“Miserere di me…” invoca ancora il Settala,
ma lo spirito va via per sempre lasciando il sopravvissuto ammutolito nel silenzio.
Finita la burrasca, ritiratasi la Pioverna nel suo letto di sassi e affisso alla porta della Vetreria di Colico l’avviso del Requiem per la povera contabile, il mondo è giunto al suo termine. Il Protofisico Ludovico Settala vive come se fosse morto, già nell’ aldilà con l’assidua memoria dell’amata: Lei mangia nel suo stesso piatto, beve nel suo stesso bicchiere, con lui cogita, studia, fa i compiti, insieme si coricano nello stesso letto da una piazza sola, dove lui si rigira insonne nella speme di toccare le care parvenze e non le lenzuola che gli si torcono addosso e il cuscino che lo soffoca. Basta di questa vita! Il Settala si fa l’ultimo segno di Croce, saluta la famiglia tramite un biglietto nascosto sotto le stoviglie della cucina: “Non ricordatemi mai.” e si congeda dal Tribunale annotando sul registro : “ Fui , ma ora non sarò più.” Adesso è solo e da sé si condanna dentro un roccolo per uccelli, in località Trezzo d’Adda, dove un groviglio di rovi tiene lontana ogni anima viva. Morirà lì, torturato dalla sua pena. E se non morirà subito si consumerà adagio, adagio sui manuali di medicina e sui pus degli appestati alla ricerca del Bacillus - Scorpius nella speranza di lasciare scritto: “ La peste si cura così e così, tanto di sanguisughe, tanto di panni caldi, tanto di borsa del ghiaccio e tanto di Piramidone Novus secondo la mia originale ricetta.” Il Settala si affanna in gravi studi, rinchiuso nel roccolo strapieno di uccelli che gracchiano, strillano, si chiamano da un trespolo all’altro, svolazzano contro i vetri e unghiano tutto ciò che luccica: matracci, beute, lenti, e bottoni del golfino della contabile restati in mano al trepidante amante nel corso di una memorabile carezza. (Avevano freddi i piedi nel riparo di una provvisoria gattabuia, ma quanta fiamma su, su fino alla punta dei capelli…) Il medico è incalzato dal continuo servaggio dei pennuti : cambiare l’acqua, sbriciolare il pane, tagliare fine il cicorietto, rimediare un po’ di crusca, nettare le cacche, sottrarre le uova alle cannibali beccate, tapparsi le orecchie perché i gridi e i cucù degli alati sono accuse di pubblici tribunali: “Che cosa hai fatto? Prima la pecunia fraudolenta, poi il naufragio mortale, e prima ancora l’azzardo delle speranze proibite. Che cosa hai fatto? Coc,coc,coc che cosa hai fatto ? Cuc,cuc,cuc…” Peggio sono i falchetti che svolazzano sulle sue spalle e si affilano il rostro sotto il suo naso : “Che cosa hai fatto, maledetto! Coc,coc,coc…” Pace solo quando cala la notte e le nidiate cascano dal sonno là dove si trovano, appollaiate sui libri e accucciate tra gli alambicchi, salvo qualche gufo che più fa buio più gode a interrogarlo : “Che cosa hai fatto, Erode Antipa? Che cosa hai fatto, Giuda Iscariota? Cra, cra, cra…” Di notte quando la penitenza dei piumati è sospesa il Protofisico torna al suo Iliade consolandosi con la morte di Patroclo, quella di Ettore e quelle degli altri eroi trapassati di lancia, o percossi da macigni. Ci fosse ancora la guerra di Troia, sarebbe il primo ad arruolarsi come rincalzo di greci o di troiani, gli uni valgono gli altri: basta morire! Una notte il Settala legge il suo Omero davanti allo specchio, compita a voce alta per farsi udire dal proprio riflesso che gli fa compagnia. Ma d’un tratto, levando gli occhi sulla lastra argentata, vede accendersi un’improvvisa favilla che passa tracciando un arco, come se dietro le sue spalle fosse trascorsa la sua amata col lucignolo mitigato dalla mano. Il Protofisico si volta: non c’è nessuno. Eppure dalla finestra vede un bagliore che scende verso l’orizzonte e oscurandosi dietro i pioppi incendia un fuoco smorto come se quelle fiamme non avessero calore, ma dilagando nei prati come un’acqua luminosa, inondano la campagna folgorando volpi acquattate, ladri che si spartiscono polli, fidanzati smemorati tra le erbe e pazzi insonni che timorosi della loro ombra diurna vagano di notte. Poi la cometa si spegne. Il medico aguzza lo sguardo: Che cosa è stato? Vorrebbe ancora scorgere i segreti che la provvisoria luce ha sortito dalle tenebre, ma l’unico lume resta la sua lampada che sbanda veli di fumo. Il Protofisico soffia ma nei vapori che sfumano spalanca le ali l’Arcangelo della chiesuola di Tartavalle. Kyrie Eleison! ancora lui col viso torto nel diniego senza appello. Il tapino giunge le mani: “Miserere di me.” ed il suo cuore si batte il petto. Guarda, guarda! non è il Cherubino! è lei, la contabile travestita di celestiale. Lei, non sospirosa nelle trine slacciate, ma buia, i capelli scompigliati che le nascondono la fronte verso la quale il poverino solleva la mano che subito ritrae perché la chioma cela un graffio di sangue. E’ lei, ella che serra gli occhi e cieca davanti al trascorso amato muove le labbra smorte per dirgli come è stata fredda l’acqua della morte. “Miserere di me…” invoca ancora il Settala, ma lo spirito va via per sempre lasciando il sopravvissuto ammutolito nel silenzio.
Bibliografia
Keplero. Mysterium cosmographicum. Ratisbona, 1597
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