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Mostrare immagini di bambini morti e di vittime devastate è lecito? è utile? ha senso? Tre articoli di Gli stati generali e qualche nostra postilla sulla superficialità della condivisione social e sulla necessità di non fermarsi alle emozioni e di puntare alla consapevolezza

 

Questi non sono tempi di riflessione, il massimo del ragionamento che sosteniamo ha il più delle volte la forma di un Sì o un No al referendum, un Mi piace o una faccina triste attaccati ad un messaggio, ad un post, a un saluto. Se vi basta e vi accontentate lasciate pure questa pagina, perché qui proviamo a fare un piccolo sforzo in più e a puntare alla consapevolezza oltre l’emozione, perché l’emozione sta al gradino più in basso sulla scala della cittadinanza e qui — in quanto cittadini — noi di Vorrei vogliamo provare a fornire qualche strumento in più al lettore per riflettere su un episodio che fra qualche giorno sarà sì dimenticato, ma risolto probabilmente no.

Ieri riprendevamo un articolo del 2015 di Arianna Ciccone su Valigia Blu a proposito delle immagini di Aylan Alan Kurdi, il piccolo profugo morto sulla costa della Turchia, rilanciate sulle pagine dei giornali, sui social e su qualsiasi altro spazio con una sensibilità quanto meno discutibile. Lo abbiamo ripreso perché ieri a Monza sono apparsi due manifesti 6x3 che sotto il cappello di operazione artistica hanno usato proprio l’immagine di Aylan Alan Kurdi e quella di Omran Daqneeshs, un altro bambino coinvolto nei bombardamenti di Aleppo, in Siria. Non ci interessa l’iniziativa in sé, ma l’uso e abuso di quelle immagini e di tutte le altre “simili” che con una incredibile superficialità circolano, ponendoci di fronte a scene violentissime e sottraendoci la libertà di scelta: vederle o non vederle.

La scelta è per noi il sintomo e strumento principale della libertà: qualsiasi azione fatta di propria volontà e con consapevolezza (dentro i limiti della legalità) è manifestazione di libertà e civiltà; dover subire la decisione altrui (quella di guardare una immagine violenta o quella di votare chi non vorremmo votare, solo per fare due esempi) di certo non lo sono. Mostrare quelle immagini senza alcun avvertimento, senza concedere la possibilità di “varcare la soglia” sapendo di farlo è — secondo noi — violenza che si aggiunge a violenza, in particolare se in un contesto in cui non si è preparati (come la strada). L’effetto sorpresa o shock ormai talmente abusato nelle arti — esattamente come nella moda o in certa pubblicità di basso livello — è oramai solo un mezzuccio a cui si ricorre quando quello che si ha da dire non è capace di attirare l’attenzione, quando il rumore di fondo è eccessivo, quando si vuole lo scompiglio più della consapevolezza. Quando si cerca la futile emozione invece della consapevolezza, quella che resta e porta ad agire sul serio.

Per riflettere meglio su questi  concetti abbiamo allora pensato di riprendere altri tre articoli, apparsi sempre nel 2015 ma su Gli stati generali.

Il primo è di Roberto Galante e porta il titolo che abbiamo ripreso qui, La pornografia del dolore:

 

29 agosto 2015

Dopo la morte dei due giornalisti in Virginia e la morte di altri migranti nel Canale di Sicilia e su un camion in Austria, si è ripresentato il dilemma se pubblicare o meno certi contenuti. Ce lo si è chiesto in relazione al video girato in prima persona dall’assassino dei due giornalisti, un loro ex collega, che ha ripreso tutto col suo telefono e ha successivamente pubblicato i video sui suoi profili Facebook e Twitter. Ce lo si è chiesti anche in relazione alle terribili immagini di quei bambini morti annegati portati sulla riva, e a quelle delle persone morte asfissiate in un camion abbandonato lungo un’autostrada austriaca. Perché pubblicare certi contenuti? Quale scopo si vuole raggiungere pubblicandoli? Cosa possono aggiungere ai fatti che raccontano questi contenuti?

