“Dove andiamo? Per ora andiamo al mercato di San Colombano. Poi si vedrà.” “Veniamo anche noi ” dicono i fuggitivi accodandosi ai fantasmi che si sono rimessi in marcia.
Alla fine dell’inverno, allo sgocciolare del ghiaccio dai becchi delle fontanelle, lo zio Barba viene fermato alla dogana perché non ha i documenti. Ha una Divina Commedia ma non ha il passaporto. Rivoltandosi le tasche si arrovella su come diavolo sia sparito il passaporto con l’inclusa foto di Madama Dorè che rammenda i pantaloni di lui sotto la finestra dalla quale si vede l’infinito. Forse il passaporto l’ha lasciato sul tavolo della donna l’ultima volta che è stato da lei per portarle un libricino sui gatti e riceverne in cambio frittelle di mele. Quella notte si erano svegliati per guardare le stelle che parevano aumentate di numero tanto lucevano. E loro, pelle contro pelle, erano rabbrividiti. Della mancanza del passaporto la Dogana aveva subito avvisato la “Corte dei conti” : “Nein passaporten!” “La Corte dei conti” risponde di portare pazienza perché hanno un milione di pratiche arretrate e solo due mani per impiegato e gli impiegati sono tre, a volte due, perché il più anziano soffre di sciatica che lo costringe a letto con la rigida asse da stiro sotto la schiena. Inoltre l’eclisse solare dello scorso anno ha seccato gli inchiostri nei calamai, per cui si deve scrivere con acqua e camomilla di pigra asciugatura. Comunque lo zio Barba viene rinchiuso nella gabbia della Dogana dove è già imprigionata un’oca anch’essa senza documenti. La pennuta viene dal Paraguay, sebbene quella provincia non ci sia più, essendo stata inghiottita dalla balena arenata sulle sue spiagge. Lo zio Barba e l’oca si sono subito intesi per evadere insieme alla prima occasione. Miracolo! Si è fatta viva Madama Dorè che ha riscattato lo zio Barba in cambio della pulizia della Dogana, dai pavimenti ai soffitti, compreso il parafulmine sul tetto e l’eccidio degli scarafaggi intrufolati dietro gli schedari. I tre aspettano l’occasione propizia quando il Diacono viene ogni sera a recitare le orazioni con i prigionieri. Il religioso ha appena aperto la bocca per dire amen, che i reclusi lo soffocano con un fazzolettone imbevuto di etere. Il chierico cade a terra, apparendo morto da secoli, tanto è rigido. Carpito il mazzo delle chiavi, i fuggitivi eludono le guardie intente a un giro di tre- sette, ma sgusciati dal carcere restano basiti, cioè arcistupefatti. C’è tanta nebbia che il pollice della mano non vede l’indice, quel dito dove luccica l’anello d’argento che Madama Dorè ha regalato allo zio Barba. Facendosi coraggio lo zio Barba mette avanti un piede, ma non si decide a posarlo perché è sparito il suolo e lui non sa che passo fare. Madama Dorè agita le braccia, l’oca fa il suo verso. Niente, non c’è nessuno. Tutti e tre si abbracciano e quando sono ben stretti gridano le loro credenziali: come si chiamano, dove sono nati, che malattie hanno sofferto, se dormono di notte, se hanno paura di morire. Chi non ha paura di morire è l’oca, essendo certa che qualcuno l’aspetta nell’aldilà. “Qualcuno chi?” vorrebbe sapere lo zio Barba. La pennuta tergiversa ma , poiché lo zio Barba insiste, lei sussurra: “Mi aspetta un cavallo.” Timorosi dell’aldilà sono invece lo zio Barba e Madama Dorè. Si dice che nella eternità gli uomini siano separati dalle donne ed i maschi non possano voltarsi a guardare le femmine e viceversa. D’un tratto i fuggitivi si stropicciano gli occhi: “Cosa c’è, chi c’è?” C’è uno che cammina a taciti passi. Anzi sono più d’uno, sono come uno stormo di vecchi aironi che faticano a volare. Allo zio Barba batte forte il cuore. Si fruga nelle tasche. Cerca la Divina Commedia. C’è. Inferno, canto XV. E’ scritto: “Quando incontrammo d’anime una schiera che venian lungo l’argine e ciascuna ci guardava come suol la sera guardare un altro sotto nuova luna…” Così, proprio così, gli appariti vanno senza bisbigli, l’uno tenendo la mano di chi lo segue e chi lo segue, a sua volta, con la mano in mano di chi vien dopo, ma tutti senza tinta, come zig zag di fulmini che il temporale candisce sul muro della stanza dove un vecchio spaventato si tira le coperte sulla testa. Per fortuna sotto le coltri il suo cane gli lecca la faccia. Lo zio Barba si mette una mano sul petto: “Dove andate, anime prave?” Si ferma una che pare la zia Adelina, parente dello zio Barba, per parte di madre, la quale, prima di parlare, si incappuccia nella propria vestaglia, come se non volesse farsi riconoscere. Povera Adelina, buttatasi dalla finestra quando suo marito non era più tornato dalla guerra d’Affrica. Lei apre la bocca, ma da lì non sorte alcuna voce, come se il linguaggio fosse morto per conto suo. Per fortuna avanza uno spirito zelante. “Dove andiamo? Per ora andiamo al mercato di San Colombano. Poi si vedrà.” “Veniamo anche noi ” dicono i fuggitivi accodandosi ai fantasmi che si sono rimessi in marcia. Spunta il sole in un tripudio di allodole che si levano dalle siepi. La nebbia si dirada. Per strada c’è gente che va al mercato di San Colombano. Chi vende e chi compera. Cereali, semenze, scampoli, ex voto, stilografiche da scrivere ciò che più non si osa: ti aspetto, ti aspetto alla fine del mondo. Questo è già il Limbo, dove tutti trafficano in argentature di fregi, rilegature di libri, rimaneggio di grammatiche, eccetera, eccetera, finché cala il sole ed i beati sprofondano nei propri sogni.