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La Political Revolution di Bernie Sanders terrorizza l'establishment democratico per la concreta possibilità che Bernie vinca la nomina per le presidenziali 2020.


Che Bernie Sanders sarà uno dei leader nell'affollato gruppo degli aspiranti presidenti democratici per il 2020 è un dato di fatto.  I 6 milioni di dollari raccolti con piccole donazioni nelle  24 ore successive all'annuncio della sua corsa e dei 10 milioni della prima settimana, con il 40% di nuovi donatori, sono un segnale eloquente che il senatore corre seriamente il rischio di diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti. E ciò nonostante la propaganda mainstream,  già da mesi attivata contro di lui, e la prossima candidatura del suo principale antagonista  Joe Biden. Ma come si è arrivati a tutto questo? 

Oggi, a quasi tre anni di distanza dal primo dei tanti articoli scritti per Vorrei su Bernie Sanders e sulla sua Political Revolution,“vorrei” ricordare, rompendo la consuetudine della terza persona, un paio di tappe cruciali del percorso che, sulla base del motto di Bernie Not me us,  ha portato alla situazione odierna. 

 

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Manifestazione notturna a Filadelfia nella settimana della Convention Nazionale Democratica del 2016

Sono tappe che ricordo con un po’ di nostalgia e con un certo orgoglio poiché, seguendo istinto e passione, ne sono stata testimone diretta.
La prima  tappa è quella della settimana della National Convention di Filadelfia del 2016 che, a dispetto della sconfitta di Sanders, ha sancito il battesimo nazionale della sua Political Revolution,  riunendo per la prima volta sandersiani provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti.  La seconda è quella di New York dell’estate scorsa, sulle tracce di Alexandria Ocasio Cortez, prima che diventasse la congresswoman rivoluzionaria di cui ora tutti parlano e una delle paladine mondiali del Green New Deal

Il duplice inganno di Filadelfia 2016

Guardando retrospettivamente i giorni di Filadelfia, sembra quasi che tutto fosse già scritto lì, come in una parabola allegorica con la città a personaggio principale. 

Probabilmente scelta dal Comitato Democratico Nazionale come buon auspicio in quanto simbolo della Rivoluzione Americana, Filadelfia avrebbe dovuto sancire una nuova rivoluzione, quella della prima donna presidente.
Ma la città non è stata al gioco, o per lo meno ha finto di starci, architettando un perfido imbroglio ai danni dell’establishment e soprattutto di Hillary Clinton, pari a quello che loro avevano architettato ai danni di Bernie Sanders durante tutta la campagna elettorale. 

Filadelfia, nel 2016, non aveva  intenzione di ospitare un altro “serpente che dormiva arrotolato sotto il tavolo delle trattative”, come disse Abraham Lincoln alludendo al problema della schiavitù, secondo lui  già ben presente nella mente dei primi legislatori americani quando, nel redigere la Dichiarazione di Indipendenza nel 1776 e la Costituzione nel 1787, scelsero di ignorarlo pur decretando che "tutti gli uomini sono stati creati uguali".

La nuova rivoluzione di Filadelfia si sarebbe basata davvero sui principi di uguaglianza, libertà e giustizia per tutti. Sarebbe  stata la rivoluzione della gente comune, delle minoranze etniche e di tutti quei lavoratori sottopagati e senza diritti che, stritolati dal serpente del potere politico colluso con quello economico, sono diventati la nuova schiavitù salariata. 

Così, sebbene l’establishemnt democratico  le avesse  riempito il centralissimo Congress Center di mercanzie di ogni tipo di Santa Hillary, senza nemmeno una piccola effigie di Bernie Sanders, Filadelfia ha deciso di fare a modo suo, lasciando però che fosse il tempo a svelare le sue vere intenzioni. 

Aver vissuto quei giorni schizofrenici, in cui il partito e i media celebravano Hillary e ignoravano Bernie, dalla parte sandersiana della barricata mi ha permesso di vedere come la delusione, la tristezza e la rabbia per una vittoria scippata a Sanders con tutti i mezzi, si stessero trasformando in un miracoloso propellente in grado di attivare una macchina organizzativa senza pari, che nel giro di due anni avrebbe dato  frutti inaspettati. 

