanze progressiste. A smascherarla platealmente tanto da determinare il suo declino nelle presidenziali era stata Tulsi Gabbard, sia dimostrando come Kamala presidente avrebbe continuato "lo status quo della tipica politica Bush-Clinton-Obama", sia elencando diversi provvedimenti che Harris aveva preso in qualità di procuratrice della California, che penalizzavano pesantemente la popolazione di colore. Non per niente pochi mesi dopo le accuse di Gabbard , Harris aveva saggiamente e astutamente deciso di sospendere la corsa presidenziale, per rifarsi il make up nell'attesa della corsa per la vicepresidenza. Non amata dalla popolazione di colore, si era ritirata appena in tempo perché il suo nome non comparisse nella lista delle primarie californiane, dove le previsioni del voto nero andavano a Biden per gli adulti e a Sanders per i giovani.
Le repentine salite e discese di Karen Bass
La preoccupazione principale di Chris Dodd di trovare per Joe Biden una compagna fedele ha fatto dunque salire le quotazioni di Karen Bass e di Susan Rice.
Fino a un paio o tre giorni fa la sessantaseienne dottoressa in medicina, ex-speaker dell'Assemblea della California, e ora a capo del Black Caucus del Congresso Karen Bass sembrava aver raggiunto la posizione migliore. Pur non godendo dell popolarità delle avversarie più dirette, Karen Bass è una deputata rispettata per aver sempre cercato di costruire ponti con tutti, repubblicani compresi, per cercare di risolvere i problemi concreti della gente.
Schieratasi dalla parte di Joe Biden quando la competizione con Bernie era nel vivo, Karen Bass dice di poter svolgere l'incarico di vicepresidente per aver acquisito utili competenze governative lavorando in California, soprattutto negli anni della crisi del 2008, a stretto contatto con il governatore repubblicano Arnold Schwarzenegger e il suo staff. Inoltre, dice, "aver lavorato in pronto soccorso in situazioni tra la vita e la morte mi ha insegnato a destreggiarmi anche in momenti di crisi sanitarie”. E infine sembrano essrere lungi da lei ambizioni presidenziali alla Kamala Harris, al punto da essere stata definita l'anti-Kamala.
L'anti-Kamala Karen Bass, sorpresa degli ultimi giorni, sembra essere un compromesso molto gradito ai progressisti. Proprio questo motivo potrebbe condizionare la sua scelta da parte dell'establishment di cui Obama e Clinton sono i principali controllori.
Tuttavia nelle ultime ore Karen Bass sembra aver perso terreno per i suoi passati apprezzamenti passati per Fidel Castro. Non è poi da escludere che l'approvazione di Ro Khanna e soprattutto l'endorsement di Nina Turner (che già viene invocata come diretta erede di Bernie per la campagna Nina for President 2024), entrambi co-chair della campagna di Bernie Sanders, possano agire come deterrente per l'establishment Obama-Clintoniano che, a dispetto del teatrino della Task Force messa in piedi per far finta di collaborare con i progressisti, non hanno alcuna intenzione di modificare le loro posizioni centriste, per non dire di destra, e corporative. Se non avessero voluto buttare i progressisti under the bus, secondo una comune espressione usata in questi casi, i notabili del partito democratico non ne avrebbero ignorato le pressanti richieste di considerare la candidatura a vicepresidente di Nina Turner, Barbara Lee o Pramila Jayapal. Comunque lo scorso venerdì un gruppo di più di 300 delegati alla DNC ha espresso il suo appello a Joe Biden a favore di Karen Bass: "Noi, delegati alla DNC per Joe Biden, Bernie Sanders e altri, crediamo che la Deputata Karen Bass sia la scelta migliore tra le candidate vicepresidenziali prese in esame per aiutare il nostro partito a trovare un'unione e fare progredire la nostra nazione. Noi sollecitiamo dunque il Vice Presidente Biden a sceglierla per il ticket presidenziale."
Susan Rice, ora come ora la più quotata antagonista di Kamala Harris, vende le sue quote di Netflix
E arriviamo finalmente a quella che nel momento in cui scrivo sembra essere la primìncipale antagonista di Kamala Harris, Susan Rice, classe 1964, ex-ambasciatrice alle Nazioni Unite ed ex-consulente di Obama per la sicurezza nazionale. La fresca notizia della vendita delle sue azioni di Neflix, del cui consiglio di amministrazione Susan Rice fa parte, sembra strettamente connesso con un suo importante incarico governativo.
"Susan Rice ha fatto pressioni a favore di tutte le guerre, contro l’Iraq, la Libia, lo Yemen. Ha lasciato dietro di sé una scia di carneficine."
Inoltre, considerata la logica pro- establishment e anti-Bernie con cui si è organizzata la colalizione intorno a Biden, la scelta tra la pontiera Karen Bass e la guerrafondaia Susan Rice, sembrerebbe portare verso la seconda. Un articolo del Washington Post, che titolava “La sinistra è preoccupata per un ‘falco’ come VP” di qualche giorno fa riportava l’opinione di Marcy Winograd, una delegata sandersiana che ha fatto circolare una lettera per spingere a Biden di non dare né a Rice né ad altri sei veterani dell’amministrazione Obama posizioni di governo, ricordando che : “[Susan Rice] ha fatto pressioni a favore di tutte le guerre, contro l’Iraq, la Libia, lo Yemen. Ha lasciato dietro di sé una scia di carneficine. Promuoverla sarebbe un augurio di morte per il Partito Democratico.” In effetti anche il Partito Repubblicano la odia in modo profondo per la morte di quattro americani nell’attacco all’ambasciata di Benghazi, avvenuto nel 2012 quando Hillary Clinton era segretaria di stato di Obama. Rimandiamo all'articolo del Post del 2012 Il caso Susan Rice, per l'ottima ricostruzione di quell'episodio e della rinuncia di Susan Rice di assumere la carica lasciata libera da Hillary Clinton nella seconda amministrazione di Obama, pur diventandone la consigliera per la sicurezza nazionale.
Seppur estremamente invisa ai repubblicani, la scelta di Susan Rice sarebbe però una manna per Joe Biden in quanto, conoscendola benissimo per aver lavorato a stretto contatto con lei, si sentirebbe del tutto suo agio e sicuro di avere accanto una persona di fiducia.
Quanto a Elizabeth Warren, a meno che non si verifichi un altro dei tanti imprevedibili eventi di questo 2020, sembra ormai fuori dai giochi, come parrebbero esserlo le altre potenziali vp in lizza nelle ultime fasi della scelta, tra cui l'afro-americana Val Demings, ex capo della Polizia di Orlando, Florida, e l'asio-americana Tammy Duckworth, senatrice dell'Illinois e veterana pilota di elicottero in Iraq, dove ha perso entrambe le gambe.