Presente e futuro dell'accoglienza in Brianza nel convegno vouto da Bonvena, un raggruppamento temporaneo di imprese per la realizzazione di un progetto innovativo di accoglienza, inclusione socio-lavorativa e accompagnamento verso l’autonomia dei migranti.
Nell’articolo di qualche giorno fa, in cui confrontavo Matera e Monza, chiedendomi perché Matera sia riuscita ad essere proclamata capitale europea della cultura, mentre Monza fatica a scoprire i propri valori autentici, ne attribuivo la causa anche al fatto che le numerose associazioni volontaristiche monzesi agiscono bene, ma senza cooperare tra loro.
Debbo rivedere il giudizio, almeno per quanto riguarda le iniziative di sostegno agli immigrati. Lo dimostra un evento che è andato al di là dei limiti territoriali di Monza e Brianza e delle aspettative degli organizzatori: il convegno svoltosi il 31 gennaio a Monza, con il titolo “Migranti. L’accoglienza ha funzionato. E adesso?”, e l’ashtag #brianzacheaccoglie. L’argomento era quello della nuova legge sui migranti, delle difficoltà che creerà per i comuni e le associazioni volontaristiche, del “che fare” nella nuova situazione.
Il convegno è stato promosso da Bonvena, un RTI (Raggruppamento temporaneo di Imprese) costituito nel 2014 per la realizzazione di un progetto innovativo di accoglienza, inclusione socio-lavorativa e accompagnamento verso l’autonomia dei migranti, attuato da una rete di cooperative sociali, associazioni ed enti ecclesiali.
Hanno dato il patrocinio o aderito, secondo una lista ancora incompleta, 29 enti locali e istituzioni, tra cui la l’Associazioni Comuni Italiani (ANCI), la Provincia di Monza e Brianza e 17 comuni (non è stata commentata, ma aleggiava nell’aria come riprovevole, l’assenza del Comune di Monza). Ben 114 erano la associazioni e organizzazioni della società civile e le imprese sociali. 20 le presenze ecclesiastiche, dall’Azione Cattolica alla Caritas Ambrosiana e altre Caritas, parrocchie, comunità.
I ccordinatori di Bonvena (termine che in esperanto significa accoglienza), Massimiliano Giacomello e Greta Redaelli, hanno illustrato il metodo e i risultati del progetto. A loro volta gli altri relatori hanno descritto la grande varietà di iniziative per l’integrazione dei migranti, non solo nella provincia di Monza e Brianza.
E’ stata inoltre presentata una relazione dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) sulle migrazioni, che ha funzionato come un “fact-cheking” sui processi migratori, oggetto sistematico di disinformazione, confusione e di paure irrazionali. Un dato interessante: la crescita di popolazione dell’Africa e le migrazioni conseguenti potrebbero comportare la presenza in Europa, nel 2050, di tre persone di origine africana ogni venti abitanti. Un dato che dimostra la compatibilità e la governabilità del processo migratorio.
Nella lettera aperta che i promotori hanno invitato a sottoscrivere, vengono riassunti gli aspetti più gravi della legge 132/2018, che «introduce norme punitive e discriminatorie allungando i tempi e aumentando i costi per qualunque domanda (da due a quattro anni di attesa dopo la presentazione della domanda di cittadinanza, fino a sei mesi per un documento anagrafico)».
In particolare:
« La legge istituisce i CPR (centri per il rimpatrio), in cui rischiano di finire anche persone che hanno già un percorso d’integrazione avviato e definito, e rischiano di diventare irregolari persone che già lavorano»;
«Viene abolito il permesso umanitario (protezione riconosciuta oggi a circa il 20% dei richiedenti asilo)»;
«I nuovi permessi di soggiorno per motivi speciali non sono convertibili in permessi di lavoro»;
«Viene limitato l’accesso allo SPRAR (progetti di accoglienza, di assistenza e di integrazione dei richiedenti asilo, affidati ai comuni) ai soli titolari di protezione internazionale (oggi circa il 25% delle richieste di asilo), impedendone l’accesso ai richiedenti e agli attuali detentori di permessi umanitari»;
«Viene impedita l’iscrizione alla residenza anagrafica, rendendo più. complicato l’accesso ai servizi territoriali»;
«Vengono ridotte le funzioni dei «CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) limitandoli a dormitori con meri servizi di vitto e alloggio, mettendo a rischio i programmi di alfabetizzazione, formazione professionale, inserimenti lavorativi, attività di volontariato, sport, cultura, accesso ai servizi giuridici e all’assistenza sanitaria».
