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In questo aureo libro (Una breve storia dell’uguaglianza, La Nave di Teseo, 2021) l’economista Thomas Piketty conferma l’ampiezza del suo sguardo, nello spazio e nel tempo, e riassume la sua proposta “politica” per il governo del pianeta. Una proposta utopica, ma nel senso di Rutger Bregman, secondo cui utopia non è altro che l’anticipazione di ciò che gli uomini saranno poi capaci di realizzare in futuro.

Parte dalla considerazione che nel corso dei secoli le disuguaglianze sono progressivamente diminuite e rese meno crudeli, soprattutto nel secolo XX, e più esattamente tra il 1910 e il 1980. Si potrebbe addirittura parlare di un “secolo breve”, rivoluzionario, della diminuzione delle disuguaglianze.

Oltre che diminuire nei singoli paesi tra i ceti più ricchi (il 10% della popolazione) e quelli più poveri (il 50% della popolazione), con un ceto medio (il 40%) sempre più benestante, in quel periodo le disuguaglianze sono fortemente diminuite a livello globale. Questo trend positivo è dipeso dalla fine dello schiavismo e del colonialismo, grazie ai quali le nazioni europee e gli USA hanno costruito le loro ricchezze a scapito del resto del mondo, appropriandosi delle materie prime (a partire dal cotone) e delle fonti energetiche (a partire dal legname, dal carbone fino al petrolio).

Tuttavia le disuguaglianze rimangono molto forti, e soprattutto hanno ripreso a salire dopo il 1980 nei singoli paesi.

Tra i diversi indicatori utilizzati da Piketty, basta citare come ampiamente significativo quello della concentrazione della proprietà in Francia, letteralmente crollata dal 1910 (il 65% era posseduto dall’1% più ricco), al 1980 (ridotto a “solo” il 20%). Dopo il 1980 la concentrazione ha ripreso ad aumentare, ma è rimasta tuttavia ben lontana dai divari del 1910 e dei secoli precedenti (il 25% nel 2020).

Ma chi ha guadagnato di più da questa riduzione della disuguaglianza è soprattutto il ceto medio. La quota della ricchezza posseduta dal 50% meno abbiente della popolazione è rimasta quasi piatta, non superando mai il 10% della ricchezza totale! «Questo 50% della popolazione, osserva Piketty, giusto per semplificare, non ha mai posseduto nulla… Per il 30% della popolazione la nozione stessa di proprietà è relativamente astratta».

Il fatto è che la Rivoluzione francese, esplosa all’insegna dei tre diritti di libertà, eguaglianza e fraternità, ha nello stesso tempo assolutizzato un quarto principio, in netto contrasto con i precedenti: quello della proprietà privata. E’ così che all’abolizione dei privilegi della nobiltà non ha corrisposto una perdita delle ricchezze detenute dalla nobiltà stessa e dalla borghesia montante. Il 50% della popolazione meno abbiente  ha conseguito miglioramenti molto limitati.

La visione globale di Piketty emerge soprattutto a proposito di un argomento poco dibattuto: quello delle “riparazioni”. Incredibilmente, quando venne abolita la schiavitù, i proprietari di schiavi pretesero e ottennero risarcimenti per la perdita del relativo valore patrimoniale! Piketty sostiene, al contrario, che siano piuttosto i discendenti degli schiavi a vantare un diritto, a livello mondiale, al risarcimento per l’”appropriazione indebita” perpetrata sulle persone e sulle risorse dei loro antenati.

Piketty sostiene che debba «essere superata la dicotomia tra misure di redistribuzione su scala nazionale e internazionale». E che siano necessarie «politiche ambiziose, coerenti e verificabili, di lotta alle discriminazioni, rispettando in ogni caso le identità, che sono sempre plurali e multidimensionali».

A questo scopo ritiene necessario sviluppare un sistema universale e plurale di misurazioni delle disuguaglianze, data la manifesta insufficienza di quelle esclusivamente economiche del PIL (Prodotto Interno Lordo) e delle ricchezze.

La rivoluzione egualitaria del “secolo breve” si è espressa nella nascita dello “stato sociale”, cioè dell’estensione a tutta la popolazione di prestazioni pubbliche fondamentali come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza per gli anziani. Lo stato sociale come si è ormai consolidato nei paesi democratici è il frutto di lunghe e anche sanguinose battaglie sostenute dalle popolazioni, affiancate da élite illuminate. Per rendersi conto del cambiamento, basta osservare che in Europa la spesa pubblica è passata da appena il 10% del PIL nel 1910 (di cui l’8% per spese militari e amministrative e solo il 2% per spese sociali) al 47% nel 2020 (con le spese amministrative e militari rimaste al 10%).

 

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Questa rivoluzione si è accompagnata all’introduzione di una forte progressività nei sistemi fiscali.

Ma «dopo il 1980 sono stati rimessi in discussione lo stato sociale e l’imposta progressiva. Il cuore delle nuove norme è la libera circolazione dei capitali senza alcuna contropartita in termini di regolazione o di fiscalità comune». Si sono confusi i ricchi con i produttori, risuscitando la  vecchia teoria padronale del "thrickle down",  smentita dalla storia, secondo cui l'aumento della ricchezza ddei ceti più ricchi si riversa poi sui meno abbienti, considerati come elementi passivi.

Questa involuzione ha portato a una rinnovata accumulazione di ricchezze da parte di pochi soggetti, e quindi a un sistema di potere basato nuovamente sul censo, simile a quello esistente prima dell’avvento dello stato sociale.

