Ci eravamo rifugiati nel paese dove mia madre era nata, dove abitavano le sue sorelle e dove viveva mia cugina Anna figlia della zia Lidia. Anna aveva la mia stessa età e aveva fatto i miei stessi studi.
Il riso cresce nei campi allagati anche se c’è la guerra, caso mai, se c’è la guerra e nessuno lo libera dalle erbacce, il riso, piuttosto che niente, si fa mangiare dagli aironi. Se c’è la guerra i maiali non ingrassano, e neppure le oche ingrassano. Le oche sbraitano per niente perché non ci sono più lucertole da mangiare. Le oche non fiatano più come fanno le loro strette parenti, le anitre mute. Ma se c’è la guerra, tutti diventano magri come è successo quando io ero un ragazzetto e ricordo i reduci che vagavano per la città in cerca di una crosta di pane. Un soldato cieco, a cui era scoppiata in mano una granata, andava in giro piagnucolando: “Per carità di Dio datemi un occhio!” “Per carità di Dio a me date una gamba sinistra, almeno fin sopra il ginocchio!” implorava uno zoppo che era saltato su una mina in Africa. “A me la mano destra, che non posso fare il segno della Croce con la sinistra che mi è rimasta.” “A me fatemi morire subito!” “Basta, basta, io non ce la faccio più!” cianciavano i reduci trascinandosi per le macerie della città bombardata. I poveri diavoli accendevano stentati fuocherelli per scaldare le mani congelate, poi cadevano nel sonno senza più sentire il sibilo degli aeroplani in picchiata e il tapum delle bombe. Per fortuna mia madre aveva racimolato un fagotto di biancheria e con l’ultima corriera eravamo riusciti a lasciare la città nonostante la milizia ci avesse fermati sulla provinciale, avesse fatto scendere gli uomini, li avesse legati col fil di ferro e buttati nel canale che costeggia la strada.
Terre del riso. Ci eravamo rifugiati nel paese dove mia madre era nata, dove abitavano le sue sorelle e dove viveva mia cugina Anna figlia della zia Lidia. Anna aveva la mia stessa età e aveva fatto i miei stessi studi. Entrambi eravamo arrivati a studiare i Sumeri. Poi i maestri erano scappati per non essere arrestati e spediti al fronte. Le donne cucivano nella stalla riscaldata dalle mucche. Cucivano e non parlavano, avendo in mente solo i loro uomini: chissà dove erano. C’era anche il maiale, in uno stabbio dal quale spuntava il suo muso curioso ed il suo grugnito soddisfatto, perché nessuno lo cacciava dal caldino della stalla. Ssst che non si sappia: nel buio della cantina si nascondeva lo zio Paolo, che teneva sotto la maglia la cartolina del richiamo alle armi. Io e Anna stavamo in soffitta dove mettevamo in scena i paladini di Francia, avendo come pubblico i gatti di casa. Mia cugina era magra come una foglia di lattuga e quando si guardava allo specchio le venivano le lacrime agli occhi, ma per me era più bella dei pavoni che fanno la ruota. Dal nostro bugigattolo guardavamo i campi aspettando il sorgere della nebbia e quando la fumea appariva ci sbracciavamo per chiamarla, perché la nebbia non era nebbia ma il fiato di cavalieri erranti: il Guerrin Meschino, il re Artù, l’Orlando furioso e chissà quanti altri che potevano fare teatro con noi. Di notte era un’altra cosa. Stavamo seduti sul nostro lettone di foglie di granoturco senza mai staccare lo sguardo dal finestrino, finché avvistavamo le comete che andavano su e giù per il cielo come se avessero smarrito la meta. Dovevamo noi gridare a quelle stelle con la coda: “Dove vai? No di lì! Betlemme è da questa altra parte.” Poi la guerra era finita e mia madre ed io eravamo tornati in città. Con mia cugina avevamo giurato che le nostre vite si sarebbero di nuovo congiunte e, senza dubbio, avremmo vissuto insieme fino alla fine facendoci seppellire in due tombe vicine, la mia sormontata da un angelo di marmo con le ali spezzate, la sua coperta da un cespuglio di rose. Avevamo ripreso la scuola ed ora sapevamo quanti soldati a cavallo, quanti arcieri e quanti fanti aveva Nabucodonosor. Eravamo diventati grandi. Lei aveva dismesso il vestitino di cotone blu e andava in giro con gonne scampanate che ad ogni passo si gonfiavano come bucato di lenzuola al vento. Io ero diventato grande per un altro verso: avevo letto e riletto i libri di Jack London e giravo
le terre di confine alla ricerca di vene aurifere. Se mettevo i piedi su una zolla smossa, che pareva il rigonfio di una talpa, sentivo un brivido salirmi per le gambe: lì c’era l’oro. E mia cugina? Tanto tempo fa avevo ricevuto la sua ultima cartolina dove non c’era nessun accenno su come morire assieme. Poi più nulla come se lei vivesse in un paese senza buca per le lettere.
