Intervista a Paola Pedrazzini, nuova direttrice del più grande dei teatri pubblici della città. La formazione, le scelte, i programmi. Fra continuità e innovazione, il nuovo corso di una sala da quasi 900 posti
In queste settimane stiamo raccontando ai lettori di Vorrei le novità dei teatri pubblici a Monza. Abbiamo cominciato parlando del Manzoni e dei grandi cambiamenti arrivati dopo la chiusura della scorsa stagione. Poi abbiamo intervistato Corrado Accordino a proposito del nuovo corso del Teatro Binario 7. Ora ritorniamo al Manzoni per raccogliere le parole della nuova direttrice artistica, Paola Pedrazzini. Selezionata a seguito di un bando di gara lanciato alla fine del 2015 e nominata a fine aprile 2016, è riuscita in pochissimi mesi a rinnovare il cartellone del più grande dei teatri cittadini, mixando continuità e innovazione in un contesto che da troppi anni vedeva ripetersi stancamente una proposta eccessivamente commerciale e prevedibile, in cui neppure la presenza di un fine intellettuale come Luca Doninelli (sulla carta direttore delle ultime annate) era riuscito a lasciare traccia.
Nel curriculum di Paola Pedrazzini trovano spazio sia rassegne teatrali che cinematografiche, così è proprio da questa dualità che abbiamo pensato di cominciare.
Innanzitutto, visto quello che fai, preferisci il teatro o il cinema?
Il mio background e il mio cuore sono al teatro. Ho fatto il Liceo classico e poi all’Università di Parma Lettere antiche. Avevo già pensato a una tesi in filologia greca quando mi sono appassionata al teatro, cominciando con quello amatoriale e proseguendo poi con un corso professionale. L’interesse è diventato tale da influenzare i miei studi universitari e portarmi prima a una tesi sul teatro antico e poi ad un dottorato su teatro e cinema, con la seconda tesi ancora sul teatro antico.
Qual è il ruolo di un teatro e del suo direttore nel contesto di una città?
Renzo Martinelli, direttore di Ravenna Teatro, dice: nell’Atene di Aristofane e nella Londra di Shakespeare c’era una comunità che frequentava, conosceva e interagiva con il teatro; oggi che non è più così è nostro compito non limitarci a proporre gli spettacoli, ma anche creare un universo in cui essi trovino senso. È così che ho fatto mia l’idea della direzione dei teatri e dei festival come direzione culturale, non solo “commerciale”. Come un editore: dà una impronta, una visione, una coerenza culturale a quanto propone. Allo spettatore, così come al lettore spetta poi decidere: preferire Einaudi, Marsilio…
Cosa guida le tue scelte?
Mentre studiavo, ho iniziato a scrivere critica per giornali locali e per Sipario, il che mi ha permesso di girare per i festival e capirne le dinamiche. Ho cominciato a crearmi una mappa personale dei luoghi e delle compagnie teatrali in cui riconosco la qualità, l’onestà intellettuale, la coerenza. Una mappa che va oltre quella del gusto personale formatasi in parallelo. Così come allo stesso tempo è nata la voglia di uno spazio in cui dare forma ai percorsi intrapresi. Uno spazio in cui mettere a confronto le mie idee con il contesto, la realtà, il momento.
Hai da subito capito di volerti occupare della parte organizzativa più che di quella autoriale o attoriale?
Agli inizi, a Parma, ho anche provato a recitare, ma la mia timidezza ed emotività mi hanno reso impensabile continuare. Ho anche provato qualche regia. Tutto questo mi ha permesso di conoscere bene tutti i ruoli e compiti teatrali e di arrivare con maggiore consapevolezza al ruolo di direttore artistico, con un mio sguardo onnicomprensivo.
Quando hai incrociato il cinema?
È sempre stata una mia passione personale e ha fatto parte dei miei studi perché cinema e teatro sono comunque molto vicini. Poi otto anni fa ho incontrato Marco Bellocchio che mi ha proposto una collaborazione per il Film Festival di Bobbio, la città da cui lui proviene, dove ha girato I pugni in tasca, il suo luogo dell’anima. La particolarità di quel festival è la formazione: in quindici giorni una ventina di ragazzi proveniente da tutta Europa segue dall’inizio alla fine, dal soggetto al montaggio, la realizzazione di un cortometraggio diretto da un grande maestro come lo stesso Bellocchio o Sergio Rubini o Daniele Ciprì. Io stessa, per otto anni è come se avessi potuto seguire la realizzazione di altrettanti film. Così mi sono resa conto di quanto, allo stesso modo, siano interessanti i percorsi realizzativi del cinema autorale e dello spettacolo teatrale.
Il trailer di Sorelle mai di Marco Bellocchio
È una collaborazione che continua?
Sì e porta nuova linfa creativa al mio lavoro teatrale, perché mi ha aperta ancora di più gli orizzonti. Fra l’altro è coincisa, in questi anni, con un boom di artisti teatrali che si cimentano col cinema e viceversa. Pippo Delbono, Ascanio Celestini, Marco Paolini. Così come Roberto Andò è regista quest’anno de La locandiera a teatro. Oppure Mario Martone, che ha iniziato con Falso movimento e i Teatri uniti a Napoli e che ora dirige lo Stabile di Torino, ma è anche un grande regista di cinema.