L'involuzione si riflette su tutti i diritti acquisiti dell’umanità in termini di uguaglianza e di libertà. In particolare sull’istruzione, che porta a profonde differenze tra quella privata, di alto livello, riservata alle élite plutocratiche consolidate, e quella pubblica di livello inferiore. L’effetto peggiore di questa discriminazione sta nel blocco della possibilità per i giovani meno abbienti di salire nella scala sociale. Piketty converge, sull’argomento istruzione, con l’ampia analisi condotta da Michael J. Sandel, di cui ho riferito in un mio precedente articolo.

 

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Ma la storia dimostra che le disuguaglianze non sono una nemesi dovuta al fato. Esse sono frutto di politiche che, in quanto tali, possono essere cambiate.

Su queste basi, egli immagina l’affermarsi a livello globale di un socialismo democratico contrapposto a quelli autoritari, sia del passato, sanzionato dalla storia, rappresentato dall’URSS, sia l’attuale, impersonato dalla Cina. «Un socialismo democratico e federale, decentrato e partecipativo, ecologico e meticcio, che si basa sull’estensione dello Stato sociale e dell’imposta progressiva, sulla condivisione del potere nelle imprese, sui risarcimenti post-coloniali e sulla lotta alle discriminazioni, sull’uguaglianza scolastica e la carbon tax, sulla graduale de-mercificazione dell’economia, sulla garanzia dell’impiego e sull’eredità per tutti, sulla drastica riduzione delle disparità monetarie e su un sistema elettorale e mediatico finalmente indipendente dal potere del denaro».

Condivido in massima parte questa che, con Bregman, considero una «utopia per realisti». In particolare sono favorevole all’aumento dei servizi sociali, a partire dalla cultura-istruzione e della sanità, da finanziare con una forte progressività delle imposte e da forme di redistribuzione come le imposte sulle donazioni e e successioni e sul patrimonio, a carico soprattutto del 10% più ricco dei contribuenti. A questo scopo, ritengo anche necessario ridurre la delega a privati delle funzioni propriamente pubbliche, sempre a partire da istruzione e sanità, delega ampiamente praticata in Italia all’insegna di una inventata “sussidiarietà orizzontale” che si è rivelata come uno strumento di discriminazione a favore dei ceti più ricchi.

Sono invece meno favorevole alla «condivisione del potere nelle imprese» e alla «de-mercificazione dell’economia». Ritengo infatti che la cogestione delle imprese riduca, anziché aumentare, la forza contrattuale dei lavoratori, e che il mercato sia una componente essenziale della libertà e della creatività delle persone, purché imbrigliato da regole tali da impedirne le degenerazioni e le esclusioni. Resto fedele al principio “Più stato, più mercato». Soprattutto avendo presente la realtà italiana.

Eventi recenti dimostrano che è possibile progredire verso la visione prospettata da Piketty. I cambiamenti climatici e la pandemia da Covid-19 hanno generato una maggiore consapevolezza del fatto che “siamo tutti nella stessa barca”. L’accordo a livello di OCSE, cioè a livello dell’80% dell’economia mondiale, per una tassazione unica sulle multinazionali è una novità assoluta, prima impensabile. Altrettanto lo è, per l’Europa, il piano New Generation EU, che prevede per la prima volta una politica fiscale e del debito propria dell’Unione Europea per lo sviluppo umano e ambientale dell'Unione.

Ma nello stesso tempo sarebbe ingenuo sottovalutare l’esistenza di paesi ben lontani dalla cultura e dalla pratica democratica, e le miopie e resistenze dei popoli e dei ceti più ricchi a ragionare in modo globale, anche contro l’interesse proprio e dei propri discendenti. Basti pensare alla disuguaglianza nella diffusione dei vaccini contro il Covid-19 tra i diversi paesi e continenti, e all’erezione di muri come soluzione del problema delle migrazioni.

 

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Quanto all’Italia, la situazione presenta molti chiaroscuri. La recente mini-riforma fiscale ha ridotto, anziché aumentare, la progressività dell’imposta sul reddito, favorendo i ceti medi piuttosto che quelli meno abbienti. Nello stesso tempo, però, il reddito di cittadinanza e l’assegno unico e universale per le famiglie con figli fino a 18 anni contribuiscono a ridurre le disuguaglianze. Tuttavia, nessuno osa ancora parlare di modifica delle tasse sulle donazioni e successioni, anche se il gettito in Italia è meno di un decimo di quello della Francia e della Germania (meno di un miliardo contro quasi 10 miliardi di euro in ciascuno di quei paesi). E se qualcuno osa parlare, come ha fatto Enrico Letta, di una “eredità universale” per chi compie 18 anni, posta a carico delle grandi eredità (una versione moderata di una proposta “pikettiana”), viene messo alla gogna.

La maggiore difficoltà consiste nella modifica del diritto di proprietà. Occorre passare da una concezione individualista quasi assoluta a una che rifletta la lungimiranza dell’art. 42 della Costituzione, secondo cui la proprietà deve avere una funzione sociale. Due dovrebbero essere le strade da battere: porre vincoli strettissimi, a livello internazionale, alla finanza fine a se stessa, meramente speculativa, e considerare il valore dei terreni liberi come esclusivamente agricoli, incamerando a favore delle istituzioni qualsiasi rendita dovuta ad autorizzazioni edificatorie.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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