È una bella giornata, fredda ma limpida. Nella piazza la fontana zampillante è piena di pesci rossi. E’ la piazza della stazione. Nella stazione c’è un pappagallo che mi saluta
Sono nato d’inverno e me ne andrò nella stessa stagione e, a conferma di ciò, già dai primi freddi, mi addormento con i piedi contro la stufa. Il mio sonno è affollato di sogni, soprattutto si fanno vivi i miei genitori che non hanno mai smesso di soffiarmi nelle orecchie ciò che avrebbero voluto per il mio avvenire: “Diventa re” implora mia madre “e vai in giro per i boulevards con la piuma sul cappello e quando sarai imperatore sii benevolente con i sudditi.” “Diventa questo, diventa quello…” predicano i miei genitori, ma io scrollo le spalle finché la loro voce si fa sempre più flebile, un soffio, un alito che presto si spegne nonostante le loro bocche persistano nel fingere di parlare, ma io non li sento più perché ho voltato loro le spalle e busso alla porta della rinomata ferramenta “Chiodi Fulmine” “Son qua!” e mi offro come rappresentante col tre per cento di utile sul lordo delle vendite. Patto che aveva ferito mio padre che avrebbe voluto per me un ben altro futuro: maestro di scuola, per continuare la sua traduzione dell’Iliade alla quale attendeva da anni. Mio padre, povero ragazzo, non era andato oltre il capitolo dell’incendio delle navi greche, appiccato dai troiani, condotti da Ettore che aveva ucciso Laodoco, Aiace Tolomeo, Minerbio, Bucintoro, Sputafuoco, Trebello, più il cugino di Agamennone detto Cipolla, e chissà quanti altri ancora tralasciati da Omero. Alla porta della ferramenta “Chiodi Fulmine” viene ad aprirmi un vecchio con un occhio solo in mezzo alla fronte. Per poco non litighiamo subito perché lui al massimo mi offre il due per cento sulle vendite ed io tiro fino ad ottenere il due e mezzo netto. Così sono diventato commesso viaggiatore della “Chiodi Fulmine”, non perché io avessi attitudini per i chiodi, ma per ripicca contro il destino che aveva cancellato Celeste dalla mia vita. Celeste mi aveva lasciato un biglietto ficcato nella cornice dello specchio del bagno: “Vado a Tripoli. Mi ha chiamata il Negus!” Con la camicia non stirata, tanta è la malinconia, comincio il mio lavoro di commesso viaggiatore visitando gli empori di pompe funebri, grandi consumatori di chiodi: ventiquattro chiodi per chiudere una bara normale, il doppio per un sarcofago da giudice senior, per un violinista abituato a stare curvo sul proprio strumento bastano sette chiodi. Dietro appuntamento, mi presento alle agenzie delle “Buone Esequie”. I
l tavolino pieghevole con la tovaglietta verde bigliardo, su cui espongo il mio campionario di chiodi, lo porto io. Prima di tutto faccio un bell’inchino e, quando finalmente tutti zittiscono, comincio a spiegare che cosa sia la morte. “No, no, miei signori, la morte non è la fine di qualcosa e non è qualcosa che dura in eterno per cui i chiodi che chiudono la bara devono facilitare che il coperchio si scoperchi per fare uscire il defunto quando occorra che egli torni tra i vivi per una boccata d’aria” Naturalmente parlo di Celeste. Parlo di lei che mi ha lasciato senza spiegazioni. Perché proprio il Negus? Fosse stato il faraone Cheope. No, il Negus, che sui libri di storia è appena nominato in una noticina in fondo alla pagina. Gli impiegati delle pompe funebri sbadigliano, a loro non interessa niente di Celeste ed io per risvegliare la loro attenzione metto due dita in bocca e fischio con tutto il fiato che ho. Le mosche girano su sé stesse prima di crollare stordite. Non basta. Batto i pugni sul tavolo per far sentire come schiocca il tungsteno, perché i miei chiodi sono al tungsteno e non al nichel, come i chiodi della concorrenza che si piegano al primo colpo di martello. Niente da fare, gli impiegati delle pompe funebri dormono come lapidi di cimitero. Non mi resta che sgusciare via zitto, zitto, non senza aver lasciato sul tavolo un campione della mia merce. E’ una bella giornata, fredda ma limpida. Nella piazza la fontana zampillante è piena di pesci rossi. E’ la piazza della stazione. Nella stazione c’è un pappagallo che mi saluta: “Bon jour!” mi dice. Io rispondo alla tedesca: “Guten Tag!” e lui è felice credendomi chissà quale plenipotenziario in viaggio diplomatico. Gli chiedo quando arriverà il treno. Lui risponde che non ci sarà nessun arrivo. Non passano più treni dopo il transito dell’ultimo convoglio con le carrozze imbandierate e al finestrino una sorridente signora incipriata dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Sono sicuro! E’ Celeste in viaggio per Tripoli. Ho deciso. Mi incammino lungo il binario, chissà dove arriverò? Se almeno Celeste mi avesse lasciato qualche biglietto scritto di suo pugno: “Coraggio, ti aspetto!” Per raggiungerla andrei in capo al mondo con i trampoli. Quando cala il sole mi fermo. C’è un casello ferroviario dove posso alloggiare. Nessuno in giro. Sto un po’ guardingo poi entro. Tracce di fuoco in un angolo. Sui muri scritte inneggianti ai grandi eroi del passato: “Viva Carlo Pisacane, viva Pietro Micca, viva Goffredo Mameli…” C’è uno sgabello. Mi accomodo. Dalla mia borsa prendo il quaderno con la traduzione dell’Iliade di mio padre. Povero vecchio, fino all’ultimo ha sperato nel mio aiuto. Vedo ancora i suoi occhi pieni di lacrime che mi implorano. D’improvviso voci. Mi volto. Sono apparsi i miei genitori. Mia madre si avvicina e mi abbraccia. “Devi fare il re” mi sussurra. Mio padre scuote la testa e s’incammina per andarsene. Mia madre cerca di trattenerlo per la giacca: “Dove vai?” Lui non sa dove andrà e comunque fa cenno a mia madre di lasciarlo. Come sempre lei ubbidisce e mio padre se ne va, sparisce, non c’è più, né nell’aldilà, né nell’aldiquà. Mia madre chiude gli occhi. Se fosse viva mi direbbe qualche parola di conforto: “Vuoi un caffè?” “No, non voglio niente.” “Posso pettinarti?” Io faccio un segno di diniego: “Non ho più un capello” sussurro. Ormai è sera.. Spero che presto salga la luna e il suo chiarore dissolva le ombre dei miei cari. Sì, sorge la luna con una luce smorta, appena sufficiente perché io possa scrivere. Adagio, adagio traduco l’ultimo capitolo dell’Iliade: la morte di Ettore, povero ragazzo!
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