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Negli anni Cinquanta Milano aveva gli stessi abitanti di oggi ma il numero degli spazi verdi era infinitamente superiore. Dopo i lunghi inverni, in primavera si tornava a correre per i prati a caccia di lucertole sino a quando arrivava il gran giorno della Fiera Campionaria.

La mia casa natale si trovava a Milano, tra il ristorante che poi divenne il famoso Derby Club di viale Monte Rosa, ed il vecchio stabilimento dell’ Alemagna di via Silva. A quell’epoca, a  metà circa degli anni ’50, la zona era circondata da immensi prati. Quello più grande, che a me pareva una giungla, andava da via Albani fino a via Gattamelata. Tanta brava gente vi coltivava orti abusivi e piante da frutta. 

In fondo a via Silva, dopo piazzale Zavattari c’erano prati sconfinati che segnavano la fine del mondo conosciuto di allora. Oltre non si sa bene cosa ci fosse. Forse baracche di povera gente, cani randagi, uomini neri... Sta di fatto che nessuno di noi vi si era mai avventurato.  Milano aveva allora circa gli stessi abitanti di oggi (un milione e trecentomila abitanti che insistevano, più o meno come oggi,  su meno di 200 kmq.), ma il numero degli spazi verdi era infinitamente superiore a quello di oggi, ed il numero delle case era la metà di quello odierno (ma a cosa serviranno tutte queste case vuote? Non sarebbe meglio rilanciare l’ agricoltura e la manutenzione del territorio anziché far “ripartire l’edilizia”, come dice Renzi?).

Noi eravamo la “banda delle ciliegie”, chiamata così perché nel nostro “territorio” c’era una fabbrica di ciliegie sciroppate che usava lasciare nel proprio cortile, coi cancelli spalancati,  alte giare piene di ciliegie “semilavorate”, protette solo da un leggero foglio di carta speciale. Il nostro piacere era introdursi furtivamente in quel cortile, bucare la carta,  ed affondare la mano nelle giare traendole piene di ciliegie grosse come noci. Non più di tre o quattro per volta, ma per tante volte… Gli “altri” erano la “banda della buca”, chiamata così perché aveva il suo covo in un enorme cratere di una casa sventrata dai bombardamenti anglo-americani della seconda guerra mondiale e non ancora ricostruita (Milano subì settanta attacchi aerei pesanti, che distrussero un terzo delle abitazioni. Le macerie vennero accumulate in quella che poi divenne  la “Montagnetta” del QT8 in zona San Siro. Dopo dieci anni dalla fine della guerra c’erano ancora moltissime case distrutte). La linea di demarcazione del territorio passava tra gli orti abusivi. Questa linea determinava gli orti dove ognuno poteva andare a “cogliere” pomodori e frutta. Quando c’era uno “sconfinamento” era la guerra. Si combatteva con cerbottane e bussolotti. Le cerbottane non si trovavano facilmente. Dovevano essere leggere e lisce al loro interno. Chi ne aveva una era ricco. Ma c’era anche chi ne aveva due, fissate assieme, cioè una doppietta, ed anche, caso raro, una tripletta fissata a triangolo. Contro una tripletta non si poteva fare altro che scappare. La potenza di fuoco era incredibile.

In tempo di pace si giocava al Giro d’Italia, tracciando con un gessetto sul marciapiede più liscio che c’era il percorso del giro. Si giocava con i tappi (tollini) delle bottiglie, opportunamente zavorrati e impreziositi dei colori delle squadre e del nome del proprio campione. A quell’epoca il ciclismo era il secondo sport nazionale, dopo il calcio. Si tirava con le dita, e chi usciva dal tracciato segnato col gessetto tornava indietro e perdeva un turno. Altro gioco era quello delle figurine dei vari album che si collezionavano. Si andava lungo un muro e si lasciavano cadere a turno le figurine. Chi “copriva” anche solo un lembo di una figurina a terra vinceva “il piatto”.

In tempo di pace, a parte gli orti,  ognuno poteva andare dove voleva, ma nessuno si inoltrava mai in via Paolo Uccello. Là, si diceva, i fascisti avevano torturato i partigiani strappando loro le unghie. Quella via e quelle villette mi sono ostiche ancora oggi.

D’inverno c’era molta nebbia. Ma non era come quella di oggi. Allora si chiamava “el nebiùn”,  perché mescolava l’umidità dei campi e dei moltissimi corsi d’acqua ancora scoperti (Olona, Martesana, Seveso, rogge, ecc.) ai fumi del riscaldamento a carbone delle caldaie delle case.  Ricordo che quando qualche volta si rientrava alla sera con i miei dopo una serata con parenti o amici, si scendeva alla fermata del tram numero undici di via Monte Rosa (subito dopo c’era piazzale Lotto dove i tram facevano capolinea per tornare indietro) e ci si incamminava a piedi per casa nel silenzio più assoluto e  nella totale assenza di macchine. Davanti al portone, mio padre estraeva dalla tasca un coltellino col quale tagliava un cubetto di nebbia per poter infilare la chiave nella toppa. Bei tempi!

