Loro non potevano entrare in chiesa ma si accucciavano davanti alla porta come le familiari bestie di un presepe. Aspettavano i Re Magi.
N
on ero andato al funerale del nonno perché c’era la guerra. La città era afflosciata sulle macerie e nonostante tutto dovevo andare a scuola per non perdere le lezioni che già erano diventate rare in seguito al rastrellamento degli insegnanti di lingue estere destinati a far da interpreti ad Auschwitz, ma deportavano anche i professori di latino specialmente quelli che leggevano in classe il “De bello gallico”. Non si doveva sapere che i romani avevano più volte ributtato i Germani al di là del Reno.
Al funerale era andata mia madre. L’avevo sentita svegliarsi presto, l’avevo intravista mettere un paio di ciabatte nella borsa, avvolgersi nello scialle e sgusciare dalla porta come un corvo titubante che vola basso. Era pieno inverno, una tragica stagione testimoniata dagli scheletri delle case bombardate che si erigevano come smunti fantasmi tra la neve. A Porta Ludovica mia madre era salita su una vecchia corriera stracarica di donne che andavano nei paesi per racimolare qualcosa da mangiare, ma parecchie di loro, come mia madre, erano dirette a case dove qualche parente era in agonia, o già se ne apprestava il funerale.
Forse mio nonno si sarebbe aspettato la mia presenza, forse era spirato col viso rivolto alla porta dove io non ero apparso. Da allora è lui che appare a me. Capita quando sono in viaggio, ospite di un albergo accanto alla stazione ferroviaria. Mi sveglio a notte fonda: qualcuno mi chiama? Accendo la luce. Mio nonno è là, seduto davanti al mio letto. E’ vecchissimo. Non dice nulla. Mi guarda. Le mani posate sulle ginocchia, la fronte corrugata. Stiamo così per tutto il resto della notte, senza una parola. Ai primi rumori del mattino svanisce. Riappare alla stazione ferroviaria mentre sono in attesa del treno. E’ tra i viaggiatori, il viso proteso. Mi cerca. Quando i nostri sguardi si incrociano, ritira la testa tra le spalle come fosse appagato dal nostro reciproco riconoscimento. Sul treno mi dispongo in uno scompartimento vuoto dove lui mi raggiunge e si siede davanti a me. Nessuna parola tra di noi. Dal finestrino vedo scorrere campagne e boschi. Quando il treno si ferma alla mia stazione mio nonno svanisce di nuovo.
Non capisco queste sue apparizioni. Quando lui era vivo, tra di noi non c’erano state molte occasioni di familiarità. Io e i miei genitori stavamo in città e solo quando i bombardamenti si erano infittiti, nell’inverno del 44, ci eravamo rifugiati nel paese di mia madre, nella casa del nonno.
Lui era il sacrestano della chiesa. Lo accompagnavo per la prima funzione religiosa: l’Angelus, alle smorte luci dell’alba, pavide tra le folate di nebbia che la neve dei campi spingeva nel paese. Camminavamo incappucciati, appaiati, avvolti nel nostro fiato, senza dire quasi nulla, lui qualche parola nel suo incomprensibile dialetto, io, che non parlavo il dialetto, rispondendo con quel poco latino che studiavo a scuola. Non lo chiamavo nonno, lo chiamavo Dominus. Davanti alla porta del campanile ci aspettava l’Arcangelo, sbattendo le sue ali di paglia come una gallina che si spulcia. Prima di suonare le campane, mio nonno e l‘Arcangelo ascoltavano l’aria. Si assicuravano che non ci fosse alcun rombo dei bombardieri inglesi diretti su Milano. Silenzio. Bene. Allora si attaccavano alle corde e davano i reiterati rintocchi dell’Angelus.
I primi a rispondere alla chiamata ed a giungere sul sagrato erano gli animali: cani, gatti, galline, oche, anche qualche cavallo, qualche mucca. Loro non potevano entrare in chiesa ma si accucciavano davanti alla porta come le familiari bestie di un presepe. Aspettavano i Re Magi. Poi giungevano le vedove di guerra avvolte negli scialli di grama lana, dai quali spuntava appena il barlume degli occhi pieni di lacrime. Le vedove si inginocchiavano davanti all’altare e, levate le braccia, intonavano: “Salve, oh regina, mater misericordiae…” con tutto il fiato che era rimasto a loro dopo tanto invocare i perduti mariti.
Poi mio nonno diradò le sue apparizioni, come se, poco per volta, rinunciasse ad essere mio nonno. Spariva per anni e quando ricompariva era sempre più vecchio: pelle e ossa, le lunghe sopracciglia come setole di maiale, le mani che tremavano nonostante si stringessero l’una con l’altra come per farsi coraggio. Non capivo come potesse continuare ad invecchiare anche da morto. Forse ero io che apparivo a me stesso, nel bagno di un albergo ferroviario, quando mi guardavo nello specchio apprestandomi a radermi: che viso stanco, da antico soldato romano! La notte avevo dormito male e poco per il frequente passaggio dei treni che con il loro disperante fischio avvisavano di essere solo in transito e ribadivano che non si sarebbero fermati, né lì né in nessuna altra stazione, perché il loro destino era l’aldilà.
Bibliografia.
Caio Giulio Cesare, “De bello gallico”
Tribù dei Germani sconfitte dai romani: Harudes, Marcomanos, Tribocos, Vangiones, Nemetes, Sedusios, Suebos