Contro l’avanzata dell’estrema destra in Brianza, l’ANPI e le organizzazioni sindacali provinciali, insieme al Comitato Antifascista di Seregno, mobilitano la storia e la pedagogia.
Seregno diventa la “capitale” dell’ultranazionalismo. Nella sede di Forza Nuova anche il partito europeo “Alliance for peace and Freedom”: con questo titolo il Giornale di Seregno segnalava qualche giorno fa l’apertura di una sede dell’organizzazione neofascista nel centro storico di Seregno: la seconda da queste parti, dopo quella inaugurata lo scorso anno a Meda. Per intenderci, il sopracitato partito europeo APF è quello che riunisce organizzazioni come Alba Dorata o il British Unity Party, insieme a tanti partiti europei che si possono definire in tutto e per tutto, più che ultranazionalisti, neofascisti.
Da tempo a Seregno si assiste, nella continuità di governo delle giunte a trazione leghista che si succedono dal 2005, e nella sostanziale indifferenza della popolazione e della quasi totalità della stampa locale, a una serie di preoccupanti segnali di avanzata dell’estrema destra: il rifiuto di intitolare una piazza alla famiglia Gani, una famiglia di ebrei deportati da Seregno dove risedevano, la presentazione di una lista di Forza Nuova che ottiene 101 voti alle elezioni dello scorso anno, la deposizione di una lapide commemorativa ai caduti seregnesi della Repubblica di Salò nel locale cimitero. E ora questo insediarsi dei neofascisti nel centro cittadino.
Perché? E soprattutto, che fare?
Alcune efficaci, per quanto non facili, risposte le ho trovate in un convegno svoltosi non a caso venerdì scorso in questa sempre più problematica città, in apertura delle manifestazioni per il 25 Aprile 2016. Un convegno organizzato dalle sigle sindacali CGIL, CISL e UIL e dall’ANPI di Monza e Brianza insieme al Comitato antifascista di Seregno e intitolato Conoscenza e memoria, tra verità storica e revisionismo. Titolo sicuramente interessante, che però non dice abbastanza sulla impostazione anche e soprattutto pedagogica del convegno, quale invece si poteva ricavare dall’elenco degli intervenuti: insieme allo storico Emanuele Edallo, ricercatore presso l’Università Statale di Milano, il pedagogista Raffaele Mantegazza, docente a Milano-Bicocca e gli studenti del Liceo Parini di Seregno che hanno partecipato quest’anno al progetto delle stesse sigle sindacali lombarde In treno per la Memoria, un progetto in collaborazione con la scuola per far conoscere ai giovani, al di là dei libri e delle parole, la realtà di Auschwitz.
Ho intravisto, dicevo, risposte, non solo orientate verso il futuro, verso la possibilità di azioni in grado di contrastare attraverso la formazione delle coscienze il ritorno di un passato per alcuni mai morto; ma anche verso la critica del passato più recente, nel quale il revisionismo storico ha dato alimento al riaccendersi di quel macabro fuoco che si nutre del disagio delle società in crisi, spingendo chi ne soffre ad avventarsi contro i più deboli e pretendendo di cancellare il sacrificio e le conquiste di chi già a questo gioco si oppose settant’anni fa a prezzo della propria vita.
Rivedere le descrizioni e le interpretazioni del passato, dice Edallo, è di per sé un atteggiamento connaturato al lavoro dello storico, quando è ispirato alla ricerca di approfondimento: ogni revisione deve essere però sostenuta dalle fonti indispensabili alla ricostruzione di ciò che è stato. Non è questo il caso di tutte le teorie revisioniste che a partire dalla cosiddetta controversia degli storici hanno voluto correggere, fino a rovesciarne i termini, l’interpretazione del fascismo e del nazismo. A metà degli anni Ottanta del Novecento il rapporto degli storici con la società entra in crisi in relazione alla nuova centralità assunta dalla memoria nel rapporto col passato e al ruolo che hanno i media nell’appiattire la prospettiva sul presente: così gli storici scesero dal terreno scientifico a quello dell’ideologia e della politica, e la storia divenne disponibile ad un uso pubblico del passato in funzione della lotta politica.
