Nevicava… Nevicava nel silenzio assoluto come se fossimo tutti morti dal tempo dei faraoni.
L’albergo Muller è sempre esaurito, strapiene anche le sue scale che accolgono i clienti più ritardatari, poveri diavoli che dormono sui bagagli. Quando mi sveglio è l’alba. A quell’ora l’acqua riesce ancora ad arrivare nei bugigattoli delle soffitte dove sono ficcati i più insolventi commessi viaggiatori che non hanno venduto un bottone e, non immaginando come pagare l’alloggio, hanno cacciato la testa sotto il cuscino per sparire dalla faccia della terra. Con l’acqua che gocciola scarsa mi lavo piedi e faccia, poi il rubinetto si prosciuga.
Comunque non mi costa niente svegliarmi di buon’ora, anzi…cioè, voglio dire, meglio così perché sfuma il sogno che per tutta la notte mi ha tenuto sulla brace. Sogno lei, lei che mi passa la mano sugli occhi, nel senso tellurico di carezza, ed io mi liquefo come burro nella padella che frigge. Ma non voglio perdere il filo del racconto. Dunque ho già fatto toilette, devo solo impomatarmi i capelli con la brillantina, ultimo atto della mia messa in scena. Con la brillantina i miei capelli restano dritti come i chiodi “Fulmine” che sono la mia merce. Voglio aggiungere che i chiodi “Fulmine” vanno incontro alle più svariate necessità di chi deve inchiodare. Inchiodare una tavolata per un pranzo di nozze? Chiodi “Fulmine”! Inchiodare un letto con le pulci? Chiodi “Fulmine”! Inchiodare una bara a due piazze? Chiodi “Fulmine”!
Sì, perché i miei chiodi sono sdruccioli come la pelle di lei, quando io e lei andavamo a pescare nella Colombana restando nell’acqua fino a mezza gamba. Una volta avevamo agganciato un luccio più pesante d’un catafalco. Che fare di tale cataplasma? L’avevamo venduto agli zingari per una collanina di perle di vetro che lei si era legata alla caviglia abbagliando tutti i gatti che ci attraversavano la strada. No, non voglio divagare, non voglio raccontare di quel pesce che non ha nessuna importanza nella mia vita. Più importante è stato il mulino a vento che ho smontato per farne una barca a vela con la quale io e lei siamo andati in Olanda.
Ho fatto questo giro di parole per specificare che le gambe di lei erano lisce come l’alabastro, nonostante che lei, adesso, non ci sia più e tutto l’alabastro del mondo sia diventato ruvido come pietra pomice. In ogni caso, anche se lei non c’è più, io finisco la mia toeletta abbottonandomi il colletto della camicia, fortemente inamidato, conferendomi un portamento da vescovo. Quando scendo in cucina non c’è ancora nessuno, se non il barista che mi aspetta per bere il primo caffè.
Appena mi vede accende il fornelletto del caffè che soffia una zaffata di vapore come se fossimo sulla locomotiva della Transiberiana in arrivo a Vladivostok. Vladivostok? Sì, perché quel luogo è veramente ai confini del mondo, addirittura oltre, al di là del paletto con la scritta: rien ne vas plus!!! Lei, gambe di alabastro, potrebbe essere là, sotto forma di prima cameriera, femme de chambre, del Grand Hotel Vladivostok. Che cosa ho scritto: Femme de chambre …? Che azzardo, femme de chambre! Per punirmi mi sono morsicato la lingua. Ho scritto e riscritto che lei non c’è più e ciò è quanto basta e chi non ci crede si metta davanti allo specchio e sputi contro la propria immagine.