La nascita nazionale della Rivoluzione Politica

Tantissimi sono i ricordi di quella settimana vissuta  con il popolo dei Feel the Bern. Ricordo i raduni al palazzo del Comune, prima di partire per le chilometriche marce fino alla presidiatissima zona degli stadi dove si svolgeva la convention e le proteste notturne davanti ai cancelli. Ricordo i sit-in nell'attiguo  F.D. Roosevelt Park  e la tristezza sul volto della folla lì radunata mentre sui megaschermi le dichiarazioni di voto davano a Hillary la nomina presidenziale. Ricordo i cori degli slogan inneggianti a Bernie,  alla democrazia e al risveglio della lotta di classe e i momenti caldi che nonostante alcuni arresti non sono mai stati violenti. Ricordo la pioggia torrenziale di un pomeriggio quando in tanti, già bagnati fradici, abbiamo trovato rifugio sotto il Walt Whitman Bridge, un nome un destino,  e la jem session lì improvvisata suonando e cantando le canzoni di Woody Guthrie, Pete Seeger e Bob Dylan.

 

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La folla radunata intorno al palazzo del Comune prim di una marcia verso la zona delgli stadi  dove nel Wells Fargo Center si svolgeva la convention.

Ricordo le riunioni in cui si discuteva di che cosa fare in previsione delle elezioni generali e l'auditorium stracolmo del Centro Studi Quacchero per un incontro con la candidata verde Jill Stein e con Chris Hedges, uno degli intellettuali di area socialista più apprezzati, che tra i molti boo della platea criticava Bernie Sanders per aver scelto di stare con Hillary invece di unirsi a Jill. E i conflitti tra i sandersiani per quella dolorosa scelta che Bernie aveva cercato di spiegare ai suoi oltre 1700 delegati, per convincerli che sostenere Hillary, pretendendo però che inserisse nel suo programma istanze fondamentali della Political Revolution, fosse l’unico modo per tentare di evitare la presidenza di Trump. 

E ricordo l'ultima riunione notturna sotto gli archi di un edificio del F.D. Roosevelt Park, dove delegati sandersiani, rappresentanti di movimenti più o meno piccoli, attivisti e semplici sostenitori, tutti provenienti dalle più varie località degli Stati Uniti, stavano dando il via ad un coordinamento nazionale che non facesse cadere nel nulla tutto il lavoro fatto fino ad allora a livello locale. Ricordo che i loro discorsi, pieni di entusiasmo per il futuro, e la passione con cui si promettevano di creare una rete di contatti che permettesse a tutti di essere aggiornati su ogni mossa importante e miglioramento strategico, mi avevano dato l’impressione di assistere al formarsi di un potentissimo vortice. Ma anche quelli più forti possono esaurirsi nel nulla, così come possono trasformarsi in tornadi. Quella notte ho avuto la certezza che la seconda ipotesi fosse l’unica possibile. E così è stato. 

 

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Una delegata sandersiana che insieme a parecchi altri ha partecipato alla riunione cominciata depo le mezzanotte dell'ultimo giorno della convention del F.D. Roosevelt Park. 

E soprattutto ricordo la sensazione di essermi sempre sentita parte integrante di quella folla, pur non avendo mai incontrato un solo italiano, poiché avevo l’impressione che quello che stava succedendo lì avrebbe potuto travalicare i confini nazionali e oceanici. Eppure al mio ritorno in Italia, quando raccontavo di quella esperienza, venivo guardata con scetticismo, a volte con sufficienza, e quasi sempre come una fanatica che viveva fuori dalla realtà. 

Così ho smesso di parlarne, ma non di scriverne, raccontando ad esempio  della  nascita e della crescita di Our Revolution e di Justice Democrats, i due movimenti nazionali che, in diversi casi insieme ai DSA (Democratic Socialists of America), hanno contribuito  alle vittorie di candidati aderenti alla Political Revolution nelle elezioni di medio termine.
Certo non sempre è stato facile distinguere tra chi, dichiarandosi a favore di istanze che stavando diventando sempre più popolari, sia salito su quel carro  per convinzione e chi per convenienza. E ora la cosa si fa sempre più preoccupante, visto che la propaganda mainstream, seguendo i suoi tornaconti, ha già cominciato a vendere  gli pseudoprogressisti candidati alla presidenza,  quali  Kamala Harris, Cory Booker o Beto O’Rourke, come valide alternative nella stessa area di Bernie.
Quel che è sempre stato chiaro, comunque, è che su Alexandria Ocasio Cortez di dubbi non ce ne fossero. Lei la rivoluzione politica ce l'ha nel sangue.