Soprattutto in Germania si sviluppa tra gli storici un’ampia discussione sul tema ancora scottante del nazionalsocialismo, all’interno della quale Ernst Nolte lancia la sua tesi secondo la quale i crimini nazisti sono una risposta a quelli, precedenti nel tempo, dei bolscevichi. Nolte sostiene che i gulag sono stati il modello dei lager, anzi che Hitler avrebbe preso esempio da Stalin, trasponendo lo sterminio di classe nell’ omicidio razziale. In definitiva, inevitabile risposta dell’Europa al comunismo, il nazismo non produsse altro che uno dei tanti drammi connessi alla seconda guerra mondiale. Ecco, nel risentire queste affermazioni, il mio pensiero corre ad un romanzo storico molto letto e apprezzato in Brianza, scritto in verità prima dell’articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung in cui le tesi di Nolte comparvero in Germania: parlo de Il Cavallo Rosso di Eugenio Corti, uscito nell’85, considerato da molti ultracattolici in tutto il mondo come un capolavoro degno del Nobel, proposto perciò, nonostante le sue quasi mille e trecento pagine, alla lettura degli studenti delle scuole cattoliche. Un romanzo brianzolissimo, la cui ambientazione a Numana, la Besana dove l’autore era nato, è riproposta oggi in un percorso turistico che è quasi un pellegrinaggio; un libro che, seguendo le vicende in parte autobiografiche del protagonista, appartenente a una famiglia di imprenditori brianzoli, porta i lettori, per l’appunto, fra gli orrori della seconda guerra mondiale. Riguardo ai quali, al di là delle indubbie qualità letterarie, anzi, in buona parte anche grazie ad esse, questo romanzo ha diffuso e diffonde a piene mani tesi revisioniste: che il fascismo in Italia sia stata la inevitabile risposta alle violenze del biennio rosso, che il fascismo croato non fosse che una comprensibile difesa nazionalista: nessun cenno ai crimini degli ustascia! anzi, simbolo dell’innocenza ferita dalla guerra è proprio, in una celebre scena, un cavallino croato! Per non parlare della rappresentazione orrorifica del gulag contro i semplici accenni ai crimini nazisti.
Insomma, l’antifascismo dei cattolici ha ceduto troppo spesso all’anticomunismo anche nel dopoguerra e anche in Brianza, e non ci si può meravigliare perciò del fatto che gli anticorpi contro le nuove destre siano ritenuti tanto deboli che queste possano pensare di insediarsi senza troppi contrasti. D’altra parte, Renzo De Felice, considerato da alcuni il massimo storico italiano del fascismo, nonostante indulga a qualche tesi revisionista come la riduzione del ruolo di Mussolini rispetto a quello di Hitler, metteva in evidenza la vasta diffusione, tra gli Italiani, della “zona grigia” degli equidistanti, di coloro che provavano ostilità tanto per il fascismo, responsabile della guerra, quanto per i partigiani, ritenuti responsabili delle rappresaglie nazifasciste e del coinvolgimento della popolazione civile nella guerra! Estraneità, attesismo civile, così definisce De Felice questi atteggiamenti: a giudicare dall’oggi, direi che forse, da questo punto di vista, nulla è cambiato se non in peggio.
Nel frattempo, si sono diffusi ulteriori aspetti della revisione di quel passato: il negazionismo, che Edallo definisce “figlio degenere del revisionismo”, e, ancor più pericolosi anche se in apparenza meno radicali, il riduzionismo e la banalizzazione, grazie ai quali si utilizzano le vicende legate alla shoah per confezionare prodotti commerciali come film o libri che le assimilano a ogni altra vicenda implicita nella crudeltà della guerra o le collocano in contesti improbabili. Ovviamente i primi negazionisti furono i nazisti stessi, nel loro tentativo di distruggere le prove della Shoah facendo, ad esempio saltare il crematorio di Birkenau; e poi, già subito dopo la guerra qualcuno inizia a teorizzare l’inesistenza delle camere a gas. Tipico del negazionismo è lanciare queste tesi senza fornire prove, lasciando ai non negazionisti il compito di provarne la falsità. Ma intanto il dubbio si insinua, sappiamo bene come funziona la calunnia! Perché di questo si tratta, in fondo: di affermare che la Shoah è una grande menzogna, una montatura attraverso la quale gli ebrei hanno cercato di estorcere risarcimenti. E se troppo scopertamente i primi negazionisti come Maurice Bardèche rivelavano un fondo antisemita, più abilmente personaggi come Robert Faurisson, che storico non è, provocano apertamente gli storici a provare l’esistenza del piano di sterminio e la possibilità tecnica della sua esecuzione, ignorando però le testimonianze degli stessi criminali nazisti o sostenendo, ancora senza prove, che anche queste siano un falso volto a fornire giustificazione alla fondazione dello Stato di Israele. Ammantandosi però di presunte discussioni scientifiche, Faurisson permette ai negazionisti di fare un salto di qualità, che viene per di più amplificato dal web, e che in Italia viene ripreso da Carlo Mattogno.