I quiproquo non finiscono mai! Di fatti non è ancora del tutto dissolto il vapore del caffè che il muso del barista si scontra col mio naso per chiedermi, come se niente fosse, a che punto sono con i Fratelli Karamazov. A che punto sono io con i Fratelli Karamazov? Tutto perché una sera, un vermouth dopo l’altro, gli ho confidato di aver cominciato a riscrivere quel libro cercando di metterlo in squadra. “Perché non è in squadra?” dice lui, il barista. “No, non è in squadra” dico io “E cosa ci vuole per metterlo in squadra?” “Ci vuole la mano di Dio” “Addirittura il Padreterno?” “O chi per lui” “Allora io?” dice lui “Cosa?” dico io “Io scrivo poesie” dice lui.
Ci siamo! Zitti, zitti tutti scrivono poesie. Ho compassione del barista: “Orsù” gli dico: “Leggimene una, qua, sui due piedi.” Lui non aspettava altro e tira fuori un quadernaccio bisunto che squinterna sul bancone di zinco del bar spudoratamente lurido di sciacquatura dei piatti. Per fortuna in giro non c’è ancora nessuno, ieri sera c’è stata una festa da ballo con annessa lotteria ed ora tutti dormono, dame e damerini, ficcati sotto le stesse coperte, come viene viene.
Comunque lui mi legge un centinaio di poesie e tra una strofa e l’altra singhiozza: “Ma cosa sono?” dico io “Sono poesie d’amore. Perché non si capisce?” dice lui “E’ sempre la stessa storia” dico io, perciò mi è saltato il ghiribizzo di metter mano ai Fratelli Karamazov prima che venga in mente anche a me di scrivere poesie d’amore. Le poesie d’amore mi fanno pensare alla morte e subito mi si gelano le parole sulla lingua. Oramai arriva gente, maschi con la camicia rivoltata e femmine con il busto slacciato. Tutti affannati, sudati, paonazzi, tutti che si appoggiano gli uni agli altri per stare in piedi e intanto ordinano doppi Kummel e qualcuno pretende doppi Kummel con pepe nero. “Ma cos’è tutto ciò?” dico io. Chi incolpa la polonaise. Chi la quadriglia. No, no, è il fox-trot che ti sballa. Ma i più giurano sul casquet, o double renversé. “E’ la fine del mondo…” sospirano tutti “Chiudiamo gli occhi e sia come sia!”
Meno male che lei, gambe di alabastro, non c’è più, altrimenti che figura avrei fatto in mezzo a quel parapiglia? In verità, io mi sono tirato in disparte come un gatto con la coda tra le gambe perché ha rubato un pesce fritto. Io, passo dopo passo, sono scomparso, cioè sono arrivato fino alla porta girevole che ruota sul proprio asse senza l’ombra di uno scricchiolio. Ho spinto quella porta taciturna e la sua giravolta mi ha scodellato fuori.
Dio, Dio Celeste mi viene ancora da piangere. Nevicava… Nevicava nel silenzio assoluto come se fossimo tutti morti dal tempo dei faraoni. La piazza era una infinita piazza d’armi e nel centro, sotto il monumento di Carlo Magno a cavallo, c’eri tu, gambe di alabastro. Tu, avvolta in una mantiglia di taffettà, tu mi aspettavi. Tu, tu, tu…dico io che tu eri là per aspettare me ed il tuo sorriso durava, durava come una fiamma scolpita. Io ti facevo cenno con la mano e tu mi rispondevi con la stessa moina. Intanto i fiocchi scancellavano la piazza, il monumento equestre, l’albergo Muller tutto esaurito: tutto, tutto perché non è vero tutto ciò che ho scritto, ma è colpa dei bicchierini di doppio Kummel che mi sono ingraziato finché sono scivolato a terra e ho chiuso gli occhi in mezzo ai damerini e alle dame che brindavano ai cani, ai gatti, agli uccelli, alle nuvole, ai comignoli fumanti, alle banderuole segnavento, alla felicità della notte quando passano le comete, all’amore che sospira e miagola e tanto brindavano, i rappresentanti che non avevano venduto un bottone, che i doppi Kummel zampillavano dalle loro orecchie come acque sulfuree dalle fontane delle terme.
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