È un dibattito che continua a ripresentarsi sempre uguale in occasioni simili. Accadde anche quando venne bombardata l’ambasciata americana a Benghazi, quando tanti pubblicarono le foto del cadavere dell’ambasciatore americano morto per “testimoniare la barbarie di questo attacco”. Anche in questa occasione si sono usate motivazioni simili per la pubblicazione, addirittura c’è pure chi chiede anche più dolore“Dovete farci più male, dovete schiantarci il cuore e la coscienza”. Ma in tutti questi anni di immagini raccapriccianti, di dolore portato a livelli altissimi, di coscienze frantumate (provvisoriamente) davanti a certi contenuti, cosa abbiamo ottenuto? Abbiamo modificato l’odio che circola, abbiamo toccato quelle anime che diciamo di voler sensibilizzare? Basta guardarsi un attimo intorno per capire che come strategia è stata decisamente fallimentare.

Pubblicare la foto di un bimbo annegato serve a comprendere meglio i fatti e a sensibilizzare sul problema dei migranti o è utile soltanto per fare un po’ di spettacolo? Cosa aggiunge al dramma già ampiamente conosciuto di donne, bambini, uomini, anziani che con straziante regolarità muoiono nel tentativo di scappare da un paese in guerra o da una condizione di povertà o di oppressione? Molti hanno spiegato la necessità di pubblicare le foto dei migranti morti facendo un parallelo con l’Olocausto o con le foto del cadavere di Stefano Cucchi, ma anche qui temo si faccia una terribile confusione. In entrambi i casi c’era la necessità di testimoniare fatti che erano completamente sconosciuti alle persone, fatti completamente ignorati, fatti di cui le persone comuni non sospettavano neanche l’esistenza. E per l’Olocausto non è un mistero se le foto più rappresentative non siano quelle dei corpi devastati nelle fosse comuni o di quelli carbonizzati, ma piuttosto quelle delle persone vive ridotte pelle e ossa nei campi di concentramento. E sono enormemente più d’impatto non per la condizione dei loro corpi, ma per il loro sguardo. Osservateli bene: non vi sentirete in colpa per i segni delle sevizie e delle privazioni sul loro corpo, vi sentirete in colpa per quegli sguardi vuoti, come assenti, spenti, impauriti. Leggervi il terrore di guardare una persona che semplicemente scattava loro una fotografia.

La domanda da porsi continua a restare li, intonsa: pubblicare certi contenuti aggiunge qualcosa? E no, affermare che aggiunge dolore non è una risposta, perché come detto queste terapie del dolore si ripetono ad ogni tragedia simile lasciandosi dietro una scia che non insegna nulla. Abbiamo forse ottenuto un grosso sdegno immediato dell’opinione pubblica, qualche iniziativa lanciata d’urgenza e poi più nulla. Alcuni addirittura si sono spinti a dirmi che “Anche Gesù Cristo sulla croce è un cadavere ma è in tutte le classi”, un esempio peggiore pure dei precedenti se possibile: confondere certi contenuti con un simbolo che si porta dietro molti significati, non solo la rappresentazione di un semplice cadavere, credo sia una questione da non prendere sul serio. È diritto d’informazione ripetono molti, è solo un macabro voyeurismo per il mio punto di vista.

 

Il secondo è di Stefano Iannacone e si intitola “Perché non condivido le immagini dei bambini morti in mare”:

 

29 agosto 2015

Un bambino morto in mare, un corpicino esanime in balìa delle onde. Un’immagine durissima che sta diventando ‘virale’. In molti sui social continuano a condividerla con il nobile scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, raccontando la nostra colpevolezza di fronte a una tragedia di dimensioni gigantesche.

