Diventato presidente grazie all'operazione da dottor Frankenstein di Obama, Joe Biden lascia in favore della vice Kamala Harris, scelta, grazie a Hillary, nonostante il ritiro dalla corsa presidenziale del 2020 per i bassissimi gradimenti e senza avere affrontato nemmeno una primaria. L'articolo è stato pubblicato anche su Jacobin Italia.
Ora che il primo miracolato del ticket presidenziale del 2020 si è finalmente ritirato dalla corsa presidenziale passando in un istante da egoista indifferente alle sorti della nazione a salvatore della democrazia, si potrebbe aprire la bagarre per la nomina presidenziale della seconda miracolata del 2020. Perlomeno così sembrava domenica subito dopo il ritiro di Joe Biden, quando i super big dell’establishment che avevano “complottato” per farlo ritirare (Pelosi, Schumer e soprattutto il puppet master Obama) non si erano immediatamente espressi a favore di Kamala Harris. Obama ha anzi subito reso nota la sua scelta di lasciare aperta la Convention Nazionale che si svolgerà a Chicago dal 19 al 22 agosto, permettendo ai delegati di Joe Biden di esprimere le loro preferenze invece di nominare Kamala Harris di default. Se Schumer ha lasciato in sospeso la sua posizione, nella giornata di lunedì invece è arrivato il caldo endorsement a Kamala di Nancy Pelosi, dei governatori democratici e di moltissimi altri democratici di peso.
Tra le persone più potenti degli Stati uniti affrettatesi a sostenere Kamala non potevano invece mancare i coniugi Clinton, per la lunga storia di legami tra Hillary e Kamala, di cui ci siamo a suo tempo occupati.
La campagna elettorale, in realtà, è nata male fin dall’inizio con la blindatura di Joe Biden come unico designato e con l’arrogante rifiuto di normali primarie con dibattiti e confronti. Di tale posizione antidemocratica – che nascondeva la consapevolezza degli enormi problemi di Biden – aveva parlato, nell’aprile del 2023, Marianne Williamson che insieme a Robert F. Kennedy jr aveva tentato di sfidare Biden alle primarie. Nonostante entrambi avessero raggiunto indici di gradimento a due cifre – intorno al 10% Williamson e al 20% Rfk jr, poi ritiratosi disgustato per correre come indipendente – e i sondaggi mostrassero il diffuso sentimento degli elettori democratici di non volere una ricandidatura di Joe Biden, non ci fu modo di superare l’ostracismo imposto dall’elite democratica. Neppure a Dean Philips, entrato nelle primarie in ottobre è toccata sorte migliore: per l’establishment e i media mainstream il candidato era Joe Bideni che quattro anni prima aveva conquistato gli elettori e sconfitto Donald Trump.
In effetti nel 2020 le cose non sono andate proprio così né per Joe Biden e neppure per la candidata presidenziale Kamala Harris.
Inizialmente considerata stella di punta dell’establishment democratico tanto da ottenere il primo Town Hall della Cnn nell’aprile del 2019, Harris si era fatta passare per progressista in diverse occasioni, assumendo comportamenti platealmente ambigui. In quel primo Town Hall ad esempio si dichiarò a favore del Medicare for All, cosa che fece poi anche in un dibattito presidenziale alzando la mano insieme a Bernie Sanders alla domanda su chi sostenesse la sanità gratuita nazionale. Entrambe le volte si rimangiò la parola fin dalle prime interviste, rassicurando così le compagnie assicurative sul fatto che, se fosse diventata presidente, non avrebbero corso rischi. In effetti nel 2017 Harris aveva co-sponsorizzato la proposta legge sul Medicare for All di Sanders, cosa che le permise di allargare notevolmente la sua platea di elettori, per prenderne poi le distanze nel 2019. Non fu quello l’unico episodio di ambiguità tenuto nel breve periodo della sua corsa elettorale, il cui picco più alto fu toccato dall’accusa a Joe Biden di essere stato un segregazionista in quanto contrario al bussing, una pratica secondo cui bambini di colore venivano prelevati dai loro quartieri per essere portati in scuole bianche in modo da favorire l’integrazione razziale, e di cui Kamala e sua sorella Maya, che vivevano in un quartiere di colore, usufruivano. “That little girl was me” disse melodrammaticamente Harris durante il dibattito elettorale del giugno 2019 e quella frase contribuì a farla salire nella graduatoria e a far sprofondare Biden sempre più in quell’abisso in cui era destinato a rimanere se forze superiori, Barack Obama prima e il Covid poi, non lo avessero resuscitato.
