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Come ha magistralmente descritto lo storico dell’economia Gary Gerstle nel suo The Rise and Fall of the neoliberal order (Oxford University Press 2022), la storia è caratterizzata da lunghi periodi in cui domina un determinato “ordine”, accettato e praticato alternativamente da governi sia di destra che di sinistra, finché esso non cede il passo ad un nuovo “ordine”.

Così è stato per il New Deal inaugurato da Franklin D. Roosevelt negli anni trenta del secolo scorso, così è stato per il neoliberismo, instaurato da Ronald Regan e Margaret Thatcher negli anni ottanta.

Ma questi ordini non nascono dal nulla. Essi traggono ispirazione da teorie a lungo maturate e a un certo punto fatte proprie dai leader e dal comune sentire, diffondendo nella società civile una nuova“narrazione”.

Non si può intendere il New Deal senza far riferimento all’economista John M. Keynes e alle teorie sullo stato sociale del secondo dopoguerra, proposte da Sir William Beveridge e messe in atto dai laburisti britannici. T Così come non ci sarebbe stato il neoliberismo senza la scuola economica austriaca di Friedrik Von Hayek e quella di Chicago di Milton Friedman.

Come sostiene Gerstle, l’ordine neoliberista sta tirando le cuoia, con l’esplosione dei suoi effetti deleteri in termini di guasti ambientali e di disuguaglianze. Ma la crisi si prolunga con tempi da melodramma italiano. É scoppiata nel 2008 con l’evento simbolo del fallimento della Lehman Brothers, è stata complicata da vicende imprevedibili, come la pandemia da Covid-19 e le guerre in Ucraina e in Palestina. Più che in un nuovo ordine viviamo adesso in un grande disordine, i cui esiti potrebbero essere entusiasmanti o disastrosi per l’umanità.

Come é avvenuto negli “ordini” precedenti, e come ho cercato di illustrare in molti tra i miei precedenti articoli, gli studi e le conoscenze che possono far sperare nella nascita di un nuovo ordine positivo per il futuro del pianeta sono numerosi e consistenti, anche se ancora lasciati al margine delle narrazioni dominanti. Uno stuolo di economisti e studiosi eccellenti, tra cui premi Nobel, come ad esempio Anthony B. Atkinson, Amartya Sen, Paul É. Stiglitz, Thomas Piketty, hanno indicato le linee forza di un nuovo ordine che potrebbe far approdare la nave malconcia dell’umanità in lidi più vivibili.

Al livello dei movimenti di base, movimenti come i Fridays for Future scatenati da Greta Thunberg hanno avuto un effetto dirompente contro l’apatia ancora diffusa nel mondo rispetto al progressivo degrado ambientale.

Ma anche al livello di parti importanti dei vertici del mondo economico hanno cominciato a diffondersi idee e comportamenti i in precedenza confinati in gruppi lungimiranti ma ristretti, spesso tacciati di utopismo. Mi riferisco, ad esempio, al superamento di principi prima considerati fondamentali nel mondo delle imprese. Come il riferimento esclusivo, nella governance delle imprese, agli interessi dei proprietari e dirigenti d’impresa (il profitto, gli “shareholder”), ora esteso (in dichiarazioni formali, ma la forma conta quando sottoscritta ad alti livelli di potere) a tutti coloro che sono toccati dai comportamenti dell’impresa, gli “stakeholder”. E mi riferisco, ancora di più, agli ingenti e crescenti investimenti, da parte dei grandi fondi patrimoniali, in imprese che basano la propria prosperità non solo su obiettivi finanziari, ma anche di compatibilità ambientale, di convivenza sociale e di buona governance (ESG). Più in generale, mi riferisco alla crisi che investe da tempo la scienza economica, sempre meno confinata nelle sue formule finanziarie e utilitariste, e sempre più integrata con saperi che fanno riferimento ad indicatori del benessere degli esseri umani. Queste nuove visioni stanno faticosamente, ma forse inesorabilmente, penetrando nel modo di pensare e nei comportamenti di leader e persone comuni. Creando nuove “narrazioni”.

 

Foto Oficial do Presidente Lula

Luiz Inácio Lula da Silva  -  Foto: Ricardo Stuckert/PR

 

In questa prospettiva, mi sono sembrate particolarmente interessanti alcune notizie marginalmente inserite nel quadro spesso desolante dei reportage sulle vicende internazionali.