In quella foto, che provoca un vero e proprio shock, viene sintetizzato un tragico destino che da mesi tocca a molti altri bambini, in fuga da posti che nemmeno riusciamo a immaginare cosa siano. Perché nemmeno possiamo comprendere cosa sia accaduto di recente in Paesi come la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan, il Mali, l’Eritrea, la Somalia. E in fondo nemmeno riusciamo a immaginare quel che avviene in Siria, in Libia e in Afghanistan, che rispetto ai Paesi africani hanno una maggiore copertura giornalistica (con esiti non proprio dirompenti sull’opinione pubblica). Non è buonismo, ma realtà affermare che sono posti da cui la fuga, anche con l’annesso rischio di morte che comporta, è l’unica soluzione.

Vedendo quell’immagine terribile ci illudiamo che possa essere un “fatto eccezionale”. Ma non è così. In quella foto c’è una storia molto più comune di quanto si possa pensare. Solo che centinaia di bimbi sono invisibili: annegano senza nemmeno uno scatto che possa certificarli, diventando degli esseri umani che non esistono e di cui nessuno conoscerà il destino. Probabilmente neppure le famiglie sapranno mai quale sorte hanno avuto, se hanno raggiunto l’Europa oppure sono finiti in mare, in quel cimitero senza croci del Mediterraneo.

L’esperienza ha ormai insegnato che l’impatto emotivo di certe immagini non sortisce effetti concreti: è utile alla convocazione di ‘vertici di emergenza’, con le dichiarazioni commosse che arrivano da ogni angolo del pianeta; è altrettanto utile a creare sgomenti tra i cittadini comuni. Senza campare alcunché. È stato così il 18 aprile 2015 con la morte di oltre 800 persone nel Canale di Sicilia, probabilmente sarà così di fronte al camion di migranti abbandonati in Austria e ai bambini trascinati dalle onde, privi di vita.

Quindi non voglio condividere le foto dell’ennesima tragedia né su Facebook né su Twitter e né tantomeno voglio pubblicarla in questo post. Prima di tutto perché è necessario cominciare a ridare una dignità alla morte, ritrovando un rispetto oggi perduto, che spesso manca da vivi soprattutto per quelle persone che scappano dagli orrori dei loro Paesi natii. Insomma, bisogna ricordarsi di loro quando sono in vita, non quando giacciono esanimi sulle onde. Ma soprattutto perché l’ostentazione della morte finisce per non favorire un processo di sensibilizzazione, bensì rischia di alimentare un effetto assuefazione dell’opinione pubblica. Oggi restiamo scioccati vedendo un bambino annegato, domani alla riproposizione di una stessa immagine l’impatto sarà minore. Così la sua reiterazione porterebbe alla peggiore delle conclusioni: la sostanziale indifferenza. Come quella quotidiana, quando ascoltiamo le notizie che dicono “a largo di qualche costa si è rovesciato un barcone con un numero imprecisato di persone”. E probabilmente tra di loro ci sono bambini che resteranno ignoti.

 

Il terzo e ultimo è di Federico Gnech e si intitola “Una riflessione sulle immagini di morte”:

 

3 settembre 2015

La fotografia mi ha spalancato la luce. La fotografia è copernicana, fa finalmente capire all’uomo che è una merda su una goccia di fango, che è la Terra perduta nell’universo, mentre l’arte è tolemaica, fa credere che l’uomo sia chissà che cosa. L’uomo invece è nulla, è una merda, un uccisore di bambini. La fotografia è un segno naturale, ritrae le impronte che la lepre lascia sulla neve, il vero volto dell’uomo. (Ando Gilardi)

Non è il primo né sarà l’ultimo bambino morto che vedremo in fotografia, il povero Aylan, curdo in fuga da Kobane con la sua famiglia, morto a tre anni sulla spiaggia di Bodrum. Pochi giorni prima era toccato agli anonimi bimbi affogati nel canale di Sicilia. Tutte queste immagini sono diventate oggetto di un dibattito a cui nemmeno il sottoscritto riesce a sottrarsi. Moltissimo è stato già scritto e, tra i commenti di Robbie Galante e Stefano Iannaccone comparsi qui sugli «Stati» e il sempre interessante Michele Smargiassi su «Repubblica», sarei portato istintivamente a concordare con i primi, senza voler legare la mia opinione a qualche criterio prescrittivo o divieto. Il problema è che, a dirla tutta, più rifletto sulla questione, più le mie domande e i miei dubbi aumentano.