Successivamente la vaghezza e l’incapacità di Harris di rispondere a domande sostanziali sulle posizioni che avrebbe preso in merito a questioni importanti (frequente la frase “we should have a serious conversation about that”) e altri tentativi di tenere il piede in due scarpe trovando scuse poco credibili per i suoi comportamenti ambigui, cominciarono a renderla meno popolare.
Il colpo mortale arrivò però nel dibattito del luglio 2019 grazie alla scomoda Tulsi Gabbard, già dimessasi dal Comitato Nazionale Democratico nel 2016 per dare il suo endorsement a Bernie Sanders dopo i numerosi imbrogli messi in atto contro di lui dai vertici del comitato democratico e della campagna di Hillary, inconfutabilmente documentati successivamente dalle email rilasciate da Wikileaks.
Nel dibattito incriminato Gabbard utilizzò a sorpresa le testimonianze fornite alcuni mesi prima al New York Times dalla professoressa della School of Law di San Francisco Lara Bazelon su alcuni provvedimenti di Kamala Harris quando era procuratore generale in California, tra cui ad esempio le 1.500 persone messe in carcere per uso di marijuana, pur avendo la stessa Kamala dichiarato di averla fumata; la negazione del test del Dna, che avrebbe riaperto il caso di un carcerato nel braccio della morte, fino a quando non fu costretta a farlo; l’uso dei carcerati, trattenuti oltre il tempo previsto, come forza lavoro a bassissimo costo per lo stato della California; la proposta di punire con la prigione i genitori dei ragazzini che marinano la scuola e altro ancora. Kamala, incapace di rispondere a domande che avrebbe dovuto prevedere potessero emergere nei dibattiti, cercò di barcamenarsi in qualche modo parlando di tutt’altro.
Ripagata della stessa moneta da lei riservata a Joe Biden il mese prima, precipitò a sua volta nei sondaggi, ma fu abbastanza furba da ritirarsi dalle primarie presidenziali non solo prima di affrontare il voto popolare , ma nell’ultimo giorno utile, il 9 dicembre 2019, affinché il suo nome non comparisse sulle schede elettorali del suo stato, la California, dove i sondaggi la davano dietro non solo a Sanders, ma anche a Pete Buttigieg. Ebbe così tutto il tempo per ricostituirsi una facciata e “studiare” da vicepresidente, sostenuta da Hillary Clinton che fu tra i più accaniti fautori della sua scelta da parte di Biden.
È probabile che, oggi, i tre anni e mezzo di vicepresendenza l’abbiano resa più consapevole, per esempio della necessità di affrontare i tanti problemi sociali statunitensi con maggiore attenzione ai bisogni reali della gente oppure di gestire la questione del genocidio palestinese in modo più umano, cosa che era parsa possibile da alcune sue dichiarazioni. È probabilmente per questo che Harris ha già ricevuto l’endorsement di progressisti come Alexandria Ocasio Cortez, Pramila Jayapal e persino del recentemente sconfitto Jamaal Bowman.