Sulle tracce di Alexandria Ocasio Cortez

Ed è stato così che l’estate scorsa, seguendo ancora istinto e passione, ma con la certezza ulteriormente convalidata dai “maniacali” aggiornamenti nei due anni trascorsi in Italia, sono andata a New York a cercarla. E l’ho trovata. Affabile, semplice e spontanea come appare, e dotata di una spiccata intelligenza che ora in Congresso le permette di mettere nel sacco anche i più consumati politici tradizionali, mettendoli di fronte a provocazioni senza precedenti condotte con ferrea logicità. 

Tra le esperienze vissute seguendo le sue tracce,  ricordo in particolare la giornata inaugurale della sua campagna per le elezioni generali di medio termine.  Non un giorno per la folla ma per gli attivisti, cominciato con una riunione al Lorraine Pub in un quartiere del Queens a popolazione prevalentemente asiatica e latina, dopo la quale si sono formati gruppetti  per andare di casa in casa e di negozio in negozio, a spiegare le posizioni di Alexandria, acoltare i problemi delle persone ed eventualmente fornire loro i bollettini per la registrazione elettorale e l’aiuto per compilarli.

Ricordo che anche in quel contesto, sebbene più che mai estranea, non mi sono mai sentita tale, e non solo perché nel pomeriggio mi sono vista quasi automaticamente inserita in uno dei gruppetti con i queli ho fatto "street canvassing",  ma per l'accoglienza ricevuta fin dall'ingresso nel locale, ancora prima che Alexandria arrivasse.  E così quando improvvisamente mi sono trovata faccia a faccia con lei, mi è venuto spontaneo abbracciarla. Ricordo che nella stretta con cui ha risposto al mio abbraccio sono rimasta impressionata dalla sua magrezza scheletrica, tanto che durante una chiacchierata con la  sua campaign manager Vigie Ramos Rios, che già mi aveva accolto con cordialità ed attenzione nel locale, gli argomenti principali sono stati la salute di Alexandria e la rete di protezione per cercare di salvaguardarla per quanto possibile dall'aggressione mediatica sempre più feroce cui sarebbe presto andata incontro.

 

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Alexandria Ocasio Cortez e Vigie, la sua campaign manager

E ricordo Bilal Tahir di Justice Democrats, staff organizer di Alexandria, dal quale ho poi raccolto una lunga intervista, mentre spiegava a tutti gli attivisti in sala il funzionamento della nuovissima applicazione, non pubblica, installata sui loro telefonini per rendere strategicamente più produttiva la campagna. In quel momento, mentre tutti maneggiavano a testa bassa sui loro cellulari, il mio pensiero è andato alla magica  notte delle promesse di Filadelfia… 

 Alexandria e il Green New Deal 

Ma tra i tanti ricordi di quel giorno, quello che “vorrei” sottolineare oggi, all’indomani del Friday for Future, è la passione con cui Alexandria anche in quel giorno, in mezzo ai suoi fedelissimi, ha parlato del Green New Deal. 

 

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Alexandria nel discorso agli attivisti del Lorraine Pub mentre Vigie le tiene la sedia.

Ed è lei ora ad essere la paladina di quel piano che, appena entrata in Congresso, ha presentato come proposta di legge e che  prevede la conversione  entro il 2030 su tutto il territorio nazionale delle attuali fonti energetiche in energia pulita   E’ lei che, ancor prima dell'inaugurazione ufficiale del nuovo Congresso,  ha presentato il suo biglietto da visita da rivoluzionaria, aggregandosi ai giovani del movimento ecologista Sunrise che hanno invaso l’ufficio di Nancy Pelosi per fare pressione sul quel tema. 

Ed è lei che, indipendentemente dal fatto che Bernie Sanders ce la faccia o meno a diventare presidente,  è la sua più autorevole erede. E possiamo stare certi che in attesa dell'età che le permetterà  di candidarsi,  Alexandria Ocasio Cortez continuerà a battersi per la giustizia sociale, economica, razziale ed ambientale che ha ispirato tutta la carriera politica di Bernie Sanders.  

Quella giustizia alla base della Rivoluzione Politica che nel luglio 2016 la città di Filadelfia non ha permesso si esaurisse in una bolla di sapone, ma alla quale, a dispetto dell'apparenza quei giorni, ha dato la sua autorevole benedizione per il futuro. 

 

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Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.