Per non perdere del tutto il filo con mia cugina avevo inventato uno stratagemma da libro giallo. Se mi capitava di rientrare in albergo a sera tardi, cautamente mi mettevo al seguito di una donna che per il passo mi pareva il dondolio di mia cugina. La seguivo da lontano, per non dare nell’occhio. Di recente, in una città portuale, avevo pedinato una donna fino in prossimità del mio albergo. Quando l’avevo lasciata lei si era voltata. I nostri sguardi si erano incrociati. Un attimo. Un flash! Io l’avevo chiamata: “Anna!” Lei si era dileguata. Nel mio albergo tutti gli orologi si erano fermati. Il portiere dormiva con gli occhi spalancati. Nell’ascensore ero stato colto da inquietudine. Mi pareva di essere nell’interno di un vecchio armadio dove mi sentivo soffocare. Ero uscito al mio piano in un lungo corridoio di fievoli ombre. Spettrale era la fila delle scarpe lasciate davanti alle camere. Giunto alla mia stanza restai allibito. Accanto alla porta, accovacciati sulla panca di servizio, una vecchia cameriera e uno scimpanzé dormivano abbracciati. In punta di piedi entrai nella mia camera. Il luogo era in ordine come l’avevo lasciato. Il libro che leggevo in quei giorni era aperto sotto l’abatjour sul comodino. Accanto al libro il cartoncino con la fotografia di mia cugina Anna. Con circospezione andai a letto e come ogni sera mi rivolsi alla foto raccontandole la mia giornata. Le dicevo che c’era nebbia, specialmente al porto, impedendo alle navi di attraccare. Un cargo, intitolato Copperfield, che trasportava carbone, si era paurosamente inclinato su di un fianco. Il capitano andava su e giù per il ponte dell’imbarcazione agitando le braccia contro la nebbia che diventava sempre più fitta. Finito il mio racconto baciai la foto e mi disposi per dormire. Non so da quanto tempo fossi sprofondato nel sonno, quando fui destato dalla sirena del cargo esplosa in un lugubre ululato. La nave Copperfield affondava. Mi levai dal letto come se potessi portare aiuto. Dalla porta veniva un leggero fruscio. Aprii una fessura. La vecchia cameriera e lo scimpanzé erano intenti a lucidare le scarpe dei clienti. Quando si accorsero della mia presenza mi guardarono titubanti come se li avessi sorpresi in qualcosa di sconveniente. Io avevo congiunto le mani in segno di benevolenza. Poi verso il porto si udì uno sparo. Nella foto mia cugina aveva chiuso gli occhi. Poi altri spari. Il capitano del cargo sparava contro la nebbia. Poi silenzio. Il tempo era precipitosamente tornato indietro. C’era la guerra. Io e mia cugina eravamo in soffitta, nascosti sotto il letto. Soldati erano entrati in casa, gridavano, davano calci al tavolo e alle sedie. Cercavano lo zio Paolo. Per fortuna lui era scappato. Prima di andarsene i soldati avevano divelto la porta della stalla e avevano preso il nostro maiale. La povera bestia puntava le zampe e piangeva.
Il riso cresce nei campi allagati anche se c’è la guerra. Sui libri di storia si scrive di Nabuccodonosor. D’inverno c’è nebbia. Mia cugina Anna si è fatta viva potando le rose sulla sua tomba e ponendole sulla mia.