Un figliol prodigo scrive una lettera al padre: ”Caro padre, non so più niente di te. Non so più niente della mamma …”
Per favore, tenetevi per mano. Sto per raccontare del tempo in cui il re di Francia regnava su tutto il mondo. Per ficcare il naso in ogni dove egli non abitava a Versailles ma in alto, nel regno del cieli, e di là dettava legge anche ai bidelli delle scuole. Nonostante il vento polveroso di fine inverno, zeppo di insetti rinsecchiti, il re di Francia non perde d’occhio il povero Molière, comico della Real Casa, Maison Dorè, che sgamba sulla cima dei monti per sfuggire ai creditori ai quali non ha pagato un paio di stivali di seconda mano. Molière è stracarico di quinte, specchi, gabbie per uccelli, spade di legno. Indossa tutto il guardaroba teatrale in un brillio di perle finte e cartoni argentati. Il poverino cade davanti alla taverna Belfiore che il vento ha preso per i capelli e intende strappare dalla terra. “Aprite, aprite!” Ringhio di cani. “Padrone, padrone!” Il vento mulina nei camini. “Por favor, aprite!” “Aprire a chi?” “A me!” “Chi?” “Un povero comico.” Si schiude una finestrucola dentro sbircia un decrepito occhio “Combien d’argent?” Molière non ha un soldo ma caccia la sgrinfia nel pertugio ed afferra un naso adunco: “Aiuto!” “Apri!” “Jamais!” La porta scricchiola d’un filo e lui s’intrufola. L’inverno è raggomitolato davanti al camino. Intorno vecchi re magi con la barba fino ai piedi tanto è stato lungo il loro cammino: “Povero me, guardate le mie scarpe rosicchiate dai topi.” “Peggio le mie ali di carta.” “Che devo dire io che vengo da me stesso? Più cammino più torno indietro.” Nella cucina chi succhia la soupe, chi mangia pane e lardo, chi pela patate, chi schiaccia noci, chi spreme il veleno dai funghi. Non c’è più posto. Un figliol prodigo scrive una lettera al padre: ”Caro padre, non so più niente di te. Non so più niente della mamma …” Altri leggono vecchie Bibbie ma, giunti alla resurrezione di Gesù, chiudono gli occhi tanto è il bagliore di quelle pagine. Un viaggiatore si toglie il cappello: “Molière? Sei tu? Tu, tu, sì, sì, ti ho visto recitare.” Tutti si voltano: “Monsieur Molière! Le malade imaginaire! Recitaci qualcosa da ridere!” “No, qualcosa da piangere!” “Metà da ridere e metà da piangere.” Molière agita le braccia: “Fate largo. Su, su! Quattro assi, quattro candele, quattro trappole per topi.” La taverna è in subbuglio: tele, corde, pece, colla, chiodi, filo di ferro, una ruota per fare il vento. Il teatro è apparecchiato. I viaggiatori si arrampicano fin sulle travi del soffitto. Trovano posto cani e gatti, anche due oche padovane che hanno promesso di stare zitte durante la recita. ”Gong!” si apre il sipario. Appare Molière travestito da fratello della morte: alto, ossuto, nero di fuliggine, il pomo di Adamo ansiosamente su e giù. Cerca gli occhiali. Dove sono? Sono nella tasca della giubba. Alita sulle lenti, le pulisce, soffia ancora. Gli occhiali rilucono come notturni occhi di barbagianni. Molière sale in piedi sopra una sedia. Da quell’altezza vede anche il mare dei Sargassi sull’altra faccia del pianeta. Molière apre lo spartito. “Ssst..! zitti! Comincia il teatro.” “Che cosa si recita?” Molière leva il dito. Tutti trattengono il respiro. Molière annuncia: “Gli spettri di Ibsen.” “Gli spettri di Ibsen..?” Il pubblico impallidisce. I più pavidi si nascondono sotto le sedie. Molière ficca lo sguardo negli occhi di un mercante in prima fila. Il tapino sprofonda la testa tra le spalle, vorrebbe fuggire. “Dove vai?” gli grida Molière. “Tutto è buio, buio pesto. Questa è l’ora degli spettri.” Pausa. Lo spettatore in prima fila si cala il cappello sul naso. Molière allarga le braccia: “Fine del primo atto!” Le oche della platea tirano un sospiro di sollievo. Lunga pausa. Molière chiede un bicchiere d’acqua. “Col seltz, prego!” Subito è servito. “Secondo atto!” Molière si rivolge ancora al tapino in prima fila. “Che colore ha il buio?” “Il buio?” “Sì il buio pesto, padre degli spettri.” “Io?” “Sì, tu!” Per fortuna si leva una mano dalla platea: “Il colore del buio è il gatto nero che di notte va per i tetti.” Molière scuote la testa. “C’è un buio più buio del gatto nero di notte.” Brusio del pubblico. Si leva un’altra mano: “Più buio del gatto nero è il camino spento.” “Più buio!” insiste Molière. Silenzio. Il pubblico è smarrito. Molière si guarda in giro, blandisce l’aria: “L’arcibuio è quando dormo e non sogno niente.” Pausa, poi Molière bisbiglia come se volesse parlare solo a sé stesso. “Quando dormo senza sogni mi sveglio spaventato: “Annabella dove sei?” Sono solo come un chiodo nel muro della mia casa d’infanzia. Sento il gallo cantare, lontano, lontano, in un mondo che non so dove sia. Chi c’è in quel mondo? i miei genitori stramorti e seppelliti? Chiamo Annabella: “Annabellaaa…!” Lei non risponde. Vociano in fondo al teatro: “Molière, guardati nello specchio. Annabella non c’è, non c’è mai stata. Te la sei sognata. Molière è sbigottito. “Chi ha visto Annabella?” Le oche della platea allungano il collo. Molière chiude lo spartito. Singhiozza. “No, non sei un sogno. Ti ho accarezzata, lisciata, pettinata.” Dalla platea: “Sogno, solo sogno!” Molière si strappa la giubba dal petto: “Un po’ d’acqua, un bicchiere d’acqua col seltz! Mi sento bruciare, qua, qua, dove c’era il cuore ora c’è fuoco. Acqua, acqua!” Per fortuna sopra il tetto della taverna è seduto il re di Francia. “Acqua, acqua!” invoca Molière. Il re di Francia è misericordioso, stende la mano e fa piovere. Prima poche gocce, una qua, una là, poi un piovasco, un acquazzone. Piove a dirotto. Lo spettacolo è finito. In silenzio gli spettatori vanno a dormire, si cacciano sotto le coperte, tirano le lenzuola sopra la testa per paura degli spettri. Molière è rimasto solo davanti al fuoco del camino. Protende le mani e invoca: “Annabella!”
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