Queste drastiche limitazioni si riflettono, naturalmente, anche sull’occupazione di chi professionalmente svolge funzioni assistenziali, per lo più giovani e donne con competenze professionali, come psicologi, operatori legali, mediatori culturali, antropologi, educatori. E’ evidente l’intenzione di colpire le organizzazioni volontaristiche, che vengono additate al sospetto e all’odio popolare.
Non è azzardato assimilare questa legge, per lo spirito che la anima e i metodi adottati di disabilitazione sistematica di una determinata categoria di persone, ieri gli ebrei e oggi i migranti e chi li aiuta, alle leggi razziali fasciste degli anni trenta.
Siccome il numero degli irregolari è stimato intorno ai 6oo mila, e il loro rimpatrio è praticamente impossibile per i tempi e i costi (Salvini stesso ha parlato di 80 anni!) la legge lascerà in Italia un alto numero di persone a rischio di povertà, senza lavoro e deliberatamente esposte, per sopravvivere con i propri famigliari, ad attività irregolari (lavoro nero, criminalità da bisogno). All’insegna del garantire una maggiore sicurezza agli italiani, la legge aumenta il tasso reale di insicurezza, innescando deliberatamente un circuito perverso, che induce le persone ignare a chiedere ed accettare in misura crescente interventi di stampo autoritario.
Di fronte a questa situazione, i promotori chiedono a se stessi e sostanzialmente a tutti: “E adesso?”.
L’orientamento è decisamente quello di “non mollare”, cioè di proseguire nell’impegno solidaristico e umanitario, pur nel clima soffocante e cercando i possibili espedienti per contrastare le limitazioni imposte della legge.
Ma chiaramente questa “resistenza” non sarà sufficiente. Alla fine, occorrerà una azione politica diretta a cambiare la legge e quindi le forze politiche al governo.
In che misura un’azione dal basso, sotto la spinta di una partecipazione volontaristica che si rivela molto ampia e dotata di un alto potenziale, può essere in grado di raggiungere l’obiettivo?
La questione va al di là delle forze che hanno dato vita al convegno, per interessare tutte le iniziative di volontariato da cui il nostro Paese è animato in ogni sua parte.
Mi viene spontaneo ricollegare l’iniziativa di Bonvena a quella del Forum Disuguaglianze e Diversità, promosso dalla Fondazione Basso, che ha un’analoga struttura e finalità a livello non solo nazionale. Ad essa aderiscono organizzazioni volontaristiche di notevole peso, come Action Aid, Caritas Italiana, Cittadinanzattiva, Legambiente, e ricercatori impegnati nello studio delle disuguaglianze e della povertà e delle relative conseguenze negative sullo sviluppo umano ed economico.
ll Forum si propone, per il 2019, di elaborare e proporre un progetto italiano per ridurre disuguaglianze e povertà analogo a quello proposto da Anthony Atkinson (che ho riassunto e commentato su questa rivista) per la Gran Bretagna e per l’Unione Europea.
Particolarmente importante, in ambedue le dimensioni, è l’impegno a mobilitare le forze positive presenti nelle tre strutture in cui si esprime l’agire sociale: le associazioni volontaristiche, le istituzioni pubbliche, le imprese. La presenza, nel convegno del 31 gennaio, di tanti sindaci ed esponenti della società civile ed ecclesiale va in quella direzione. Sicuramente il mondo economico e del lavoro ne è coinvolto nella misura in cui uno degli impegni prioritari dei partecipanti è quello di trovare un’occupazione per gli immigrati.
Ma tornando all’ “E adesso?”, al che fare, e ai relativi protagonisti, è chiaro che la resistenza e l’impegno all’interno del contesto normativo attuale non è sufficiente.
Non a caso la conclusione della “lettera aperta” di Bonvena è che «se non interverranno cambiamenti dovremo dire addio a tutte le attività che rendevano un percorso degno di autonomia e integrazione».
E’ evidente che si prospetta l’esigenza di una virata ad U delle recenti normative, cioè un rovesciamento delle forze politiche attualmente al potere. Forse si potrà ottenere qualcosa con il dialogo, ma difficilmente un cambio negli orientamenti di fondo.
Saranno la convergenza e l’impatto di pubblici amministratori lungimiranti, volontari e imprese ben gestite sufficienti per il rovesciamento? Alla fine, queste iniziative non possono snaturare se stesse. La loro azione ha una forte e oggettiva valenza politica, ma non possono sostituirsi alle forze, sostanzialmente ai partiti, che operano nelle sedi del potere e se lo contendono, secondo le regole della democrazia.
Sta quindi ai partiti, e in particolare alla sinistra, ascoltare e recepire le indicazioni della società e farsene interpreti, traducendole in battaglia politica contro gli interessi particolari e le tendenze antidemocratiche ed autoritarie.