Edallo ricorda inoltre come del dibattito revisionista si sia impadronita, nel ventennio in cui gli ex fascisti sono stati al governo con Berlusconi, non solo la classe politica, pretendendo revisioni o rivalutazioni sui libri di testo o sulle date, sugli eroi della patria, sui momenti simbolici, ma anche i divulgatori pseudo storici alla maniera di Giampaolo Pansa, che tentano di mettere in cattiva luce, senza alcun rigore documentario e metodologico, la Resistenza. Tutte tappe, queste, attraverso cui si arriva a quella improponibile equiparazione tra chi, pur nella sua individuale indegnità, aveva con sé, come ricordava Calvino, una prospettiva di libertà e di giustizia e chi, pur in buona fede, stava con chi pianificava i rastrellamenti e lo sterminio.
Quanto sia necessario mettere in guardia da tutto questo le giovani generazioni è di tutta evidenza: è perciò che particolarmente prezioso è in questo convegno l’esempio degli studenti del Liceo Parini, che, nel gruppo di 450 ragazzi partecipanti quest’anno al Progetto In treno per la memoria, sono rimasti cinque giorni a Cracovia per visitare Auschwitz e conoscere l’universo concentrazionario. L’intervento della giovane Fathia Quaratino a nome di tutti loro mostra quale profondo segno possa lasciare in una coscienza in formazione una esperienza di questo genere, sostenuta da un serio lavoro di preparazione e approfondimento.
“Un silenzio come il nostro, quel giorno, io non l’ho mai sentito.” Con semplicità Fathia restituisce la realtà di ragazzi che amano solo ridere e cantare di fronte al vuoto e all’orrore del lager, il cambiamento che sente avvenuto in loro dopo quel viaggio: l’impegno ad accogliere il testimone che viene loro affidato dalla generazione che ha vissuto quel dolore, per opporsi agli atteggiamenti e ai sentimenti che nel presente “non sono tanto lontani”, dice, da quelli di chi quei campi ha costruito; e la certezza che qualsiasi essere umano, anzi magari proprio quello che non conoscevi il giorno prima, quando è un compagno di viaggio, può fare di te un essere umano migliore.
Altrettanto prezioso, anche perché estremamente deciso e vibrante sul tema dell’antifascismo, è l’intervento di un pedagogista sensibile ed efficace come Raffaele Mantegazza, che comincia col mettere gli adulti di fronte all’interrogativo più inquietante: ma cos’è successo perché in soli settant’anni ci ritroviamo angosciati di fronte a chi vorrebbe non solo negare, ma anche ripetere ciò che allora è accaduto? Perché una democrazia così giovane come la nostra è caduta, in particolare negli ultimi vent’anni, in una crisi così profonda? Da pedagogista, pur rifiutando di accettare la solita facile messa sotto accusa della scuola, ritiene che gli adulti abbiano la grave responsabilità di non aver saputo proporre l’antifascismo e la democrazia come qualcosa di emozionante, qualcosa che faccia brillare gli occhi e metta “i brividi sotto i vestiti”, qualcosa che tocchi profondamente come la visita ad Auschwitz ha toccato Fathia e i suoi compagni. Mancanza di autentica passione, insomma: come si potrebbe altrimenti lasciare che impunemente venga violata la disposizione ultima e transitoria della Costituzione che vieta la ricostituzione”sotto qualsiasi forma” del disciolto partito fascista e la legge Mancino, che estende la definizione di partito fascista, dichiarando illegale la propaganda elettorale che faccia leva in qualsiasi modo sulle differenze razziali, etniche, religiose? Violate e ignorate entrambe, al punto che sembra quasi ridicolo parlarne “nei nostri territori”…
L’antifascismo non è più scontato, anzi siamo costretti a spiegare ai ragazzi che non si può, per essere democratici, accettare che partecipino al gioco anche coloro che non ne accettano le regole, quelli che in realtà approfittano della democrazia per cercare di distruggerla: alla nostra “partita di calcio” può giocare chiunque, tranne quelli che vorrebbero fare goal usando le mani! Semplicemente perché distruggerebbero il gioco stesso. Tanto più che la loro intenzione è apertamente dichiarata. Il 25 Aprile i neofascisti manifesteranno come al solito col loro slogan preferito: Il 25 aprile è nata una puttana, ed è stata chiamata Repubblica Italiana. E alle istituzioni di quella che chiamano puttana vanno a chiedere gli spazi per i loro raduni!
