I cubani sono gente allegra, amante della vita, della musica, del ballo, del baseball e del proprio prossimo, abituata a soffrire sotto Batista quando Cuba era il retrobottega degli Usa e che ha continuato a soffrire da libera, a causa dell’embargo americano, dopo la rivoluzione.
Correvano i primi anni ’80. A quell’epoca mi capitò di lavorare per qualche tempo in Libia a fianco dei cubani. Loro costruivano villaggi completi per Gheddafi, dando anche assistenza sanitaria gratuita ai libici. Io ero responsabile degli approvvigionamenti dall’Italia.
Ebbi quindi modo di conoscere questo popolo in un’ottica, diciamo così, non turistica.
Il secondo giorno dal mio arrivo in Libia ero già uno di loro. Massima fiducia e amicizia per me, e grande attenzione per l’Italia. Erano interessati a ogni particolare economico, sportivo o di costume del mio paese, ma quello che mi colpì subito era l’orizzonte “internazionale” che ponevano nei loro discorsi di tutti i giorni. Quando parlavi con un cubano, capivi che non si (pre)occupava solo dei problemi suoi, ma collegava i suoi problemi a quelli di questo o quell’altro paese, ricavandone motivo per ulteriori approfondimenti. Il cubano era così: la sua lingua era “immediatamente” internazionale.
Mi feci un amico, si chiamava Rolando. Era uno, diremmo oggi, del cerchio magico di Fidel. Ricordo che mi diceva spesso che Fidel non nutriva sentimenti di ostilità nei confronti di chicchessia e tanto meno del popolo americano. Lui, pur essendo solo laureato in legge, nei suoi discorsi parlava sempre dei problemi del mondo, della fame, dell’agricoltura, dell’ambiente e del dovere morale di offrire un aiuto sanitario a chi ne aveva bisogno, anche agli stessi americani. Diceva sempre:«somos todos americanos». Dall’altra parte dello Stretto della Florida, però, non la pensavano allo stesso modo, anche perché Fidel aveva cominciato a nazionalizzare le prime raffinerie statunitensi che si rifiutavano di raffinare il greggio di provenienza sovietica. E fu così che Fidel dovette scegliere l’alleanza con i sovietici con cui, diceva, non aveva niente in comune.
I cubani sono gente allegra, amante della vita, della musica, del ballo, del baseball e del proprio prossimo, abituata a soffrire sotto Batista quando Cuba era il retrobottega degli Usa e che ha continuato a soffrire da libera, a causa dell’embargo americano, dopo la rivoluzione.
Se i cubani sapranno resistere alle lusinghe della american way of life, dovranno essere gli americani a stare attenti a non farsi “inquinare” dai principi di vita di questo paese e dalla superiorità, a mio avviso, culturale e civile di questo popolo. “Somos todos americanos” urlava in questi giorni la gente per le strade dell’Avana.
Sì, aggiungerei io, saranno tutti americani, ma certo non sono tutti uguali.