In questa partita occorre dare uno sguardo al ruolo di Obama e al ruolo di deus ex machina assunto insieme a Biden sia nel 2020 sia nel periodo trascorso dal disastroso dibattito Biden-Trump. Nel 2020 l’imperativo categorico di Obama fu di sconfiggere Bernie Sanders e poiché Sanders – che se eletto presidente avrebbe potuto offuscare la legacy di Obama con provvedimenti molto più popolari dei suoi – aveva infilato tre vittorie consecutive in Iowa, New Hampshire e Nevada e si avviava a stravincere nel primo Super Tuesday del 3 marzo, Barack vestì i panni di Frankenstein per cercare di dare vita a Joe Biden, dato che il suo beniamino numero uno, Beto O’Rourke, si era ritirato e il numero due, Pete Buttigieg, non aveva abbastanza forza per ottenere i voti afroamericani. Nonostante si fosse rifiutato di concedere il suo endorsement a Biden sia nel 2016, preferendogli Hillary Clinton, sia per tutta la fase delle primarie del 2020 precedenti il 29 febbraio, Obama aveva ora solo la carta dell’attuale presidente per unificare il partito democratico. Quanto a Biden, dato ormai per finito dopo essere arrivato quarto in Iowa, quinto in New Hampshire e secondo in Nevada, dove Sanders l’aveva addirittura doppiato, veniva persino preso in giro dalle reti mainstream. Tuttavia il 29 febbraio Biden ebbe il suo exploit positivo in South Carolina, quarto stato al voto, grazie all’endorsement tanto sospirato e arrivato in dirittura d’arrivo dell’afroamericano più potente degli Usa dopo Obama, il deputato centrista Jim Clyburn, presidente del Black Caucus del Congresso. E fu proprio tra il 29 febbraio e il 1 marzo che Obama entrò in azione dietro le quinte, come affermato anche da Glenn Greenwald e persino dallo stesso Bernie Sanders, oltre che da diverse altre fonti indipendenti, telefonando a Pete Buttagieg ed Amy Klobuchar, in quel momento secondo e terza in graduatoria, per “consigliare loro” di sospendere la corsa e sostenere Joe Biden in tempo per stravolgere i sondaggi del Super Tuesday. L’operazione ebbe successo e così dei dieci stati su quattordici che i polls davano a Sanders, quest’ultimo ne vinse solo quattro e tutti gli altri andarono a Biden.
Jonathan Allen e Amie Parnes, autori dell’interessante libro del 2021 Lucky. How Joe Biden Barely Won the Presidency, raccontano come nella maggior parte degli stati del 3 marzo 2020 Biden non avesse neppure aperto un ufficio elettorale per mancanza di soldi. Soldi che poi ovviamente arrivarono, insieme al Covid che fu un’altra delle grandi “fortune” di Biden.
Questa volta Obama non ha agito da solo, bensì in sinergia con la sollevazione di massa di congressisti dichiarati e anonimi, dei media mainstream, di George Clooney e soprattutto dei donatori che si erano dichiarati pronti a non dare più nemmeno un penny a tutto il Partito Democratico, mettendo dunque a rischio deputati e senatori.
Non c’è dubbio comunque che la decisione finale sia arrivata grazie alla strategia di Obama insieme a figure come Nancy Pelosi, che nessuno batte nella capacità di raccogliere fondi. Nonostante tutti abbiano cercato di far sembrare che la decisione finale spettasse a Biden con la lettera del 21 luglio , questo ha dovuto accumulare, come ha raccontato Carl Bernstein, una profonda rabbia e una gran delusione per l’abbandono da parte di amici e di tutti coloro che grazie a lui e ai suoi oltre 50 anni di carriera sono diventati importanti politici di Washington.
In attesa della Convention di Chicago, dove si recheranno anche tutti i manifestanti pro-Paestina del movimento Vote Uncommitted, caos e speculazioni tengono banco non solo in campo democratico ma anche nel Partito repubblicano che si trova ora più spiazzato che mai con il nominato presidente più vecchio della storia. Ma come si dice, the show must go on.