Cercando il senso delle immagini che ci circondano. Intervista alla fotografa milanese: «Oggi come reporter è necessario non solo denunciare, ma spiegare, approfondire. Ancora più di prima, sempre di più. Proprio perché è questo che in fondo, fa la differenza fra “uno che fa foto” e un fotografo.
Avevo incontrato le immagini di Valentina Tamborra tre anni fa, quando la fotografa milanese nata nel 1983 mi presentò forse il suo primo progetto “consapevole”. In Doppia luce erano ritratti in posa alcuni personaggi noti (Scianna, Pomodoro, Fracassi, Cinaski, Berengo Gardin...), scatti in pellicola e con un solo punto luce artificiale. Da allora il cammino di Tamborra è stato molto lungo, portandola ai quattro angoli del mondo per reportage in situazioni spesso difficili. È a lei che ho pensato per la seconda delle interviste dedicate alla ricerca del senso delle immagini oggi, l'epoca della superproduzione visiva. A lei che considera la fotografia uno strumento di conoscenza. La sua prossima mostra, “Mi tular - io sono il confine”, si terrà dal 4 aprile al 7 giugno presso Apres-coup, a Milano grazie al sostegno di Visit Norway.
Cosa ti ha portato a diventare fotografa, qual è la motivazione profonda della scelta?
Comprendere, vedere con i miei occhi. Penso che il primo reale motore sia stato questo: la volontà di capire cosa e chi mi circonda, senza filtri, senza “contaminazioni” (per quanto possibile). La macchina fotografica in questo senso, è solo uno strumento che mi aiuta in questa indagine: qualcosa con cui raccolgo le storie, le emozioni, ciò che mi colpisce.
In un momento storico in cui ogni giorno vengono prodotti milioni di fotografie, cosa distingue un fotografo da una persona che fa una foto, è solo una questione di qualità?
È una questione di qualità ma non (solo) nel senso tecnico del termine. Un fotografo per me, è qualcuno che ha un’idea, una direzione, un obiettivo. Una bella foto può riuscire a chiunque, ma una foto o un progetto con un significato, un messaggio profondo, una conoscenza dell’argomento deriva dalla professionalità con cui ci si approccia ai temi che si decide di trattare.
Come hai cominciato e qual è stata la tua formazione?
Si può dire che sono autodidatta. Collaborando con altri fotografi ho approcciato il genere della fotografia di scena, del matrimonio, del ritratto. Ho quindi imparato sul campo. Questo però non toglie che ho frequentato workshop e che continuo a farlo quando mi imbatto in un argomento che voglio approfondire. Lo studio, la ricerca continua, è la base per produrre un lavoro di qualità.
Erri De Luca dal progetto Doppia Luce
La svolta nel tuo percorso professionale è arrivata con Doppia luce o è stata solo una tappa?
Doppia Luce ha segnato certamente un momento importante. E’ il lavoro che mi ha fatto meglio comprendere quale fosse il mio focus, la mia direzione, ovvero il raccontare persone. Le loro vite, l’intimità, il modo di guardare al mondo. Al di là di questo, è il primo lavoro con cui ho realizzato una personale. Quindi in questo senso sì, è stata una svolta. Ma in senso più ampio, ogni progetto in sè è una tappa perché è un’indagine, uno studio. Qualcosa che mi prepara al prossimo lavoro.
Continui con il tuo lavoro commerciale? È qualcosa di nettamente distinto dal lavoro di ricerca?
Sì, continuo con il mio lavoro commerciale. È del resto quello che spesso sovvenziona il mio lavoro di ricerca. Cerco però di rimanere nel settore di mio interesse e dunque ho sviluppato e sviluppo progetti con molte ONG, così da coniugare l’aspetto commerciale a quello più vicino al mio sentire.
Dal progetto “Giocare è una cosa seria”
Quali sono i riferimenti della tua cultura visiva?