Per tutti i mesi dell’anno, ma in particolare sotto Natale, l’Alemagna ci deliziava col profumo dei dolci. Non c’erano fumi, c’era solo un profumo intenso e dolcissimo che pervadeva tutta l’aria intorno. Dal balcone di casa mia vedevo i panettoni scorrere lungo le finestre socchiuse e sapevo che si avvicinava il Natale. Questo era un giorno di festa particolare perché nei giorni successivi ognuno di noi esibiva i regali ricevuti. Ma anche le semplici domeniche erano speciali.

In quel tempo alla domenica si usciva di casa vestiti bene perché era indice di benessere e di istruzione. Io andavo con mio padre al vicino bar-tabaccheria-vinoteca dei miei nonni e zii. Di fronte c’era la chiesa dei missionari (c’è ancora oggi), dove le campane suonavano senza risparmio e ci accompagnavano per tutta la mattinata (come diceva Giovanni D’Anzi: Quand sona i campann din don din dan alla periferia….). Al pomeriggio, dopo la partita di San Siro, il posto si riempiva di gente. Se giocava l’Inter c’erano i milanisti ad aspettarli di ritorno dallo stadio e viceversa se giocava il Milan. Le discussioni erano sempre feroci e gli sfottò altrettanto, ma poi finiva tutto in una bevuta generale. Fra interisti e milanisti la competizione era molto sentita, ma rimaneva una competizione sportiva e nient’altro.

I giorni passavano sereni quando a un certo punto scoppiava improvvisa la primavera. I prati tornavano verdi e i pomodori rossi (oggi chi non conosce il profumo ed il sapore di un pomodoro appena colto non sa quello che perde). Si tornava a correre per i prati a caccia di lucertole sino a quando arrivava il gran giorno della Fiera Campionaria. Da casa mia potevo vedere le cime più alte dei padiglioni. Quando da queste cime spuntavano tanti piccoli palloni aerostatici colorati voleva dire che era imminente l’ apertura della Fiera.

 

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Per tutti noi era l’avvenimento più importante dell’anno. Le strade si riempivano di persone con abiti di foggia strana e colori accesi, che entravano e uscivano dai negozi, dalle abitazioni e dagli alberghi della zona. Poi arrivava il giorno dell’apertura. Sapevamo già come introdurci senza pagare il biglietto di ingresso. La Fiera Campionaria era stata trasferita circa trent’anni prima, dai giardini pubblici di  Porta Venezia alla nuova Piazza d’Armi ed erano stati costruiti innumerevoli nuovi padiglioni che l’avevano fatta diventare una delle Fiere più interessanti e importanti del mondo. Il primo padiglione da visitare era tassativamente quello dell’artigianato. Enormi matrone africane vestite di splendide stoffe colorate ci sorridevano e ci mostravano maschere, zanne d’avorio, statuette esotiche che richiamavano mondi lontani, esili e dolcissime ragazze asiatiche ci  sorridevano ben sapendo che non avremmo comprato niente. Ma a quei tempi c’erano anche altri valori oltre al vil denaro. Il padiglione era immenso, e richiedeva almeno un paio d’ore  per essere visitato tutto. Era un giro del mondo concentrato. Subito dopo c’era il padiglione dell’alimentazione. E qui “pancia nostra fatti capanna” si andava via solo dopo aver gustato tutto quello che c’era da gustare, e gratis… altro che Expo 2015 dove paghi anche l’aria che respiri. Al Palazzo delle Nazioni non si poteva entrare ma, da studente, imparai poi come fare. Carte turistiche,  mappe, fotografie, libri pieni di dati  statistici dei vari paesi erano oggetto di culto e molte cose le conservo ancora oggi. C’erano altri padiglioni interessanti. Ricordo che nel Viale della Tecnica vidi la prima radio a transistor.

Prima del tramonto si doveva correre a casa. Per le nostre  mamme noi eravamo a giocare nei prati e non si potevano correre rischi.
Prima di rientrare non mancava un salutino veloce alle giare delle ciliegie.
Ci si guardava attorno e si affondava la mano e la si ritraeva piena di ciliegie grosse come noci.
O forse non erano le ciliegie ad essere grosse. Eravamo noi che eravamo piccoli.

 

Gli autori di Vorrei
Francesco Achille
Francesco Achille

È nato a Milano, laureato, ha lavorato presso le principali società del settore impiantistico e cantieristico italiano; attualmente imprenditore in semi pensione, si occupa da sempre di politica, economia e ambiente, è appassionato di letture in genere, di collezionismo, di astronomia, e di agricoltura che pratica, quest’ultima, in un piccolo appezzamento di terreno dove coltiva con amore e sacrifici frutta e verdura biologica.

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