Lei scopava l’aula, lui accendeva la stufa, lei dava una pulita ai vetri delle finestre, lui andava avanti e indietro ripassando a memoria ciò che avrebbe letto durante la conferenza serale.
Quando la Terra era piatta e sporgendosi dal suo orlo si vedevano abissi palpitanti di stelle, i treni andavano su e giù per le terre raccogliendo chi era giunto al termine della vita.
Un convoglio è arrivato davanti alla casa di Matusalemme. La prima carrozza è riservata ai profeti, si vedono i loro occhi lampeggiare dai finestrini. I venerabili vorrebbero scendere, bere un tè, muovere due passi, cercare qualche vecchio libro in qualche cartoleria fuori mano. Vorrebbero rileggere il Guerrin Meschino, libro introvabile. Essi hanno letto e riletto tutti i volumi stipati nel bagagliaio del treno, per lo più i gialli di Agata Christie. Conoscono tutti gli assassini: “Il candelaio.” “Macché, macché candelaio, l’assassino è l’imbalsamatore di insetti …” I profeti discutono, s’impuntano, si arrabbiano: “Il candelaio!” “Ma quale candelaio? L’assassino è il maggiordomo con l’occhio di vetro.” Poi si addormentano e dalla loro carrozza si leva un profondo russare, come di borboglio temporalesco sulle montagne della Valmalenco. Il treno ha frenato con un subisso di metallici stridori da spaventare gli scoiattoli rifugiati sulla punta degli alberi. In casa hanno tremato i vetri delle finestre, ha tintinnato il pentolame della cucina, è caduta la brocca di ferro smaltato con i fiori crisantemi. Matusalemme si sveglia di colpo. Si rigira affannato ma, al suo fianco, Intemerata non c’è più. Non c’è più da tanto tempo, perciò Matusalemme è diventato come la porta di una casa disabitata. Sul cuscino è rimasta la reliquia della vestaglia da notte di Intemerata. Ma di lei neppure una leggera impronta sul copriletto. Matusalemme accarezza la vestaglia, la bacia, preme il viso sui volant che hanno ancora il dolcissimo sentore di lei. Il macchinista del treno è saltato dalla locomotiva sventolando il block-note con l’elenco di chi, arrivato al termine della vita, deve salire sul treno. C’è il nome di Matusalemme. “Sei pronto Matusalemme?” Matusalemme si affaccia alla finestra: “Sto piangendo …”singhiozza mostrando la vestaglia di Intemerata. Il macchinista alza le spalle: “Aspetterò” dice “Dammi delle patate da pelare. Non posso stare con le mani in mano.” Matusalemme gli porta patate da pelare e si prepara per la partenza. Indossa il suo abito migliore, il completo grigio che metteva quando era invitato in Municipio per leggere le sue poesie. Con il completo grigio, pantaloni e giacca a doppiopetto, sembrava Lord Byron. Bei tempi quelli delle poesie! Matusalemme ed Intemerata si presentavano in Municipio già al mattino. Lei scopava l’aula, lui accendeva la stufa, lei dava una pulita ai vetri delle finestre, lui andava avanti e indietro ripassando a memoria ciò che avrebbe letto durante la conferenza serale. Nell’aula faceva freddo ma Matusalemme e la sua donna avevano fiducia che le poesie avrebbero riscaldato gli ascoltatori perché il loro tema era il cuore ardente dell’inverno: le porte e le finestre ben tappate, le stufe roventi, i letti con le pentole colme di cenere calda ficcate sotto le coperte, le preci bisbigliate davanti al lume splendente delle candele. Nelle poesie di Matusalemme il cuore dell’inverno batteva soprattutto quando nevicava e gli alberi del bosco suonavano l’Elegia di Johann Sebastian Bach. Che tripudio l’Elegia di Bach! Dal bosco accorrevano animali festanti, sulla neve v’erano orme di volpi, di faine, di cerbiatti. Una volta era apparso un alce zoppicando: povera bestia, con una gamba steccata da un legno arrangiato da qualche pietoso falegname.
L’alce si era trascinato fin sotto casa e Intemerata gli aveva aperto la porta. L’animale aveva proteso il muso e aveva leccato le diafane mani della donna. Quando Matusalemme aveva letto la poesia intitolata “Gentili mani diafane” il pubblico del Municipio aveva pianto con lacrime luccicanti come le gocce di cristallo dei lampadari. “Gentili mani diafane …” Il pubblico aveva generosamente sottoscritto i soldi per pubblicare le poesie di Matusalemme. Il tipografo aveva stampato un bellissimo libricino nella collana che ospitava anche le poesie di Feodor Dostojevskij. Feodor Dostojevskij si era complimentato e aveva mandato una grammatica della lingua russa. In ogni modo, indossato l’abito a doppio petto, pettinatosi con la riga da parte, Matusalemme cerca le scarpe. Le scarpe, le scarpe, dove sono le sue scarpe? Matusalemme non trova più le scarpe. Il macchinista ha finito di pelare le patate ma le scarpe di Matusalemme non si trovano. Matusalemme fruga da per tutto. Niente! Solleva il coperchio del baule sotto la finestra. Il mobile è strapieno di vecchi abiti: divise militari, tonache di giudici, completi da cerimonia, costumi da ballo. Tutto ridotto a pezze lacere, bottoni strappati, lacci sbrindellati, ventagli di piume finte, fantasmi di chi è vissuto in quella casa lasciando stoffe rosicchiate dalle tarme. Matusalemme fruga in quel guazzabuglio. Ecco: le sue scarpe sono là. Lucide, odorose di cera, pareggiate di stringhe come fossero appena uscite dalle cure di Intemerata. D’improvviso il fischio del treno. I profeti hanno bevuto il tè e vogliono ripartire. Matusalemme scende in cucina. Il treno fischia di nuovo. Matusalemme saluta il tavolo, il secchio di ferro con il carbone per la stufa, la credenza con le tazzine da caffè, l’angoliera con i bicchieri di cristallo. Saluta la mensola dei libri sospirando sulla Bibbia da cui pende il segnalibro di stoffa che Intemerata vi ha lasciato. Lo sguardo di Matusalemme pare incrociarsi con quello di lei in un comune remoto battere di ciglia. “Dove sei, dove sei adesso?” Il libro ha pietà di lui. “Apri la porta” dice. Matusalemme schiude la porta. Intemerata è là, davanti al Mar Rosso, in attesa che si aprano le acque e lei possa tornare da Matusalemme. (Vecchio testamento. Esodo: XIV, 26)