Posso dire che probabilmente non avrei mai scattato quella foto  – ma di fatto mi riesce difficile persino scattarla ai mendicanti per strada. Posso dire che probabilmente non avrei ceduto alla tentazione dell’efficacissimo titolo-editoriale come hanno invece fatto al «Manifesto». Di un’unica cosa sono assolutamente certo: è fuorviante mettere le immagini delle vittime di guerre o crisi umanitarie nella stessa – squallida – categoria degli omicidi in diretta messi online dai grandi quotidiani per un click in più. L’intenzione è sempre centrale, e la faccenda è terribilmente complicata perché estremamente diverse sono le angolazioni da cui la si guarda.

Ogni attore del dibattito pubblico è anche portatore di uno specifico interesse  e di una più o meno strutturata visione del mondo. C’è chi segue con assiduità le vicende mediorientali e i flussi di profughi e migranti nel mediterraneo. Chi, come il sottoscritto, avrebbe voluto Assad deposto ben prima di qualunque fotografia – anzi ben prima dello scoppio della guerra civile in Siria. C’è chi cade dal pero soltanto in questi giorni e comincia a collegare l’immagine dei profughi rinchiusi a Budapest Keleti con quella di chi ha finito il suo viaggio sulla spiaggia di Bodrum – già vista in qualche catalogo di agenzia viaggi.

Ci sono i rappresentanti dei media con le loro difese d’ufficio  delle scelte editoriali e gli attivisti direttamente impegnati in qualche conflitto, ben consapevoli dell’uso politico delle immagini. Ci sono i generici fruitori di immagini che la Rete ha fatto diventare (ri)produttori. C’è chi si interroga sulla propria deontologia professionale, come i reporter che in questi casi possono fare riferimento a una lunga serie di precedenti simili – o apparentemente simili – alla foto in questione, dalla Napalm Girlvietnamita di Nick Ut, per arrivare alle immagini dello sterminio per fame dei bambini africani (un vero e proprio genere fotografico che ha segnato l’immaginario di noi fortunati bambini occidentali cresciuti negli anni ’80).

Personalmente, in questo e in altri casi del genere  ripenso in modo automatico ad un’immagine che più di altre mi tormenta. Si tratta della terribile foto scattata dall’indiano Raghu Rai al cadavere di una piccolissima vittima del disastro di Bhopal, nel 1984. Del bimbo, quasi completamente sepolto, spunta il solo viso, come quello di una bambola rotta, gli occhi vuoti. Quell’immagine, infinitamente più brutale di quella di Aylan adagiato sulla spiaggia, non si dimentica più, come non si dimenticano quelle dei bimbi ebrei finiti tra le grinfie di Mengele.

L'”etica documentaria” connessa alle immagini della Shoah  ritorna anche in questi giorni tra gli argomenti usati dai sostenitori del «diritto di cronaca». Come già notato da altri, il parallelo con la fotografia di documentazione della Shoah è però fuori luogo. Le prime foto di Auschwitz comparse dopo la liberazione non erano foto di cronaca, ma già documento storico e, prima ancora, processuale, prove di uno sterminio appena avvenuto, sconosciuto o ignorato nel momento in cui veniva attuato. La pubblicizzazione delle immagini della Shoah è proseguita con grande lentezza nell’arco di decenni, aumentando esponenzialmente solo a partire dall’avvento di Internet.

Prima di allora, l’umanità non conosceva l’odierna saturazione di immagini, la quantità di fotografie cui un individuo poteva venire in contatto nel corso della propria vita erano un’infinitesima parte di quelle odierne e le immagini di violenza suscitavano ancora vera repulsione. La visione delle cataste di cadaveri pronti per i crematori – impronta della realtà, per citare Susan Sontag e i semiologi – aveva anche una funzione pedagogica simile alla visita cui le truppe americane costrinsero (giustamente) i cittadini di Buchenwald a guerra finita. Ha ancora senso tutto questo in un’epoca in cui il rapporto segnale rumore è bassissimo, mentre la soglia di tolleranza alla violenza è tragicamente alta? (Ando Gilardi se l’è chiesto nel preziosissimo Lo specchio della memoria – Fotografia spontanea dalla Shoah a YouTube, libretto che consiglio caldamente).