In particolare, un’intervista rilasciata da Luiz Ignacio Lula da Silva, presidente del Brasile, a la Repubblica del 14 giugno scorso, in occasione del recente G7 voltosi in Italia. Non solo per i suoi apprezzabili contenuti, ma anche perché é una voce proveniente dall’esterno del cosiddetto “occidente”, che una volta costituiva un quarto della popolazione mondiale ed oggi si aggira sul 5%. «Il mondo non é più, ha dichiarato Lula, quello di 20 anni fa… i Paesi del G7 non sono più le sette maggiori economie mondiali». Dimentichiamo facilmente, aggiungo io, che secondo l’Unesco nel 1950 circa il 45% della popolazione mondiale era analfabeta, contro il 15% di oggi. Lula pone chiaramente i tre grandi obiettivi dell’umanità da perseguire: la compatibilità ambientale, la riduzione delle disuguaglianze e della povertà, una più equa autorevole e legittimata governance globale. E non esita ad affermare che, per realizzare questi obiettivi, un intervento sui patrimoni più ingenti della terra ê essenziale e possibile. Questa proposta approderà a fine luglio al G20 Finanze di Rio de Janeiro.

Su questa proposta converge a livello europeo un Comitato denominato “Tax the Rich”, promosso da diverse associazioni non profit.

Nel comitato promotore ci sono fra gli altri, oltre a personalità come Thomas Piketty, anche rappresentanti di associazioni come Tax me Now: costituita da ereditieri di Germania, Austria e Svizzera, che chiedono una maggiore tassazione i del capitale in nome della giustizia fiscale.

L’iniziativa ha quindi due aspetti sorprendenti:1. l’adozione di uno slogan che suona provocatorio in un contesto nel quale l’argomento delle tasse sul patrimoni e sulle successioni è ancora sostanzialmente rimosso; 2. L’adesione di movimenti di persone benestanti che, in contrasto con le ideologie classiste, si dichiarano disposte a contribuire a una maggiore equità fiscale. E’ una conferma della mia convinzione che una sinistra progressista dovrebbe fare proprio lo slogan del movimento Occupy Wall Street del 2008, “Siamo il 99%”. Altro che “campo largo”!

L’Iniziativa “Tax the Rich propone di chiedere alla Commissione EU di «introdurre un’imposta europea sui grandi patrimoni. Un tributo in grado di generare cospicue risorse da destinare a investimenti per l’inclusione sociale e per una transizione ecologica giusta nei paesi dell’Unione, e per incrementare gli stanziamenti EU per le politiche di cooperazione internazionale allo sviluppo e alla finanza climatica».

La proposta, che ha come animatore l’economista Gabriel Zucman, direttore dell’EU Tax Observatory, prevede un’imposta minima globale sui miliardari, pari al 2% del loro reddito. Colpirebbe circa 3000 contribuenti, e potrebbe dare un gettito dell’ordine di 250 miliardi di euro. Una eventuale imposta rafforzata (per evitare le elusioni) sulle multinazionali potrebbe raddoppiare il gettito. Sarebbe così possibile realizzare gli obiettivi ambientali e sociali fissati dall’Agenda 30 dell’ONU.

All’Iniziativa hanno aderito nel nostro Paese 124 economisti di numerose università con un loro Manifesto.

Come riporta 24 Ore del 22 maggio scorso, «Il Manifesto… chiede l’introduzione di un’imposta progressiva sui grandi patrimoni, da applicarsi allo 0,1% più ricco dei cittadini italiani, circa 50 mila persone, per la parte di patrimonio netto che eccede i 5,4 miliardi di euro. Il gettito potrebbe arrivare fino a 16 miliardi di euro l’anno… Non si tratta di una “patrimoniale”, quanto piuttosto dell’introduzione di tre ulteriori scaglioni ed aliquote marginali Irpef per redditi più elevati». Tra le proposte c’è anche quella dell’aumento del prelievo sulle grandi successioni e donazioni, particolarmente bassa in Italia, e quella dell’abolizione dei regimi sostitutivi, in modo da arrivare a «una tassazione personale omnicomprensiva”, che rifletta un sistema fiscale equo, a fronte dell’attuale, che tassa soprattutto i redditi da lavoro, con un maggiore aggravio per i dipendenti».