Guerra di Pippo Delbono
Conoscevi già Monza?
La conoscevo solo per la Monaca e per le mostre, come quella di Caravaggio. La sto scoprendo ora, i primissimi mesi dopo la mia nomina li ho dovuti impiegare per la programmazione della stagione. Lo farò adesso, anche incontrando e dialogando con chi qui lavora già. Il Manzoni deve essere un organismo vivo, che vive con la città. Un primo passo è La monaca di Monza (in programma il 21 dicembre con Federica Fracassi sul testo di Giovanni Testori, Ndr). Pur essendo questo un teatro di ospitalità abbiamo pensato ad una piccola produzione, un reading in un momento in cui sono in corso le mostre sul tema. Un altro passo è la data con Vittorio Sgarbi che parla di Caravaggio (il 3 marzo 2017, Ndr), visto che è recente la mostra in città. Nei prossimi anni, se mi sarà data la possibilità, mi piacerebbe fare sentire i monzesi al Manzoni come a casa. Una casa che offre molti stimoli.
Hai già pensato a incontri con gli artisti, al di fuori degli spettacoli?
Il mio progetto è proprio quello di un teatro luogo di cultura tout court. Una fitta rete di incontri, letture, seminari, workshop… Per questo primo anno ho dovuto considerare la realtà del momento, le priorità e quindi non ho voluto gravare ulteriormente la fase organizzativa.
Che indicazioni ti sono state date al momento dell’incarico?
La selezione è stata molto scrupolosa e da subito era richiesto un progetto scritto. La mia direzione — in linea di massima — era quindi già chiara, per cui quando hanno scelto me sapevano già cosa avrei voluto fare. Mi sono stati indicati i contenitori da mantenere (la stagione di prosa, il teatro comico, l’operetta…) ma lasciandomi ampia libertà artistica e culturale. Di questo non posso che essere grata all’Amministrazione comunale e alla Scuola Paolo Borsa. Sui contenuti i paletti me li sono dati io. Non volevo entrare a gamba tesa, ho pensato di dare continuità a certi aspetti delle stagioni passate e di innestarne di nuovi.
Un primissimo bilancio?
Abbiamo avuto solo due spettacoli di prosa per ora. A me piace avere contatto con la sala. Qui non è semplice perché il teatro è molto grande e gli spettatori tantissimi. Però mi sono ripromessa di esserci sempre per cui ho visto quattro volte Gioele Dix e quattro volte Sergio Rubini, sedendomi sempre in posti diversi e in tutti i settori per carpire il sentore delle persone arrivate. Io sono molto contenta, dal punto di vista artistico e dal punto di vista del pubblico, sempre numeroso, mi sembra che la strada intrapresa sia quella giusta. Sono anche molto contenta di Altri percorsi, abbiamo pensato di modulare la sala creando un piccolo Manzoni, riducendo con un telo, un paravento lo spazio per quegli spettacoli con cui è impensabile arrivare a occupare i quasi novecento posti disponibili. Stiamo intercettando poi un pubblico nuovo per il Manzoni. Credo sia importante avere un’offerta con il comune denominatore della qualità e dell’onestà intellettuale, ma che proponga percorsi diversi. In cui ciascuno possa ritrovarsi. Il teatro è un luogo di trincea, dove sono ancora molto importanti le relazioni interpersonali. Dove trovano spazio e stimoli le inquietudini umane, personali, culturali. Per questo vorrei che il teatro fosse aperto, una chiesa laica quasi. Poi magari chi viene per Altri percorsi avrà la curiosità, la voglia di seguire anche gli spettacoli di prosa.
Paola Pedrazzini e Gioele Dix
Quali erano, o sono, i tuoi timori?
L’unica cosa che mi spaventa in genere è che quello che si fa non venga considerato secondo un criterio meritocratico. In questo caso il problema non si è presentato.
Hai avuto difficoltà nella formazione del cartellone?
La mia nomina è arrivata tardi (a ridosso dell’estate, Ndr), le difficoltà a quel punto le ho trovate nell’avere la disponibilità delle compagnie per le quattro serate consecutive, visto che qui c’è la tradizione di tenere gli spettacoli di prosa dal giovedì alla domenica. Per il resto si è trattato di una nomale difficoltà di incastro, considerando la volontà di avere una certa continuità col passato, di introdurre gradualmente le novità e di offrire una certa varietà fra classici e nuove produzioni.
Da spettatrice qual è il teatro che ti interessa di più?
Quello che mi offre stimoli forti, che non vuol dire fare cose strane. Più passa il tempo e più apprezzo la qualità, la convinzione e la passione. Ci sono anche grandi artisti che vanno avanti facendo quello che sanno già fare, per cui da arte diventa mestiere. Mi piace chi pur avendo il mestiere conserva l’arte.
Chi fra quelli che hai incontrato è così?
Molti fra quelli che abbiamo chiamato. Mario Perrotta per esempio. Un artista eccezionale che ogni anno ha un nuovo progetto.
Più che il genere e lo stile, ti interessa l’approccio quindi.
Sì. Esattamente.
Ci sarà spazio per le compagnie giovani al Manzoni?
Se sarò confermata, in futuro sicuramente sì.