Riti, miti e personaggi di un tipico matrimonio sudista: pulp, molto pulp…
Il matrimonio segna un solco tra Nord e Sud, un vallo, una muraglia, un confine, ‘na linea gotica abbassata al Garigliano. Di là la compostezza rigida, un po’ fredda che a volte diventa estemporaneità modernista; di qua la tradizione, lo jing e lo jang dell’eleganza e dello sbraco successivo, il rumore e la lunghezza, il protocollo da rispettare. Di là è il Nord e di qua è il Sud.
Il matrimonio dell’invitato, a Sud, inizia di buon mattino anche se la funzione si svolge alle 11. In Italia la toeletta è importante ma per la parte femminile lo è ancor di più: quel giorno ella deve stare a mille perché c’è il confronto con le altre. Quindi l’uomo poco dopo le 9 è già pronto, la donna alle 10:45 sta ultimando i ritocchi e non è detto che faccia in tempo per l’inizio della messa (perché il rito è religioso, niente cose simpatiche su un bel prato imbandito di coccarde con tizi con la fascia tricolore al posto della tonaca).
Arrivi, tu normale invitato per via amicale, in chiesa con 15’ di anticipo sulla funzione, ti avvicini al rigido soldatino ai piedi dell’altare che quel giorno è co-protagonista (suo malgrado?), gli fai gli auguri. Alla spicciolata arrivano i parenti stretti, sempre più stretti (più è intenso il legame di sangue e più arrivano tardi). Con ritardo (e ci mancherebbe!) arriva finalmente pure un corteo di auto con in testa un’ammiraglia (ma va molto anche il modello sportivo cabriolet da qualche anno). Chi non fosse abituato alla scena, sicuramente penserebbe che da lì scenderà un boss della camorra, tali e tanti sono i sinistri tipi in giacca e cravatta con occhiale da sole incorporato che quasi spartono i curiosi che fanno capolino sul sagrato e dai primi banchi della chiesa. Ma no, scende una tipa tirata al massimo, somigliante alla sposa (il trucco&stucco è roba da quell’estreme makeover che si vede facendo zapping sui canali satellitari), portata sotto braccio da un signore con un sorriso rigido da emiparesi, il padre.
Passi per le foto, i bacetti augurali post-funzione e i confetti da sparo, bisogna alle 13 sorbirsi 30 km per raggiungere la sala ricevimenti, che è solitamente un palazzotto padronale di campagna di grande pregio e con mega giardino adibito dai saggi proprietari a redditizio matrimonificio.
Alle 14:30 degli sposi ancora non c’è traccia, mentre gli ospiti sono alle prese con antipasti e liquidi vari lì in giardino. Si dà il caso che marito e moglie siano stati sequestrati dall’estroso fotografo per un tour alla ricerca di set idonei per il book fotografico, ossia i monumenti più noti del contado. Alle 15 sequestrati e sequestratori fanno il loro ingresso trionfale nella sala ricevimenti, fatta occupare ai tavoli poco prima dal maitre, che con marito e moglie è, non si sa come, in collegamento diretto. Boato di applausi e vecchietti e donne ormai affamati come lupi.
Si parte. Sfilza di antipasti di terra, sfilza di antipasti di mare, sfilza di antipasti né di mare né di terra. Cadono i primi valorosi, che avevano ecceduto già prima in giardino con gli stuzzichini.
Si prosegue. I primi. Un tris di primi: ancora roba di mare, roba di terra e fantasia dello chef. Alcuni zii nei tavoli là dietro incominciano ad allentare la cravatta. Termina la seconda ripresa ma non puoi ritirarti nell’angolo. Bisogna alzarsi e combattere, perché iniziano le danze. Infatti la sala ricevimenti è dotata al centro di larghissimo spazio che un’apposita squadra di musici trasforma in balera. Lì ti finiscono ai fianchi e non te ne accorgi.
Ad un cenno del maitre, i musici si fermano e una voce stentorea annuncia che è il momento di dare i propri auguri agli sposi. Ma come, non lo avevate già fatto in chiesa?, si domanderà lo sprovveduto nordico. Il polentone non sa che dietro quell’invito agli auguri si nasconde la processione delle buste in denaro da consegnare in dono, manco fossero mazzette. Il matrimonificio è così organizzato che il maitre fornisce lo sposo (perchè la sposa i soldi non li tocca ma li spende poi benissimo) di apposito forziere, uguale sputato a quello dei “Pirati dei Caraibi”.