 

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Al Gore al Web Summit nel 2017

 

Una voce molto autorevole si è di nuovo fatta sentire sulla questione della transizione ambientale: quella di Al Gore, premio Nobel per la Pace, ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti disgraziatamente battuto per un pugno di voti da Lyndon Jphnson. Il documentario di Al Gore dal titolo “Una scomoda verità” sul riscaldamento globale, proiettato in tutto il mondo dal 2006 del 2008, è una pietra miliare della lotta alla distruzione dell’ambiente, al pari de “I limiti dello Sviluppo” del Club di Roma del 1975.

Al Gore è stato a Roma negli ultimi tre giorni di giugno nell’ambito di un progetto globale di sensibilizzazione e mobilitazione per il risanamento ambientale, rivolto soprattutto ai giovani. La manifestazione ha visto la partecipazione di otre mille ragazzi alla Vela di Roma.

Al Gore mette in evidenza i progressi fatti negli ultimi tempi per il miglioramento delle condizioni ambientali del Pianeta. Tuttavia denuncia con vigore gli ostacoli e le contraddizioni di questo processo, accusando apertamente le grandi compagnie che prosperano sule fonti di energia fossili. Ma in un’intervista a la Repubblica de 26 maggio scorso ha dichiarato: «Non penso che questa rivoluzione della sostenibilità possa essere fermata». E ha proseguito: «Non dobbiamo mai scordare che c’è una grande ruota che si muove nella giusta direzione mentre ruote più piccole si muovono nella direzione sbagliata. Stiamo per vincere. Non ho dubbi nella mia mente. La domanda da farsi è se vinceremo in tempo per evitare alcuni dei punti di svolta negativi per l’equilibrio climatico della Terra che potrebbero creare sfide ancora più grandi per noi. Credo che ce la faremo. Abbiamo l’avvocato più potente, la Natura». E la sua frase più significativa è forse questa: «Scommetto sull’umanità».

Particolarmente importante è inoltre una disposizione emessa nel maggio scorso dall’Unione Europea sui fondi che si qualificano come rispondenti ai parametri ESG, cioè ambientali, sociali e di governance. Come riferisce Affari & Finanza del 1 luglio scorso, lo scopo dell’ESMA, Autorità Europea sugli strumenti Finanziari e sui Mercati, è quello di definire con maggior rigore termini e vincoli dei fondi che si qualificano come ESG, per ridurre il troppo diffuso “green washing”. Questa disposizione imporrà una selezione piuttosto drastica dei fondi ESG, selezione peraltro già in atto da parte dei sottoscrittori, attenti alla sostanza dei loro investimenti. La cosa è doppiamente significativa. Perché conferma da una parte il crescente interesse degli investitori in impieghi ambientalmente e socialmente compatibili, dall’altra il progredire delle definizioni e degli indicatori sul benessere sociale, che dovrebbero integrative l’indicatore PIL

 

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Tim Jackson - Tabella aspettativa di vita

 

Nell’accingermi a scrivere questo articolo pensavo di parlare ancora del PIL e dell’assurdità di fondare le valutazioni sullo stato dell’economia su una crescita senza fine, ,sintetizzata in questo indicatore. Ero indotto a ciò dalla lettura di due pregevoli librri di Tim Jackson, economista e filosofo, pubblicati uno prima, e l’altro dopo la pandemia da Covid-19: “Prosperità senza crescita" (Edizioni Ambiente 2017) e “Post Crescita” (Il Mulino 2022).

Jackson sviluppa una riflessione colta e a vasto raggio su possibili indicatori di benessere, prosperità e felicità, e sulle possibili connessioni tra questi indicatori e ii PIL.

In base a questi studi, Jackson ritiene possibile passare da una economia trainata dalla crescita a una economia caratterizzata da un equilibrio omeostatico, cioè variabile entro un certo campo. Tenendo conto delle sue conclusioni, mi vado convincendo che il problema della crescita indefinita sia destinato a non essere più al centro del ragionamento economico. Per la semplice ragione che l’aspettativa della crescita e delle sue complesse, supposte connessioni con l’occupazione e la produttività, si andrà esaurendo naturalmente per l’aumento e la convergenza delle iniziative già in atto a tutela dell’ambiente e della convivenza sociale (la “grande ruota” di Al Gore”) che conforta le speranze di di tanti altri pensatori. Tutto ciò potrà portare spontaneamente all’equilibrio auspicato da Jackson, in modo governato e senza shoc drammatici,drammatici.

