20150918 turismo

Negli ultimi trent’anni si è allargato il divario tra la concezione aulica della cultura e la sua dimensione consumistica. Sono sempre di più le mostre, le rassegne, i siti presi d’assalto da moltitudini straripanti: qui e in tutto il mondo. Al turista, se non compie atti in contrasto con l’educazione civica, devi rispetto e gratitudine anche quando il suo punto di vista è diverso dal tuo.

 

In una recente intervista rilasciata a Repubblica, Jean Clair è stato, come sempre, molto duro sul mercato dell’arte e in particolare sulla gestione contemporanea dei musei: «I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili. [...] Viviamo nel tempo dell’arte cloaca. Il museo è il punto finale di un’evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà.»[1] Clair, critico d’arte fra i più autorevoli, già direttore di grandi musei e di una Biennale veneziana, membro dell’Académie Française, è noto per le sue posizioni polemiche sulla globalizzazione della cultura e sul marketing dell’arte, argomenti ai quali ha dedicato analisi furenti come La crisi dei musei (Skira, 2008) e L’inverno della cultura (Skira, 2011).

È difficile non provare simpatia per l’accanimento di Clair contro il cinismo mercantile che ispira una parte dell’arte contemporanea (uno dei suoi bersagli preferiti è Jeff Koons, ex marito di Ilona “Cicciolina” Staller) e lo strapotere della finanza che ha inglobato mostre e musei tra le sue sorgenti di profitto. Ma il suo punto di vista sembra collidere con principii e necessità che hanno a che fare con la sopravvivenza di paesi come il nostro. Abbiamo criticato a lungo la battuta di Giulio Tremonti, ex ministro dell’economia, quando proclamò che «la cultura non si mangia». Le critiche a Tremonti davano per scontato che la cultura può generare ricchezza, se si è capaci di valorizzare le risorse culturali e geografiche di cui l’Italia dispone: il patrimonio storico-artistico e la varietà del paesaggio. Un paese gratificato cinquanta volte dall’Unesco meriterebbe una più efficace politica di investimenti, anche su quel turismo che, in modo sprezzante, definiamo “di massa”.

Negli ultimi trent’anni si è allargato il divario tra la concezione aulica della cultura e la sua dimensione consumistica. Sono sempre di più le mostre, le rassegne, i siti presi d’assalto da moltitudini straripanti: qui e in tutto il mondo. A Parigi, nelle stagioni di punta, il Musée d’Orsay – che solo pochi anni fa era una chicca da élite – è inaccessibile quasi quanto la Tour Eiffel. A Roma e Città del Vaticano puoi scordarti di visitare senza prenotazione il Colosseo, San Pietro e la Cappella Sistina; quando “ripieghi” su raccolte e meraviglie meno osannate dai mass media respiri di sollievo e t’inorgoglisci della scoperta, ma un po’ ti dispiace che la città non abbia voluto, potuto o saputo trarre denaro prezioso da tutti i suoi tesori.

Le folle di turisti che inondano i centri storici e i musei d’Europa non piacciono a nessuno, nemmeno a quelli che ne fanno parte. Per forza: il loro diritto di esistere e di muoversi contrasta col tuo desiderio di essere il re dell’universo. Turisti non si diventa, si nasce: la mobilità è tra le aspirazioni più pressanti e misteriose dell’uomo, ed è figlia della curiosità, anche della più superficiale. Il turismo di massa può essere dettato anche dalle motivazioni più fatue e più kitsch, ma opporvisi è un po’ come allinearsi al pensiero di Tremonti. Del turismo, il nostro e quello degli altri, abbiamo bisogno: è pane. E chi tradisce questa risorsa – dal ristoratore che si approfitta avidamente dell’ospite al custode di Pompei che decide di chiudere l’ingresso senza preavviso per un’assemblea sindacale – si comporta, a tutti gli effetti, come un nemico del paese. Poco importa, al turista maltrattato, se le responsabilità di abusi e disservizi dipendano dal basso o dall’alto. Il turismo deve contribuire alla ricchezza del paese, ma ciò non dà il diritto a nessuno di considerare i visitatori solo come vacche da spremere.

Al turista, se non compie atti in contrasto con l’educazione civica, devi rispetto e gratitudine anche quando il suo punto di vista è diverso dal tuo. Può farti girare le palle, per esempio, che metà di coloro che si accalcano nella sala 6 al primo piano del Louvre se ne stiano mezz’ora in adorazione di Monna Lisa senza degnare di uno sguardo Le nozze di Cana del Veronese, sulla parete di fronte. Cavoli loro. La colpa di certi “obblighi di consumo” non dipende dai fruitori ma da un tam-tam mediatico e subculturale al quale è esposto anche chi non ha mai studiato la storia dell’arte.

«Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è diventato banale»[2]. Guy Debord aveva ragione di pensarla così, ma se fosse ancora vivo dovrebbe riconoscere che persino la sua critica del capitalismo è ormai materia da salotto. “Il sistema” è il sistema, mettiamoci l’anima in pace; se per migliorarlo dobbiamo sparare alle statue, come i talebani, io non ci sto. E comunque il turista, anche il meno erudito, qualcosa impara; invece di storcere il naso davanti ai suoi bermuda o ai suoi sandali, conviene sperare nella sua sensibilità individuale e nella sua volontà di non limitare i propri orizzonti soltanto alla sagra del salame e alla sdraio sulla spiaggia. Nella media, credo che anche il turismo coatto tenda col tempo a sgrezzarsi – specialmente tra i giovani – rispetto al passato, grazie anche agli strumenti didattici che la tecnologia mette a disposizione (dalle guide audio a quell’immenso museo virtuale che è internet). 

Le analisi sociologiche sui consumi culturali possono darci qualche soddisfazione e molte delusioni, ma resta il fatto che senza una solerte e corretta applicazione del marketing non potremo nemmeno mantenere in vita il nostro retaggio artistico e archeologico. Con la puzza sotto il naso riusciremo soltanto ad accelerarne il degrado e la scomparsa. L’arte, del resto, ha senso solo se fruibile, possibilmente non da quattro gatti. Michelangelo non ha affrescato la volta di quella cappella solo per gli occhi di Sisto IV.

 


[1] “I manager sono la rovina dei musei”, intervista rilasciata a Raffaella De Santis, la Repubblica, 21/08/2015.

[2] Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967; Bari: De Donato, 1968.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Barbella
Pasquale Barbella