Quando io e mio padre torniamo mia madre con c’è più. La tela, l’ago, il filo e la forbice sono a terra. Mio padre si china a raccoglierli. Si rialza ed ha tutti i capelli bianchi. E’ diventato vecchio come Noè.
Mio padre diceva: “I libri vanno letti a voce alta così sentono anche i muri.” I muri eravamo io e mia madre. Mio padre stava davanti a noi e noi dovevamo ascoltarlo senza fiatare. Io sentivo un gran prurito dappertutto ma non potevo muovermi. Mio madre guardava fuori dalla finestra inseguendo le nuvole che ora sembravano ippopotami, ora mammut ora non erano niente perché il vento le aveva spinte fin sul mar Caspio, dico mar Caspio così per dire, perché non sapevo neppure se esistesse veramente.
Le più assidue ascoltatrici delle letture erano le mosche. D’estate accorrevano lasciando le rinsecchite spoglie delle bestiole del prato: cicale, grilli, formiconi. Ordinatamente si radunavano sulle pagine del libro. Ad ogni pausa applaudivano strofinando le zampette. Care mosche! Chissà cosa capivano dell’Odissea? Mia madre le scacciava battendo le mani e loro sconsolatamente ronzando andavano ad appiccicarsi alla carta moschicida che pendeva dal lampadario dove restavano secche per sempre. D’inverno invece delle mosche c’erano le tarme. Noi andavamo a letto appena calato il sole. Mio padre diceva: “Perché stiamo desti che non si vede niente?” Come gatti i miei genitori si arrampicavano sul loro lettone. Avevano lasciato le scarpe ai piedi del letto, quelle di mio padre accostate a quelle di mia madre, così, anche le scarpe, avrebbero trascorso insieme la notte. Io mi accucciavo nella mia brandina e raggomitolato nelle coltri stavo come i porcospini in letargo nel fogliame del bosco. Al debole chiarore della lampadina notturna mio padre leggeva con voce che diventava sempre più nasale per il sopravvenire del sonno finché il suo capo si abbandonava sul libro e il suo respiro si modulava con quello di mia madre. Russavano all’unisono. Era l’ora delle tarme! Le farfalline, in punta di piedi, sgusciavano dall’armadio dei vestiti, calavano sul libro e confortate dal tepore della lampadina rimasta accesa cominciavano l’assiduo rosicchiare della carta stampata. Così avevano mangiato mezza Odissea.
Poi era accaduto ciò che non avrebbe dovuto accadere mai perché io ed i miei genitori non eravamo mosche o tarme ma anime impastate con la terra del Paradiso Terrestre e quindi avremmo dovuto essere immortali. Invece una mattina mia madre è seduta sotto la finestra: un po’ cuce e un po’ guarda il cielo. Di punto in bianco sente tremare la terra. Si volta: è apparso l’Arcangelo. Lei capisce ciò che sta per succedere. Il cucito le cade dalle mani. Sente una fitta al cuore, una puntura di vespa. “Almeno il tempo per rassettare la casa.” l’Arcangelo la guarda con occhi senza sguardo. “Almeno stirare due camice.” l’Arcangelo è impassibile, le braccia conserte. Mia madre è smarrita, è la prima volta che si sente abbandonata. Suo marito e suo figlio non sono in casa, sono andati a pescare. Prima di sera non torneranno. L’Arcangelo prende dal taschino l’orologio. “E’ l’ora.”
Quando io e mio padre torniamo mia madre con c’è più. La tela, l’ago, il filo e la forbice sono a terra. Mio padre si china a raccoglierli. Si rialza ed ha tutti i capelli bianchi. E’ diventato vecchio come Noè. Fatica a parlare, stenta per dirmi di buttare i pesci al gatto. Non è stata una buona pesca, tre agoni in croce. Da quel giorno mio padre si siede davanti al muro della cucina e legge l’Odissea. Legge in silenzio. Il muro, giorno dopo giorno, diventa sempre più grigio e screpolato. “Perché non leggi a voce alta?” Gli chiedo “Perché nessuno ha più orecchie.”
