“La carrozza della Transiberiana ci ha portati al capolinea.” “Vladivostok!” aveva confermato il corvo ed era volato via.
A quell’epoca pochi, pochissimi scrivevano poesie. Tutti badavano a zappare la terra, festeggiare le domeniche, dormire abbracciati alla propria sposa. I rari che scrivevano poesie erano nominati mosche bianche e appiccati alle carte moschicide. Perciò era stato decretato il Diluvio Universale. Pioggia su tutti tranne che su Noè per grazia di sua figlia Alè che scriveva poesie d’amore. Una notte la radio di Noè aveva detto: “Achtung, achtung! Il Diluvio Universale è qua. Si salvi chi può.” Noè si era destato di soprassalto. “E’ la radio che parla o sogno?” Macché sogno e sogno e la radio aveva ripetuto: “Achtung, achtung! Pioverà finché sarà tutto fradicio!” La sposa di Noè si era girata sull’altro fianco ed aveva continuato a russare, pur con gli occhi aperti per sorvegliare il marito che usava sgusciare dal letto dileguandosi chissà dove. Andava a pescare? Mah …? Noè aveva fiutato l’aria: “Piove già?” si era infilato le brache ed era corso alla stazione ferroviaria per affittare un vagone e farne un’arca navigante. Al deposito dei treni aveva trovato una carrozza della Transiberiana ancora in buono stato: le ottomane con qualche molla fuoriuscita, le finiture d’oro appena spelate, gli abatjours di cristallo resi opachi dalle lunghe letture sotto la loro luce. Noè aveva inchiodato, saldato, impeciato affinché non filtrasse neppure una goccia d’acqua. I libri? Nello scaffale dei libri Noè aveva messo in salvo i volumi dell’enciclopedia e l’antologia delle più belle poesie del mondo che Alè sapeva a memoria e che ripeteva a voce alta finché la smania di scrivere le traboccava dagli occhi: scribo, scripsi, scriptum scribere…ed avvampando come un falò correva in cerca della sua Pelikan. Scriveva dove capitava: sulla carta, sui muri, per terra, sul palmo delle mani che levava al cielo affinché anche gli Arcangeli sapessero ciò che bolliva nel suo cuore. Nel suo cuore bolliva il cugino Ardito che ad ogni sonetto corrispondeva con fiori di campo. Beato il cugino Ardito che andava in giro mostrando a tutti le poesie di Alè. Sì, lui era il soggetto nella fattispecie dei suoi occhi, del suo naso, delle sue mani, dei suoi piedi, anche dei suoi occhiali, del suo orologio da panciotto, del suo ombrello. Il cuore di Alè era all’unisono col cuore del cugino. Insieme facevano tic tac ed avevano giurato che si sarebbero spenti insieme con un solo tatrac, come di bicchiere di vetro che si frantuma cadendo in terra. Ticchettavano anche nell’imminenza del diluvio mentre le nubi tempestose si levavano dal mar Caspio risvegliando i leviatani addormentati da secoli negli abissi marini. Noè aveva fatto in tempo a chiudere la porta dell’arca e ricoverare gli animali. Prima il gatto, il cane Tobia, la coppia di canarini, la famiglia di tarli insediata nel comò della camera da letto, il vecchio ragno della soffitta con i suoi bauli zeppi di tele ispirate ai tappeti volanti. Poi le bestie selvatiche: l’elefante indiano, l’armadillo, il formichiere, il dinosauro del museo di Storia Naturale scampato alla pioggia di meteoriti che aveva distrutto la sua specie alla fine del Neolitico. Sigillata la carrozza Noè aveva atteso il segnale del Cielo. Tutti i rifugiati guardavano il soffitto trattenendo il fiato finché fu udito un minaccioso tossire di tuoni e poco dopo sulle ferrate pareti del vagone risuonò il tocco delle prime gocce. Presto il fruscio della pioggia si mutò in vasto bisbigliare come di giudici tormentati dalle sentenze: “Noè, dove vai di soppiatto, mentre la tua sposa dorme?” Noè non aveva aperto bocca. Che voleva sapere la pioggia? No, non andava a pescare, girovagava nella solitudine della notte per parlare con sé stesso, a tu per tu con il proprio tempo passato, soprattutto con gli anni della sua giovinezza quando si stupiva della moltitudine delle stelle. “Basta, basta!” era intervenuta la moglie di Noè: “Basta panna col miele.” E si era strappata i capelli perché nell’arca non c’era traccia della figlia Alè. Il suo cappottino con la martingala era sull’attaccapanni, ma dentro l’indumento la ragazza non c’era. “Alè dove sei?” “Ferma, ferma!” gridava Noè ruotando furiosamente il timone. “Torniamo indietro!” “Impossibile!” La pioggia aveva ormai allagato tutto. Le cime delle catene alpine apparivano come ciottoli a pelo d’acqua. L’antica città di Ninive era sparita sotto l’acqua. Di Babilonia galleggiava appena il mantello del re Nabucodonosor. Alè dov’era? Con il cugino Ardito era rifugiata sulla cima d’un pioppo. Stavano abbracciati ed intirizziti come filacce di nuvole autunnali mentre l’acqua li lambiva. La marea era giunta sopra le caviglie, a mezza gamba, sormontava le ginocchia ed ancora saliva. Con le lacrime agli occhi il cugino aveva supplicato: “Alè, scrivi qualcosa sull’acqua.” La ragazza aveva scritto una poesia sul Diluvio e l’acqua aveva cominciato a ritirarsi con un gorgoglìo da vasca che si svuota. “Cielo, cielo!” aveva invocato il cugino Ardito “Quanto può la poesia.” Finalmente sul monte Ararat era apparso uno strappo di sereno. Un corvo era volato sul finestrino dell’arca. “Che notizie?” aveva chiesto Noè. “Comincia ad asciugarsi.” “E mia figlia Alè?” “Si è sposata.” “Con il cugino?” “Con il cugino.” “E come vivono?” “Come l’aria. Un po’ di qui, un po’ di là” Noè si era morsicato i baffi: “Come l’aria!” aveva ribattuto “Ma l’aria non si mangia.” Il corvo si era stretto nelle spalle. “Mah …” aveva detto “L’aria è piena di moscerini.” “Frena, frena!” aveva gridato la sposa di Noè: “Siamo arrivati.” “Arrivati dove?” aveva detto Noè. “A Vladivostok.” aveva detto la sua sposa. “La carrozza della Transiberiana ci ha portati al capolinea.” “Vladivostok!” aveva confermato il corvo ed era volato via. La città asiatica brulicava fino all’orizzonte punteggiata dalle infinite ciminiere che fumigavano lapilli. Dappertutto eruzioni di ghisa fusa, battere di magli, andare e venire di carriaggi dalle miniere di ferro e di carbone che fornivano opifici di ruote dentate, argani, premistoppa, alberi a gomito, colli d’oca, girabecchini, mandrini, aghi con la cruna e senza cruna e gocce di sangue vivo che tali aghi facevano sprizzare da mani giunte in preghiera per il ritorno dell’amato che mai, mai sarebbe tornato, donde i parchi si oscuravano per l’infoltirsi degli alberi che nessuno potava e le incisioni di cuori trafitti si cancellavano nello screpolarsi delle cortecce.
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