Andiamo alla stazione, dove passano i treni che non fanno sosta.
Primavera. Mia cugina Anna era due dita più alta di me e correva più forte come se avesse il vento tra gambe. Io leggevo più libri, lei sapeva cucire. Io davo da mangiare al nostro cane Ubi, lei lo pettinava. Estate. Per sentito dire so tutto dello sposalizio dei miei genitori, che era una bella giornata di giugno, che avevano mangiato un’oca ripiena, che lo zio di mio padre era salito in piedi su una sedia e, accompagnato dal violino, aveva cantato in modo così struggente da fare piangere tutti. Ma il clou della cerimonia era stato quando mio padre aveva cucito due ali posticce sulle spalle di mia madre, le aveva dato una spinta e lei si era levata in volo. Tutti erano rimasti a bocca aperta, le donne con palpitazioni di cuore perché mia madre era volata in alto, sempre più in alto, fantasticamente più in alto unendosi agli stormi di cicogne che andavano in India per deporre le uova nei giardini dei maragià. Senza indugi mio padre era saltato sulla sua bicicletta e aveva seguito mia madre, pedalando come un matto su e giù per le colline mentre lei trapassava da una nuvola all’altra. Autunno. Di quella stagione non ho altri ricordi se non dei giorni di scuola seduto nel banco accanto a mia cugina, facevamo fatica a non cascare dal sonno ascoltando la maestra che ronzava come una mosca nel bosco dei numeri. Dell’autunno ricordo anche il grandioso temporale quando un fulmine si era scagliato sul campanile sbriciolandolo come sabbia, tranne le campane che avevano continuato a suonare imperterrite sul loro trespolo di ferro finché era intervenuta mia cugina che con quattro urli le aveva messe a tacere. Inverno. Luttuosa stagione quando io e mia cugina avevamo incontrato la morte al funerale del nonno. Era dicembre, c’era ghiaccio dappertutto, su cui le oche scivolavano andando a gambe all’aria, ma senza gracchiare, intimorite dai cupi paramenti funebri esposti alle finestre. Figurarsi i pavoni con l’ingombrante ventaglio della loro coda. Il nostro cane non osava fiatare e se qualcuno si avvicinava con la ciotola della zuppa, lui si voltava dall’altra parte. Io e mia cugina, in mezzo agli altri parenti, stavamo ammutoliti nella stanza dove era disposto il catafalco con i ceri ardenti. Il nonno, con gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, pareva in attesa di qualcuno che tardava. Infatti, col fiato grosso, erano finalmente arrivati i suoi amici della Banca Popolare, in ritardo perché la corriera era andata in panne sullo stradone. I ritardatari si erano sospinti fino ai piedi del letto del nonno, si erano tolti il cappello e si erano inchinati e, per un attimo, il defunto aveva aperto un occhio. Incredibile! Mia cugina era svenuta ed era scivolata a terra, sollevando un putiferio di invocazioni di soccorso finché non si era sentita la sirena della Croce Rossa. Ancora inverno, del quale non posso raccontare altro che la pioggia sui vetri della finestra, le righe d’acqua sembravano una scrittura, mentre lei, mia cugina, non mi scrive più da tanto tempo. Mi aveva scritto sull’ultima cartolina: “Qui la gente va in giro con le torce elettriche per la paura di sbagliare strada e finire sugli scogli dove c’è sempre burrasca.” Perché mia cugina non mi scrive più? Ogni mattina vado all’ufficio postale per frugare nei mucchi della corrispondenza non reclamata da alcuno ma non trovo altro che opuscoli per la vendita di prodotti a basso costo. “Acquista, acquista questo dentifricio: sorriderai per tutta la vita”. Ho sempre sognato di gestire, con mia cugina, una piccola libreria in una città di mare, dove la gente salpa per lunghi viaggi portando con sé una bella scorta di libri. Ma ciò non è accaduto. Io ho preso in affitto un negozio di libri usati, accanto alla rivendita del carbone. Con me c’è il cagnolo Ubi che sta accucciato accanto alla porta pronto a scodinzolare ad ogni visitatore. I miei clienti sembrano fantasmi, magri e allampanati mi chiedono i libri balbettando: “C’è il De bello gallico di Cesare?” “Oui, Monsieur!” Poi entra un altro cliente che cerca “Il viaggio intorno al mondo” del capitano Cook. “Jawohl!” Io prendo dallo scaffale i libri richiesti, mentre i clienti si illuminano di sorrisi, si congratulano l’uno con l’altro e poi se ne vanno con gli acquisti sotto braccio ed io resto solo col mio cane perché quel giorno non verrà più nessuno. Forse verrà il postino a portarmi il telegramma di un amico che se ne è andato per sempre, premurandosi di farmi sapere il suo nuovo indirizzo: “Dante Alighieri. Inferno. Canto tredicesimo. Girone dei suicidi.” Intanto il giorno si consuma e da qualche parte tornano le ombre e chissà, apparirà la luna. Invece ritorna la pioggia, a rade gocce, come uno che farfuglia per il troppo batticuore. Anche a me batte forte il cuore perché non ho più notizie di mia cugina. Forse lei non c’è più, forse dovrei cercarla nella foto sbiadita sulla lapide di un cimitero metropolitano. La mia foto è pronta affinché l’ufficio anagrafe del municipio la incolli accanto a quella di mia cugina. Ora la pioggia rinforza, tira vento, ballano i lampioni della strada. Guai se la pioggia s’infiltra nel mio negozio col rischio di bagnare i libri. Io poso la mano sulla pila dei volumi sul banco. Sì, sì sono le mie poesie stampate molto, molto tempo fa. Mia cugina me le aveva battute a macchina e mentre le copiava cantava e le tazzine del caffè, sulla mensola della cucina, tintinnavano per letizia. Nessuno compera le mie poesie. Giusto, giusto che sia così. Ormai è sera. Io chiudo la porta, metto la sicura alla serratura, spengo la luce. Ecco fatto. Io e il mio cagnolo dobbiamo andare. La giornata è finita, ho venduto due libri e nessuna copia delle mie poesie. Come piove! C’è stato un tempo che era sempre estate, adesso è sempre inverno. Io non saprei dove andare, per fortuna c’è lui, il mio cagnolo. Dove andiamo Ubi? Lui si ferma un attimo e si volta a guardarmi, poi mi dice: “Andiamo alla stazione, dove passano i treni che non fanno sosta.”
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Giovedì, 23 maggio 2019