Amo molto la fotografia di Mary Ellen Mark e di Rebecca Norris Webb, ciò che apprezzo di entrambe è quello sguardo “laterale” sulla realtà. Entrambe hanno indagato realtà dolorose, difficili ma l’hanno fatto con una sorta di poetica, con una delicatezza che invidio moltissimo. Per fare un nome più vicino a noi , penso a Francesco Cito invece: il fotogiornalismo non sensazionalistico ma sempre estremamente attento e umano. Nel cinema invece, apprezzo moltissimo Wim Wenders: schietto, onesto, diretto nelle sue visioni. Potrei fare molti altri nomi in realtà, mi fermo qui. Dico comunque che, a livello di “cultura visiva”, inserisco anche molti scrittori che hanno la capacità di dare corpo alle realtà che mettono su carta. Non di rado mi è capitato di scattare una fotografia pensando “questa immagine l’ho “vista” in quel libro, questa persona sembra la protagonista di....”
Pensi che il tuo sia uno sguardo femmina o che non abbia alcuna influenza il fatto che tu sia una donna?
Non saprei dirlo. Forse è un giudizio che può dare chi guarda le mie foto.
Bambini di Nairobi, dal progetto "Chokora"
Quasi sempre nei tuoi scatti ci sono persone, o quanto meno i segni della loro presenza. La natura da sola non ti affascina abbastanza?
In realtà ho fotografato molto anche la natura, ma sì, hai ragione, quasi sempre con una traccia di passaggio. Non è che la natura da sola non mi affascini, anzi! Ma ad interessarmi maggiormente è il rapporto tra essere umano e ambiente che lo circonda. Inoltre, lavoro molto sulla memoria e sull’identità e in questo senso penso che ovunque l’uomo sia passato, abbia lasciato una traccia, mi interessa capire come questa influisca sulle nostre vite.
Negli ultimi anni sei stata in luoghi difficili, per condizioni di vita, per condizioni climatiche. È una sfida a te stessa o la necessità di testimoniare?
A spingermi è la volontà di vedere con i miei occhi ciò che altrimenti verrebbe necessariamente filtrato. Spesso le storie che mi toccano accadono in zone difficili (e non necessariamente dall’altra parte del mondo: ho lavorato sul terremoto del Centro Italia per esempio) perciò il fatto che io mi rechi in posti complicati è in qualche modo incidentale. Se la storia è li, è li che devo andare. No, non è una sfida, ma una necessità.
Nient’altro che finzioni, un progetto di Valentina Tamborra e Federica Fracassi
Cosa ti fa capire quando è il momento di scattare, cosa non deve mai mancare nell’inquadratura?
Henri Cartier-Bresson diceva “fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore”. Ancora oggi, non trovo definizione più forte. Non deve mai mancare l’attenzione a ciò che hai davanti, la giusta tecnica per rappresentarlo nel migliore dei modi, e l’emozione, quell’attimo in cui senti che “è qui, è ora”. Credo sia difficile definire quell’istante. È qualcosa che accade, accade una sola volta. E devi essere presente a te stesso per riconoscerlo.
Pensi mai di mettere piede in zone di guerra?
Sono stata in Israele e Palestina dove, sebbene non ci sia un conflitto dichiarato (attualmente), la tensione è all’ordine del giorno. Vengono lanciati missili, colpi di mortaio, c’è una forte presenza di cecchini al confine. Lavorare in zone simili non è facile. Ma sono luoghi dove episodi gravi, anche mortali, non sono rari e spesso vengono taciuti essendo ormai una tensione “antica” in qualche modo. Quindi ricollegandomi alla risposta precedente, recarmi in zone di guerra/difficili non è una sfida – sono piuttosto scenari di cui mi interessa indagare le dinamiche al di fuori di ciò che tutti sanno/possono vedere.
Dal progetto "Mi tular - Io sono il confine"
Vorrei conoscere la tua posizione riguardo alla diffusione di immagini crude come quella di Alan Kurdi. Su Vorrei abbiamo affrontato quella che è una questione che divide ancora molto: c’è chi parla di utilità della denuncia e chi — come me — è convinto che invece è solo un abbassamento della soglia di assuefazione.