A quelli, comunque travestiti, che negano il fondamento della democrazia, dato che fascismo e nazismo sono essenzialmente questo, bisogna dire di no: perché non si tratta di opinioni come le altre, non si tratta della destra liberista o contraria ai matrimoni omosessuali, il fascismo è un’altra cosa. Chi ritiene l’antifascismo superato dalla storia non può stare nelle istituzioni: chi rappresenta lo stato fa un giuramento di fedeltà alla repubblica e alla democrazia, dunque di antifascismo.
Purtroppo però neofascisti e neonazisti, quelli di Forza Nuova o Casa Pound, hanno una grande capacità di penetrazione presso i giovani: strumentalmente, sanno come attrarli, facendo leva sui loro bisogni. Danno agli adolescenti innanzitutto la dimensione del gruppo, la musica, i fumetti, il calcio, i linguaggi che loro parlano e intendono, che li aggregano; danno loro riti di iniziazione, possibilità di superare le frustrazioni e sentirsi non solo accettati dal gruppo, ma superiori a chi ne resta fuori. Offrono loro la possibilità di scaricare sul mondo esterno ogni responsabilità del loro disagio, di aggirare e ignorare ogni necessità di lavoro su se stessi, oltre che ogni complessità nell’interpretazione del reale. Dividere il mondo in bianco e nero, noi e loro, puri e contaminati, è quanto di più attraente ci sia per un giovane messo in difficoltà dalle complicazioni della vita; e una volta abbattuto il principio di non contraddizione, come avviene per altro in ogni forma di propaganda, sarà facile indurlo a prendersela nei fatti non con i grandi nemici dell’ordine mondiale, con le banche o i parlamenti, ma col povero senegalese o col rom, col senzatetto: della qual cosa sarà premiato con la sensazione di appartenere alla parte giusta e con l’approvazione del gruppo che lo difenderà e riconoscerà il suo valore.
Il neonazismo odierno maschera spesso il suo razzismo come rifiuto di culture estranee e per qualche verso inaccettabili, ma finisce in fondo per leggere in chiave razziale e biologica l’appartenenza culturale. “Un negro non può essere italiano”, gridano in campo a un Balotelli che nei suoi riferimenti culturali di base (le automobili come il cibo) non potrebbe essere più italiano di quanto non sia! E’ anche questo un modo per liberare i giovani dalla fatica del pensiero e della relazione: non voglio sapere se tu puoi essere mio amico, non voglio conoscerti, mi basterà assegnarti alla categoria prestabilita dei buoni o dei cattivi, di quelli come me o di quelli inaccettabili. Noi abbiamo bisogno di istruzioni semplici, che non mettano in gioco quella coscienza di cui non a caso Hitler diceva che è “una complicazione ebraica”: ed è per questo che il web diventa un potente fattore di deresponsabilizzazione e un temibile veicolo di affiliazioni a gruppi neonazisti. Mentre un tempo era necessario un percorso non immediato per venire a conoscenza di argomenti negazionisti, di temi di propaganda di estrema destra, oggi esistono ben quarantamila siti web ascrivibili a questa galassia, che però non si dichiarano apertamente come tali, ma fanno leva su appartenenze calcistiche o su interessi musicali per catturare i giovani. Sul sito degli ultra della mia squadra trovo le svastiche o le tesi negazioniste: caratteristica del web è la decontestualizzazione, unita alla deresponsabilizzazione. Tutti i discorsi sono equivalenti sul web, su Internet non vengono tanto diffusi contenuti, quanto schemi di pensiero, e tutto è permesso di affermare o negare da parte di chiunque. Per questo il fascismo oggi corre soprattutto sul web. Così la nuova Resistenza deve armarsi contro gli stessi nemici di allora anche con le armi della pedagogia che, a differenza delle altre armi, ha il potere di formare sempre nuovi resistenti; e ci rende consapevoli del fatto che è già dentro noi stessi che il fascismo va contrastato, mettendoci in guardia dal pensare che esso sia un fatto quasi genetico e connaturato.
Ecco, anche a questo doveva servire un convegno tanto interessante nella sua intensa e avvincente brevità: a capire come contrastare anche dentro di noi il fascismo. Non tanto quello della violenza e del razzismo da cui in genere ci illudiamo di essere alieni, quanto quello del qualunquismo e dell’indifferenza. Che è molto pernicioso, ma purtroppo molto diffuso: ad ascoltare questi interventi, i presenti erano qualche decina, compresi studenti ed insegnanti. Ma si sa, la pedagogia è roba per addetti ai lavori.