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 Di fronte alla violenza cupa e senza speranza non è più sufficiente la pletora di “Giornate” riversate per par condicio dall’ipocrisia politica di questa o quella fazione, non servono le visite ai campi della Shoah trasformate in gite scolastiche (o viceversa), né le commemorazioni rituali. Serve invece interrogarsi senza reticenze sulla costruzione delle nostre identità fragili, chiedersi come siamo giunti fin qui, che cosa significa oggi essere italiani, europei, cristiani, musulmani, ebrei...

Tratto da Insegnare

La realtà e la Storia sono sempre in agguato e spesso non lasciano alla riflessione il tempo di sedimentare, di elaborare fatti di gravità sconcertante rispetto ai nostri sempre più incerti strumenti interpretativi. Nelle settimane scorse, dopo la strage di Peshaware, ci eravamo chiesti -  Se questo è un Natale - se e come è possibile trattare la violenza della Storia e della realtà quotidiana a scuola, e in particolare nelle classi dei più piccoli.
Ora, dopo l’aggressione alla scuola di un Paese lontano, è toccato alla satira giornalistica in Europa subire una violenza inaudita e l’Occidente è costretto a riscoprire che la minaccia non è solo distante, confinata là dove comunque esso esporta le proprie paure e contraddizioni, ma alligna in casa propria, dove queste vivono e sono consumate, nella stratificazione storica e sociale della sua esistenza civile, delle sue nuove generazioni.

E allora chiederci se e come parlare a scuola di questi eventi è un tema ormai ineludibile, anche se arduo, che chiama in causa tutti i nostri dubbi, tutte le nostre fragilità. Giustamente R2 di la Repubblica intitola “Lezioni di fragilità” le due pagine dedicate il 2 gennaio a questi temi, con un ampio servizio di Vera Schiavazzi e un bel “commento” di Franco Lorenzoni: “La consapevolezza emotiva una sfida per noi maestri”.

Sarebbe inutile e irresponsabile pensare che esistano ricette facili per affrontare problematiche così complesse.
Certamente è condivisibile l’invito al rifiuto dell’indifferenza di Lorenzoni, che - nell'articolo citato - ha scritto: “Se vogliamo provare ad educare alla pace e alla convivenza, come siamo chiamati a fare, dobbiamo in qualche modo avvicinare e imparare a guardare in faccia la guerra, non voltandoci dall’altra parte. Dobbiamo educare alla non indifferenza, trovando il tempo per fare emergere e condividere emozioni e pensieri.”
E nel farlo è forse necessario evitare sia alcuni estremi opposti ed egualmente pericolosi, sia pratiche ormai divenute rituali, prive di senso e di capacità di incidere davvero sulle coscienze.

Oggi, sappiamo e viviamo giorno per giorno da “maestri” ed educatori una scomoda verità: ai discorsi e alle pratiche di integrazione reale non servono né l’aggressività xenofoba di chi brandisce un Presepe nell’atrio della scuola come la spada di un Crociato, né il buonismo caramelloso di chi sembra ignorare tutte le asperità della convivenza fra diversi, auspicando realtà immaginarie ignare di quelle barriere che abbiamo anzitutto dentro di noi.
Così come forse dovremmo interrogarci - e questo ci sembra il tema reale per noi docenti - sulle diverse modalità con cui questi temi vanno affrontati in età diverse, rifuggendo da complessità premature ma anche da banalità superficiali e consolatorie.
La difficile e progressiva conquista della riflessività culturale e storica, della relativizzazione dei giudizi e delle prese di posizione richiede tempi lunghi, approcci equilibrati e deve abituarci a rifuggire da ogni forma di ritualità data per scontata e finalizzata alla propria autocelebrazione.

Di fronte alla violenza cupa e senza speranza non è più sufficiente la pletora di “Giornate” riversate per par condicio dall’ipocrisia politica di questa o quella fazione, non servono le visite ai campi della Shoah trasformate in gite scolastiche (o viceversa), né le commemorazioni rituali o l’educazione alla cittadinanza trasformata da dover essere quotidiano a disciplina circoscritta e forzosa.
Serve invece interrogarsi senza reticenze sulla costruzione delle nostre identità fragili, chiedersi come siamo giunti fin qui, che cosa significa oggi essere italiani, europei, cristiani, musulmani, ebrei... evitando di usare le identità territoriali, etniche, religiose come etichette vuote e pretestuose quanto aggressive; ma ripercorrendo invece con gli allievi la faticosa ricerca dei contesti storici, delle stratificazioni culturali, degli assetti sociali, delle scelte politiche, nostri e altrui.
Serve accettare che la parola “civiltà” perda ogni connessione con il concetto di “scontro” o di "supremazia" e ne acquisti altri, effettivamente costruiti e sorretti da conoscenze, tensioni, regole, limiti, rotture e accordi, complessi e concreti.

E serve farlo anzitutto a scuola, purché territorio libero dalle menzogne e dalle ipocrisie del potere, dalle giustificazioni farneticanti di ogni forma di violenza.
Per far questo serve il lungo, quotidiano esercizio della convivenza fra diversi impegnati nella stessa costruzione di una intelligenza collettiva orientata alla comprensione e all’accettazione delle differenze. Serve  farsi contagiare dall’entusiasmo con cui i bambini lavorano, pensano, parlano, ma anche litigano e si chiariscono insieme, prima che le sovrastrutture adulte ne inquinino l’istintivo senso di umanità.
Anche per questo e ancor più in questi drammatici momenti appare irritante chi sottovaluta o peggio strumentalizza le difficili sfide che deve fronteggiare oggi la scuola nelle terre di immigrazione, per dare un reale contributo al rifiuto della violenza e alla costruzione della convivenza civile e della pace.

Tratto da

insegnare

Foto da cnn.com