Una sera mio padre non si decide ad andare a letto. Sta sulla porta della camera e guarda in terra. “E’ tardi.” capisco che vuol parlare ma non gli viene la voce. ”Parla.” gli dico. Lui mi chiede se posso andare a letto con lui e dormire dalla parte dove dormiva mia madre. Io gli dico che deve abituarsi a stare solo, gli dico che la solitudine è un veleno ma anche una medicina. Lui biascica una risposta che non capisco: forse mi rimprovera. Arriviamo a un compromesso: lui continua a dormire solo nel letto matrimoniale e io lo aiuto a mangiare quando ceniamo assieme. Soffio sul suo piatto per raffreddare la minestra che scotta, gli spezzo il pane, gli taglio la carne, gli verso l’acqua. Arriva il momento che devo imboccarlo. Quando non ci sono io vengono i nostri vicini di casa. Scherzano con mio padre, gli raccontano storie da ridere, portano loro da mangiare, bevono allegramente e fanno brindisi a tutto ciò che capita: al sole, alla luna, all’amore…Mio padre sta con gli occhi chiusi e non dice niente.
Un giorno, in coda al temporale che ha flagellato le primaverili foglie degli alberi, torna l’Arcangelo. I vicini di casa non sanno chi è, credono sia un amico di mio padre, un suo commilitone. Gli battono le mani sulla spalla e lo invitano per la cena: quella sera c’è minestra di ceci. L’Arcangelo si scusa: non ha tempo. Poi si rivolge a mio padre: “Andiamo.” Mio padre è titubante. Se fosse veramente un suo commilitone? L’Arcangelo si fruga in tasca e tira fuori una foto. E’ la foto di mia madre. Mio padre si china sulla foto, congiunge le mani, vorrebbe accarezzare la foto ma non osa: “Ti ricordi di me?” sussurra. L’Arcangelo alza un braccio e fa esplodere un tuono, l’ultimo del temporale. Poi torna l’azzurro limpidissimo. La luce radente fa brillare i sassi. Mio padre pensa che tutto possa tornare come una volta ma l’Arcangelo lo prende per mano e lo trascina via.
Dopo pochi passi mio padre si volta a salutarmi: “Grazie.” mi dice “Grazie di che?” dico io “Grazie delle buone giornate di pesca che abbiamo avuto.” Faccio in tempo a chiedergli dove sono gli ami nuovi, gli ami per le trote. “Sono nel ripostiglio degli attrezzi.” Basta indugi. L’Arcangelo dà uno strattone a mio padre e affretta il passo. Dio mio! Non si accorge che mio padre zoppica. Grido: “Non vedi che zoppica!!!” L’erba si è asciugata e le margherite si sono raddrizzate.
Poco per volta ciò che di mio padre è rimasto in casa è diventato polvere. Il cuoio delle sue scarpe è ammuffito. Non potevo più restare nella nostra casa: la stufa, le sedie, i tavoli, i letti, i piatti, i bicchieri, i libri avevano perso la memoria, stavano con le mani in mano aspettando chissà che cosa. Mi misi in viaggio: treni, battelli, anche a piedi su per i monti e attraverso i boschi finché arrivai sulle rive del mar Caspio. Il mar Caspio che da ragazzo non sapevo dove fosse. Ora abito in una cittadina rivierasca dove leggo l’Odissea ai ragazzi delle scuole. I ragazzi mi chiamano Omero e mi fanno regali che io accolgo con gioia: scoiattoli, merli fischiatori. Le ragazze mi regalano frutta e dolci. Qualcuno mi porta le poesie che ha scritto in segreto. Io le leggo e piango.
Bibliografia
Bibbia, Genesi. Noè dopo il diluvio visse ancora 350 anni. Tutto il tempo che visse Noè fu di 950 anni, poi morì.