Si ritorna ai tavoli. Partono i secondi. I soli secondi pescivori, si badi. Tu mangi e non ti capaciti di come i camerieri continuino a portare vino al tavolo in fondo dove c’è zio Vincenzo e sodali. O zio Vincenzo e compari sono un portento nel sostenere l’alcol o si tratta di un circolo di alcolizzati. Cadono altri volenterosi, che posano forchetta e coltello sul tavolo improvvidamente, perché partono di nuovo le danze e vengono trascinati nel ballo, i poveretti.
Arrivano i secondi carnivori, preceduti da sorbetti al limone che si sciolgono mentre i più ballano inebetiti come dervisci. Ormai è lo sfascio. Si va e viene dal bagno per darsi una rinfrescata, le cravatte sono partite da un pezzo. Dal tavolo di zio Vincenzo, non appena termina la musica, è tutto un tripudio di brindisi sempre più salaci, fino all’accenno plautino (ma nei tavoli più snob si dubita che anche uno solo degli occupanti quelle postazioni sappia chi sia Plauto). Tale degrado riguarda gli uomini, perché le donne, in competizione tra loro, tengono alla grande. Soprattutto le cugine sciantose che svolazzano da un tavolo all’altro su tacchi e spacchi eccessivi credendosi ultra-bone.
La pausa tra la fine delle portate e l’inizio dei tempi supplementari dei dolci è bello lungo. E viene occupato da stolidi trenini guidati dalla sposa a cui si aggregano grandi e piccini. Ogni tanto i trenini vengono smollati per i balli seri e qui c’è sempre la coppia attempata che vuol far vedere che i risparmi investiti nella scuola di ballo piuttosto che in bot sono stati una scelta azzeccata. Peccato che, qualunque sia il ritmo, la danza sia sempre la stessa: polka e basta.
In bagno incappi nell’assessore del paese, invitato perché amico del padre della sposa e di zio Vincenzo. Un uomo rubicondo dalla panza strabordante che capisci subito essere un ex DC. Insieme a lui fai a farti un caffè o un amaro (zio Vincenzo e i suoi tutti e due con grappino di rinforzo) e, per la simpatia e la stanchezza, quasi rivaluti la DC (chiaro sintomo della gravità dell’umana condizione in cui ti sei ridotto).
Nei tempi supplementari succede questo. L’arbitro, ossia il maitre, fa cambiare campo di gioco, optando di nuovo per il giardino. Al centro delle frasche, vicino alla piscina, tra le luci soffuse, spunta una torta nuziale alta quanto una giraffa e champagne per tutti, mentre i bambini presenti gettano petali di rosa su invito della bambinaia travestita da Minnie che li ha presi in custodia. Sono le 22, e mancano i calci di rigore. Eh sì, perché mica finisce tutto con i caffè, i superalcolici e la torta, seeee…
Al ritorno in sala che ti trovi? Uno straordinario buffet di dolci, roba da urlo, con la squadra dei camerieri a presidiarlo come dei celerini. In un angolo, c’è pure il carretto dei gelati.
Morti, feriti e dispersi in guerra, chissà perché, si rianimano e prendono d’assalto quel ben di dio, nonostante i camerieri precisino che saranno loro a far le parti e il giro dei tavoli. Tutto inutile, è come al fischio finale della finalissima di Champions League: una bolgia. Quando arriva il tuo turno, al carretto dei gelati rimane solo un po’ di cioccolato ma dal lato spunta un bambino chiatto chiatto, ti passa davanti e sceglie proprio il cioccolato perché il mirtillo, che abbonda, al piccolo cornuto obeso non piace.
Ancora danze ma qui, dopo la rianimazione dei dolci, molti sono morti davvero e non ci sarà un messia a ordinare “alzati e cammina”. Costoro giacciono in coma stesi lungo le sedie. Con loro, anche il piccolo cornuto obeso che ti ha fregato il cioccolato.
Se non fosse per i camerieri, che incominciano a sparecchiare i tavoli, nessuno si schioderebbe. In fila e alla spicciolata, gli invitati raggiungono un altro tavolo in un’altra sala. Gli sposi ringraziano per aver presenziato, tu ringrazi loro per la scofanata, e la neo coppia ti passa in una mano una confezione regalo che racchiude la bomboniera vera e propria e nell’altra una bomboniera di dolci di mandorle (per farsi male anche a casa, il giorno dopo).
Poco prima delle 23, tu umile invitato, torni alla tua autovettura. La cravatta non c’è più, la camicia è macchiata da olii vari, i piedi fanno male e le palpebre sono pesanti. Regge ancora solo un filo di gel sui capelli. E tu, accompagnando le curve della strada con il vino che ti inebria, arrivi a casa, ti butti sul letto e fai un ultimo pensiero prima di addormentarti, rimembrando ancor quel piccoletto oversize che ti ha fottuto il gelato, grandissimo figlio di madre incognita.