Mi hanno particolarmente colpito i grafici riportati in Prosperità senza crescita, che mostrano le correlazioni tra il reddito medio annuo dei diversi paesi e due indicatori indiscutibili del benessere: la speranza di vita e la mortalità infantile. Essi mostrano che basterebbe un aumento molto limitato dei redditi dei paesi poveri per portarli i agli standard di benessere dei più ricchi. Cile, Costarica e Cuba, ad esempio, hanno redditi medi di gran lunga inferiori a quello degli Stati Uniti, ma hanno già ora standard di speranza di vita e di mortalità infantile superiore agli USA.

Un nuovo ordine, una nuova “narrazione” è anche auspicata dall’economista del MIT, di origini armene Daren Acemoglu, che con il collega Simon Johnson ha scritto “Potere e Progresso” (Il Saggiatore, 2023).
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Gli autori partono dalla considerazione che il progresso economico non si traduce necessariamente in benessere per tutti. La storia dimostra che spesso il progresso si è accompagnato con un maggiore sfruttamento dei lavoratori, e quindi con maggiori disuguaglianze e povertà.

Al progresso economico ha spesso corrisposto una concentrazione di ricchezze e di potere a vantaggio di pochi. Tipico lo sviluppo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, con l’affermarsi dei grandi magnati del petrolio e di altri settori, come Rockfeller Morgan, Vanderbilt etichettati come“baroni ladri”. La storia si va ripetendo con la rivoluzione digitale.

Oggi il passaggio alle fonti energetiche pulite sarebbe già conveniente ma, come Al Gore, gli autori di Progresso e Potere denunciano che la transizione incontra la violenta opposizione delle grandi imprese che prosperano con le fonti energetiche inquinanti. Ma la concentrazione di ricchezze e potere non. Caratterizza più il settore energetico, bensì quello delle “narrazioni”

Secondo Acemoglu e Johnson tutto ciò non è fatale. La storia ha dimostrato che grandi movimenti popolari sono stati in grado di contrastare lo sfruttamento e le disuguaglianze, realizzando conquiste sociali (contrasto ai monopoli, sanità e istruzione pubbliche, condizioni di lavoro dignitose, …) prima inimmaginabili. E’ la nascita di grandi movimenti sociali che ha consentito l’affermarsi di nuove “narrazioni” sul benessere e la sicurezza della società civile.

 

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Tim Jackson - Tabella mortalità infantile

 

Occorre oggi, come allora, con riforme istituzionali e mobilitazione sociale, orientare il progresso tecnologico verso obiettivi di equità sociale. Occorre, in particolare con la rivoluzione dell’ICT e dell’IA, far sì che il progresso tecnologico non sia finalizzato alla sorveglianza, alla pubblicità, all sostituzione dei lavoratori con i robot., ma al contrario sia di supporto ad una occupazione più evoluta e produttiva. Occorre, sostengono, «una tecnologia amica dei lavoratori».

Ma come Al Gore, pur denunciando le resistenze poste in atto da interessi particolari in contrasto con l’interesse generale, Acemoglu e il suo co-autore esprimono la speranza di un nuovo ordine sociale, ecologico ed economico, che segni la fine definitiva del neoliberismo.

 

In conclusione:

La speranza, alimentata da tanti segnali sociali e istituzionali, dell’approdo dell’umanità a un nuovo ordine orientato al benessere e alla convivenza civile , è purtroppo insidiata da alternative drammatiche.

La presenza di criminali al potere, come Vladimir Putin e Benjamin Netaniahu, potrebbe essere integrata nel prossimo novembre dalla conquista della Presidenza degli USA da parte di Donald Trump.

Potremmo così assistere all’ulteriore affermarsi di una narrazione, già diffusa, ispirata alla paura, al “prima noi”, all’erezione di muri di ogni tipo, al rifiuto di una globalizzazione governata, al protezionismo, all’autarchia, In sostanza, a un regime fascista (e comunista) globale. A qualcosa di simile alle distopie orwelliane. Che riporterebbero l’umanità, come aveva avvertito Albert Einstein, a una guerra di tutti contro tutti e, alla fine, all’età delle clave.

L’unica alternativa resta nell’impegno di tutti per poter sperare, e realizzare, un futuro degno di essere vissuto.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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