Quaderno rosso, ovvero vivere al tempo della crisi. Un malinconico rammarico per quei giorni, prima dell’età adulta, in cui l’amicizia e la sensualità guidavano la ricerca della felicità senza bisogno di avere il portafogli in tasca.
Lo spartiacque tra la vita e la morte, per Amir, è la poltrona del dentista, detestabile luogo di costrizione generatore d’angosce tanto per i bambini quanto per gli adulti: è lì a suo dire che si consuma la lotta tra il sogno e la rinuncia: perché quando con i 700 Euro che porti a casa a fine mese è impensabile sostituire quei tre denti malconci che hanno fatto il loro tempo, non ti privi soltanto di un decoroso stato di salute e della cura del corpo, ma conosci l’esilio dal mondo delle aspettative e delle speranze. I sacrifici imposti ad Amir, da quel che resta della sua busta paga dopo il passaggio delle varie tasse e balzelli con cui lo stato e le cooperative tartassano gli educatori scolastici, non si limitano al buon funzionamento della masticazione, ma si insinuano nella struttura portante dell’evoluzione della persona, compromettendone la possibilità di investire nella formazione e nell’apprendimento necessari a un’ambita crescita professionale.
È intorno alla metà del reddito, con cui Amir non sostiene la spesa per il proprio alloggio, che si intrecciano le scelte tra ciò che nella sua vita è superfluo e quanto invece è ritenuto essenziale al proprio stare bene: mai una fuga, un’evasione o un viaggio quindi, sacrificati sull’altare di una socialità consumistica che impone di spendere per divertirsi e lascia in lui un malinconico rammarico per quei giorni, prima dell’età adulta, in cui l’amicizia e la sensualità guidavano la ricerca della felicità senza bisogno di avere il portafogli in tasca.
Quando torna a casa Amir attraversa Via Casilina, gira per Via di Tor Pignattara e, dopo qualche metro, infila le chiavi nella toppa del suo portone; sembrerebbe uno dei tanti servizi o inchieste sociologiche che raccontano la vita e la perfetta integrazione di un italiano di seconda generazione come lui, mamma ungherese e papà egiziano, ma al posto del giornalista audace e del politico dai tanti like, che plaudono alle opportunità culturali aperte dal melting pot, ci sono gli occhi tristi con cui quest’uomo uomo guarda talvolta il mondo, “perché mi ferisce l’incoscienza degli altri, vedono i morti e non si spaventano, vedono i poveri e non si spaventano”. Allora non resta che difendere l’unica dignità possibile, il rifiuto di quel cappio economico che popola il suo quartiere di zombie e spacciatori, anestetizzando la rabbia e il rancore verso la propria città, “un tempo gloriosa repubblica, poi fondatrice e partecipe della tragedia del denaro”, a suon di televisione e documentari storici, leggendo un po’, ascoltando musica, rinunciando al cinema, al teatro e alla scrittura.
Formatosi nella pratica di una cultura di strada, assorbita partecipando prima alla rivoluzione estetica del punk e poi a quella musicale e sensoriale dei rave, Amir, lungi dal rinnegare quelle esperienze, le onora tutt’oggi, attraverso lo slancio passionale con cui bazzica i turbolenti crocicchi del suo quartiere, il Pigneto; così osserva preoccupato tanto la deriva antisistema di chi vive ai margini quanto il diffuso e generale allontanamento dalla lotta politica, o meglio, da quell’idea talmente banale che finisce per essere l’oggetto di un’enorme rimozione: che in fondo tocchi allo Stato il compito di occuparsi del benessere dei cittadini. Il voto democratico, pur senza illudersi, rappresenta per lui l’unico strumento per inchiodare la classe politica alle nostre scelte e alle sue responsabilità, visto anche che i buoni o cattivi maestri del conflitto sociale nulla hanno trasmesso della loro esperienza e del loro sapere ai giovani veterani, e spettri ignoranti e non istruiti si aggirano pericolosamente per l’Europa.
Nella sua casa Amir non ha conosciuto un solo Dio, ma diversi: quello del papà mussulmano, quello cristiano della mamma, quello non religioso ma sacro, storico e mistico che si è provato a costruire lui. Eppure ce n’è solo uno per cui sarebbe disposto a pregare, è quella pensione d’oro con cui gli piacerebbe sistemarsi e provare a ricominciare a vivere.
In apertura, dettaglio da una foto di Kai Oberhäuser