Non una lacrima, né allora, né mai più. Come un bicchiere che si spezza.
Occhi di pietra da quel momento in poi, se non quando si posavano su di me
A parte un gattaccio che veniva a spiarmi dalla finestra apparendo come la morte per fame, ero finalmente solo. Si era spenta la stufa, il fuoco non crepitava più, le mosche non ronzavano, i tarli avevano riposto i loro trapani. Sul tavolo non volevo più nulla che ricordasse i miei visitatori: né scodelle, né posate, né briciole, né gocce, né patacche, né cartacce, né timbri, nè ceralacche.. Arraffavo saggina e soda e strigliavo le assi, su e giù, su e giù con la spazzola incaponendomi sul nodo di legno che mi guardava come un occhio. “Ti caverò la vista!” digrignavo. Ma l’occhio-nodo non batteva ciglio, inderogabile a scrutarmi con fissità inquisitoria : “Perché sei malinconico? Perché non dormi? Perché non parli? Perché, perché…?” come un chiodo battuto e ribattuto. Ed io torvo, muto, con il tremito nelle mani per l’istinto di prendere un’oca per il collo e strozzarla. Strangolare un’oca per non uccidere un suddito, un ministro, me stesso. Basta! Prendevo tutto ciò che mi capitava per le mani: padelle, ferri da stiro, boules dell’acqua calda e li scaraventavo sul nodo perché sparisse dalla vista, morto e sepolto. Poi aprivo le scartoffie di mio padre e posavo lo sguardo sul devoto inchiostro. Inchiostro di mio padre, steso di suo pugno, con la punta del suo pennino, giorno per giorno, per tutta la vita. Diario quotidiano del regno sotto il suo governo documentando ogni accadimento di una età industriosa e felice: piantare specchi negli orti per moltiplicare i raggi del sole a beneficio delle verdure, convogliare acque pescose sui coltivi da far crescere alberi di trote, fondare biblioteche in sale da ballo rifacendo, a sue spese, pianciti e muri maestri. Tutto scritto per filo e per segno fino al giorno della sua morte, quando aveva soffiato un vento perfido da infiltrarsi anche sotto le lenzuola degli sposi novelli raffreddando ogni avances. Il mio genitore, nel buio della notte fonda, aveva spiccato il salto, dalla cima della torre, per volare appeso all’ombrello vendutogli da un furfante commesso viaggiatore, con tanto di garanzia scritta che si sarebbe levato in alto purchè ci fosse vento. E che vento! maestrale congiunto a tramontana quando il re, mio padre, era precipitato davanti al castello nel turbine che faceva girare e stridere alla disperata i galli di ferro dei camini. “Sgamba, sgamba!!!” urlava il vento nel tentativo di salvare quell’uomo, che con una mano si abbrancava al manico dell’ombrello e con l’altra si teneva il cappello. E sgambava, tirava calci, gli si slacciavano le stringhe delle scarpe, perdeva le scarpe, le calze, restava in braghe di tela… perché, perché? un uomo così minuto, leggero, vago, che la regina prendeva in braccio lei quando andavano a letto. Un uomo così che peso aveva per essere tirato a terra come un piombo? Il cuore, le testa, i pensieri, i sogni? L’avevamo raccolto io e mio madre accorsi al suo grido, uno strillo da bambino spaventato mentre precipitava incontro alla morte, verso la quale si era avviato senza dire nulla a nessuno. Nulla a sua moglie, lasciata ignara, addormentata tra gli alti cuscini a sollievo dell’asma. Nulla a me che pure aveva allevato nella confidenza di interminabili storie naturali: pesci, scimmie, nuvole, fasi della luna…. L’avevamo liberato dall’ombrello fraudolento tra bacchette attorcigliate e tela stracciata. L’avevamo adagiato sul letto matrimoniale: Povero fardello di ossa rotte! L’avevamo ricomposto, sollevato il capo sui cuscini, nettato il viso, accomodate le braccia, calzate nuove calze, indossate nuove pianelle. “Come stai? Parla, parla, per carità di Dio, parla… ma come poteva far giungere a noi, dall’aldilà, la sua vocina spezzata. Mia madre sul suo cuore, io con la sua mano nella mia mano… parla, parla, non lasciarci nel silenzio, no, non nel silenzio perpetuo. Ma i suoi occhi si erano velati volgendosi alla finestra dove l’alba era già piena di voli di uccelli, passeri. fringuelli, allodole, perfino scriccioli, volavano, volavano tutti senza ombrelli, e volavano le nuvole che attraversavano il cielo come navi alate incontro al sorgere del sole. Mia madre aveva dato un singhiozzo come il tac del bicchiere che si rompe. Non una lacrima, né allora, né mai più. Come un bicchiere che si spezza. Occhi di pietra da quel momento in poi, se non quando si posavano su di me: “Parla, dimmi… non avrai anche tu, nel cuore, un sogno funesto?” Il rappresentante di ombrelli era scappato, giù il cappello sugli occhi, alzato il bavero, guardingo per vie traverse. L’avevano visto in bettole d’azzardo sparigliare carte truccate, sui mercati lanciare cortelli in aria, dai boia insaponar le corde, ma da ogni consorzio era scacciato per la sua faccia livida, ospite solo dei cimiteri dove tendeva le mani ai fuochi fatui per godersi almeno un finto caldo.
Bibliografia.
Arrighi Semola: Vademecum del rappresentante di commercio: mangiar di grasso, bere a canna, cavalcare spesso per aver la lingua sciolta davanti al rispettabile pubblico. Antica trattoria del cavallo. Fidenza, 1936
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