Di recente ho letto un libro “vedere il vero e il falso” Di Luigi Zoja. Ecco, proprio lì si parla di pornografia del dolore. Sono abbastanza d’accordo, credo non sia necessario indugiare su scene forti, crude, drammatiche. Penso che sì, c’è stata un’epoca in cui le persone avevano difficilmente accesso alle notizie e figuriamoci alle immagini e dunque era necessaria una denuncia shock: qualcosa che facesse dire “fermi tutti! Questo non può accadere, non è umano”. Ma il mondo è cambiato, con esso è cambiata la modalità di diffusione e fruizione delle immagini. Spesso sul luogo di una strage, su una scena di guerra, o di un attentato, troviamo molte persone munite di cellulari e le immagini iniziano a girare sin da subito. Oggi come reporter è necessario non solo denunciare dunque, ma spiegare, approfondire. Ancora più di prima, sempre di più. Proprio perché è questo che in fondo, fa la differenza fra “uno che fa foto” e un fotografo. E poi, ahimè, siamo assuefatti a certe immagini shoccanti tanto che, dopo poco, le dimentichiamo.
Sei appena tornata da Israele. A cosa hai lavorato?
È la seconda volta che mi reco in Israele in pochi mesi. Credo che prima o dopo qualsiasi fotoreporter indaghi quei luoghi almeno una volta nella vita. Del resto è la chiave e l’origine di molte delle ostilità che destabilizzano il Medio Oriente. Indagare Israele e Palestina significa lavorare su una storia millenaria che ha avuto, ha e avrà effetti in Europa e nel mondo. Una volta che si inizia a lavorarci poi, si percepiscono le mille stratificazioni, la bellezza e la complessità. Pensando per esempio a Francesco Cito, che è uno dei reporter che ha lavorato più a lungo sulla Palestina, sappiamo che è tornato innumerevoli volte in qui luoghi: il mio tentativo, attualmente, è quello di dar vita una narrazione in qualche modo “svincolata” dalle tematiche delle proteste, della violenza urlata e del conflitto dichiarato. Sto lavorando molto vicina alle persone, a chi giorno per giorno tenta di avere una vita normale in una situazione estremamente precaria.
Dal progetto “La sottile linea rossa”
Decidi tutto da sola o lavori con qualcuno?
Per quanto riguarda il mio lavoro di ricerca, decido tutto da sola e poi lavoro con qualcuno. Il fotoreporter lavora sempre con qualcuno: che sia un giornalista, un fixer, un referente, un mediatore culturale o le persone che incontri lungo la strada. Parto sempre con un progetto ben definito, con un focus, una sorta di canovaccio e poi le cose evolvono mano a mano che mi muovo, grazie — appunto — agli incontri che faccio.
Qual è il contesto più appropriato per le tue immagini, le mostre, le riviste o quale altro?
Io penso che ogni contesto posso fare da amplificatore alle storie che si vogliono raccontare. Ovviamente sono realtà diverse e dunque il lavoro va adattato a seconda del contenitore in cui vogliamo inserirlo. Ogni progetto può avere diverse chiavi di lettura e di divulgazione.
A chi dai più ascolto per un giudizio sul tuo lavoro?
Mi confronto spesso sia prima di partire per un lavoro che dopo, con persone per cui nutro stima professionale, rispetto e fiducia. Alcuni sono reporter, altri sono editor o giornalisti, oppure il mio stampatore di fiducia, Samuele Mancini, che ha sempre una visione molto schietta e onesta. Prima di partire per un luogo normalmente mi confronto con chi ci ha già lavorato o ci vive e dunque conosce la realtà locale. In ogni caso: ho una mia visione, ma so ascoltare. Il confronto è vitale penso, ed è qualcosa da cui non prescindo anche a costo di sentire pareri negativi: anzi, sono importantissimi. Forniscono chiavi di lettura e di critica che altrimenti faremmo più fatica a individuare.