Apro il libro. Faccio scorrere le pagine, sono tutte immacolate. Prendo un altro volume da uno scaffale. Anche su quella copertina è stampato “Cervantes, Don Chisciotte”, ma anche quelle pagine sono prive di scrittura.
È colpa mia se sono arrivato tardi e l’hotel Miradoro è chiuso? Sono arrivato tardi perché l’Onnipotente andava su e giù per il giardino alla brezza del giorno e Adamo ed Eva si nascondevano tra gli alberi. (Genesi III 8). In ogni modo busso ripetutamente. Nessuno risponde. Ribusso. Miagolio di gatto dalle viscere dell’albergo. Miagolo anch’io per fare intendere che sono vivo e mi basterebbe un ripostiglio della soffitta per riposare le mie ossa. Scricchiola un chiavistello sulla porta. Si apre uno spioncino dove appare un vecchio occhio “Quo vadis?” Gli dico che sono il rappresentante dei “Chiodi fulmine”, che domani metterò il mio banchetto nella piazza del mercato, con la speranza di vendere un po’ di merce. “Tutto esaurito” dice l’occhio. “Nell’hotel Miradoro non c’è più posto. Neppure per una cicala” “Ma un bugigattolo” dico io “Nada de nada.” Mi sale il freddo dalla punta dei piedi alla punta dei capelli. Imploro: “Uno sgabello, mi basterebbe uno sgabello per stare all’asciutto e tirare l’alba.” Nella porta si apre un altro spioncino ed appare una mano con un mazzo di carte da gioco. L’occhio dice che mi farebbe entrare se accondiscendo a giocare una partita. Sono tanto fradicio e infreddolito che accetto. Una partita e non oltre. Sollevo la mia carta: asso di picche, ho vinto. Spingo la porta ed entro. Penombra, tranne un lumino ad olio sul tavolo dove una donna, di spalle, è seduta a cucire. Accanto a lei un vecchio legge. Striscio i piedi sul pavimento per avvertire che sono entrato. Dal buio sorge un domestico che mi porge la chiave di un ripostiglio in soffitta. La cucitrice rompe il filo con i denti e arma l’ago con un altro cappio. Il vecchio volta pagina. Vorrei avvicinarmi per chiedere se c’è stato un buon raccolto: “Abbastanza grano nonostante i temporali.” bisbiglia il vecchio. Io sono titubante, ma salgo in soffitta per una scala a chiocciola che scricchiola ad ogni mio passo. Con la chiave tento diverse porte ma nessuna si apre. Spingo l’ultimo usciolo che si schiude con un sospiro. La stanza è strapiena di libri, scaffali da terra al soffitto. L’aria sa di carta fradicia. Un tavolino è sotto la finestra, sul piano una lucerna, un libro, il nécessaire per scrivere e un campanello d’argento per chiamare. Mi siedo e leggo il frontespizio del libro: è il “Don Chisciotte.” Apro il libro. Faccio scorrere le pagine, sono tutte immacolate. Prendo un altro volume da uno scaffale. Anche su quella copertina è stampato “Cervantes, Don Chisciotte”, ma anche quelle pagine sono prive di scrittura. Raccolgo diversi libri, tutti titolati “Don Chisciotte”, ma nessuna pagina è scritta. Scuoto il campanello suscitando una cupa sonorità. E’ la voce dell’Onnipotente che mi rimprovera? Che cosa ho fatto di imperdonabile? Ho bevuto l’acqua santa? Aspetto. Poco dopo, passi sulla scala a chiocciola che si lamenta. Bussano alla porta. “Avanti!” Appare il vecchio che ho visto nella sala d’ingresso. Ha in mano un libro che mi porge. E’ ancora un “Don Chisciotte” con le pagine bianche. Accenno a rifiutare il libro, ma il vecchio insiste, deve essere sordo. Gli grido che non voglio quel libro. Il vecchio sembra scusarsi, prende dalla sua tasca un fazzoletto e copre il volume, quindi si volta per discendere la scala. Così voltato e curvo sembra mio padre. Quando ha fatto il primo gradino indugia, poi si volta a guardarmi. Si è lui, mio padre. La luce dei suoi occhi è quella che conosco bene, la luce che mi faceva rabbrividire quando levava i suoi occhi dal libro che mi leggeva, mi guardava fisso ed io tremavo. Che ora è? Il tempo si è dissolto. Di nuovo scuoto il campanello. Ora il suo suono è lieve come il miagolio dei gattini appena nati. Poco dopo i passi altrettanto leggeri di qualcuno che sale: Din, din,din… appare mia madre, in una mano l’ago e il filo, nell’altra mano un piatto su cui è deposto un libro. Il piatto è tra quelli della cucina al tempo della mia infanzia, una maiolica screpolata con il bordo segnato da una riga azzurra. Con voce che bisbiglia mia madre mi implora. La sua voce trema, mi supplica di prendere il libro. “Quale libro?” “Il libro che devi scrivere” “Scrivere?” dico io “ “Scrivere… “ dice lei “Scrivere, finché puoi devi scrivere prima che ti succeda come allo zio Paolo.” Lei fatica a parlare ma riesce a dirmi che se non scriverò finirò come lo zio Paolo, morto in guerra, in Africa, dove la sua lapide è ancora ad El Alamein, coperta dalla sabbia del deserto” ”Io, io ...” Io balbetto e vorrei scappare, vorrei che mia madre non fosse lì a vedere che piango perché ho paura di non riuscire a scrivere. Tutti quei libri non scritti che riempiono il bugigattolo dell’Hotel Miradoro sono angeli decaduti che bivaccano nel mio cuore. Poi mia madre sembra voler apparecchiare il tavolino per mio conforto. Svita la boccetta dell’inchiostro, vi mette accanto la penna, apre il libro, mi fa cenno che io mi sieda. Io acconsento, mi siedo, intingo la penna nell’inchiostro, mi chino sul libro aperto, faccio scorrere la penna sulla pagina bianca. Prodigio! La carta accoglie la mia scrittura. Sento un tuffo al cuore. Scrivo, scrivo, ma quando sollevo gli occhi mia madre non c’è più. I miei genitori sono spariti. Mi faccio forza e riprendo a scrivere. Scrivo sulla sabbia del deserto, sulla collina dove è sepolto lo zio Paolo. Scrivo senza mai fermarmi mentre l’Onnipotente soffia sulle dune suscitando un furibondo Ghibli che cancella tutto ciò che scrivo.
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