Parlare di assuefazione probabilmente non descrive con la dovuta precisione il fenomeno. Penso si debba partire coll’esplicitare la formula tanto spesso utilizzata della «Pornografia del dolore». Nel caso delle immagini di morte, possiamo parlare di «pornografia» in due sensi: assieme a quelle pornografiche, quelle di morte rappresentano ormai l’unica tipologia di immagini sulle quali lo sguardo si soffermi per più di qualche decimo di secondo. Sì, perché, giocoforza, la visione dell’ininterrotto e frastornante flusso di immagini cui siamo sottoposti ogni giorno riserva alla “still photography” un tempo di poco superiore a quello dei frame video. L’immagine pornografica e quella di morte, per contro, hanno il potere di trattenere il fruitore a sé.

In secondo luogo, come la pornografia propriamente detta, anche la «pornografia del dolore» vive la sua funzione ultima in una forma di catarsi, erotica in un caso, emotiva nell’altro. Ed è in quella scarica emotiva che risiede uno degli aspetti più problematici di certe immagini, prima ancora che in una questione di rispetto, di decenza o di misura. La catarsi, anche quando corrisponda ad un'”epifania negativa”, è nemica della riflessione. La forza di ogni «fotografia riuscita» – e cioè il potere di mostrare ciò che non può essere detto altrimenti – può essere anche il suo limite, se lo scopo è quello di renderci consapevoli dell’orrore.

La vista provoca indignazione, non necessariamente consapevolezza, per la quale occorrono la ragione e la coscienza. E qui emerge l’ultima questione, quella del contesto: ragione e coscienza richiedono spazi e momenti adeguati in cui manifestarsi, richiedono silenzio e separatezza, e cioè, in altri termini, una divisione tra ciò che è sacro e ciò che è profano, tra ciò che è alto e ciò che è basso, tra gravità e frivolezza. Una condizione impossibile da ricreare su Twitter e Facebook, luoghi virtuali in cui passiamo senza alcuna soluzione di continuità dalle foto dei nostri gatti alle decapitazioni di Daesh.

L’immediatezza, nel senso di assenza di mediazione, è in sé una grande conquista e, come tutte le grandi conquiste, contiene in sé una maledizione. E tuttavia faremmo un grosso errore credendo che sia «tutta colpa della Rete», visto che in realtà Twitter e Facebook non fanno altro che riprodurre il vecchio modello dei nostri rotocalchi o dei tabloid anglosassoni, quello di giornali come il «Daily Mail», che nella stessa pagina oggi propone le foto dei momenti felici di Aylan e quelle del suo cadavere, mentre sulla destra una colonna offre l’ultimo topless di Miley Cyrus. Questo è il mondo dei media nato ormai tanto tempo fa con la società di massa, un mondo creato da esseri umani per altri esseri umani. I quali, peraltro, sembrano gradire.

 

 

Non pensiamo certo di aver esaurito l’argomento, speriamo almeno di aver fornito qualche strumento per andare oltre l’emozione, lo shock, l’indignazione nate dalle abusate immagini dei poveri Aylan Alan Kurdi e Omran Daqneeshs e di tutte le altre persone (non dimentichiamolo: PERSONE) diventate meme senza volerlo. Vittime all’infinito: prima delle tragedie da cui sono travolte e poi da questa sbrigativa corsa alla condivisione.

Vogliamo fare davvero qualcosa per evitare che quelle tragedie non si verifichino più? Bene, temo di avere una pessima notizia: condividere quelle immagini non basta, anzi non serve a niente. Sarò felicissimo di essere contraddetto dai fatti.

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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