Una lunga chiacchierata con Emanuele Giordana, una delle più autorevoli voci che ci hanno raccontato e aiutato a capire l'Asia degli ultimi trent'anni. Da pochi giorni è in libreria il suo ultimo libro “Viaggio all'Eden – da Milano a Kathmandu”, diecimila chilometri tra ricordi del giovane viaggiatore degli anni '70 e riflessioni del reporter di oggi.
Emanuele Giordana è da anni uno dei più attenti osservatori di quanto accade in Asia, è fondatore dell'associazione di giornalisti indipendenti Lettera22 e presidente dell'associazione Afgana, gestisce il blog “Great Game” e collabora con diverse testate tra cui Internazionale e Il Manifesto. Negli ultimi mesi ha rubato un po' di tempo alla professione, per dedicarsi alla scrittura e raccontare il grande viaggio di formazione compiuto da molti giovani che, come lui, negli anni '70 si misero in cammino e attraversarono Grecia, Turchia, Iran e Afghanistan, per arrivare in India e Nepal e lì cercare il senso della vita (o chissà che altro). “Viaggio all'Eden - da Milano a Kathmandu”, uscito per i tipi di Laterza nelle scorse settimane, è soprattutto questo, un libro in cui Giordana ripercorre quelle tappe. Ma non solo. Nelle pagine infatti si intrecciano due sguardi: quello del ragazzo di allora e quello del giornalista che, quarant'anni dopo, si ritrova per lavoro a percorrere gli stessi luoghi con gli occhi del reporter navigato. Ne escono un ricordo corale, che restituisce gusti, profumi e atmosfera freak del movimento giovanile di allora, e tante riflessioni sull'attualità di quegli stessi paesi, oggi, alle prese con la globalizzazione. Pagine mai autocelebrative, mai vecchie, mai nostalgiche, ma al contempo appassionate. Un linguaggio semplice, ma non banale, che restituisce la complessità di culture, luoghi e, infine, di quell'intrico di forze contraddittorie che è oggi il mondo.
Per noi di Vorrei l'uscita del libro è stata occasione per una lunga chiacchierata con Giordana, su tanti temi: letteratura e senso del viaggio, giornalismo, guerra, Asia di ieri e di oggi.
Partiamo da “Viaggio all'Eden”. Com'è arrivato questo libro?
Il “dramma” del giornalista è di essere legato alla notizia. Ammesso che tu abbia voglia di letteratura, non è in quel contesto che la puoi sviluppare. Lo scrivere giornalistico è piatto – senza aggettivi, diretto, con poco spazio per la tua opinione – ci sono pochi margini. Solo in un paio di occasioni mi è stata concessa maggiore autonomia. La prima volta la sensazione di libertà durò poco: stavo a Kabul ormai da tempo e il Manifesto mi propose di fare un reportage sull'Afghanistan, ma slegato dall'attualità, descrivendo il paese, il contesto. Be', passarono solo pochi giorni e arrivò una telefonata ad informarmi che D'Alema avrebbe inviato altri duecento soldati e che quella era la notizia da commentare...
Qualche tempo dopo, sempre dal Manifesto, mi proposero di scrivere un articolo all'interno di un progetto estivo riguardante i “luoghi della Sinistra”: da milanese avrei potuto partire dal Liceo Carducci, dove avevo studiato, ma preferii invece incominciare da una serie di piccoli luoghi di ritrovo – la bocciofila della Martesana, il cinema Abanella, ec – in cui negli anni Settanta, io e tanti miei coetanei, vagheggiavamo, conoscevamo, preparavamo, tra moda, voglia di evadere e spirito di emulazione, il grande viaggio verso l'India e il cuore dell'Asia. Insomma, più che di un luogo concreto, volevo parlare del viaggio fatto da alcuni e da altri solo immaginato.
Ne venne fuori un articolo denso, che in cento righe raccontava con intensità i colori di una stagione e parlava di un orizzonte condiviso.
Costretto a condensare un viaggio di sei mesi e diecimila chilometri in cento righe, per la prima volta avevo scoperto quale poteva essere il mio ritmo di scrittura lontano dalle esigenze del giornalismo. Mi sono sorpreso e convinto così di poter scrivere qualcosa di diverso da una notizia argomentata.
Parecchi anni dopo ho proposto al Manifesto di fare una serie di articoli per sviluppare quelle cento righe e farle diventare mille: la mia idea era di ripercorrere quel viaggio, che fu un importante fenomeno sociale in tutta l'Europa, a tappe, paese per paese. Dopo la pubblicazione di quegli articoli, si animò un dibattito e riscontrai un entusiasmo che di rado ho potuto riscontrare quando scrivo di politica estera!
«Per noi che sognavamo di prendere il Direct Orient dalla Centrale di Milano, l'ultimo ritrovo prima di partire in quelle estati un po' torride e di spasmodica attesa per il grande viaggio era una bocciofila sulla Martesana, fiumiciattolo maleodorante non lontano dalla stazione, dove pensionati comunisti e giovani fricchettoni pasteggiavano con ossobuco e barbera dell’Oltrepo per 500 lire. A qualche centinaio di metri, gli effluvi della cannabis condivano le serate all'Abanella, un cinema di terza visione – quando le sale, come i treni, avevano una gerarchia di classe - rilevato da un amante del genere sex, drug & rock'n roll e dove, oltre a Il laureato e Woodstock, si proiettava anche Cavalieri selvaggi con Omar Sharif e Jack Palance. Quel grande film sull'Afghanistan di John Michael Frankenheimer, che i critici cinematografici avevano snobbato, alimentava l'epopea del Viaggio all'Eden, come era stata chiamata la prima guida per freak sulla via che da Istanbul portava a Kathmandu. E non c'era molto altro come viatico letterario»
(Giordana E., Viaggio all'Eden, Laterza, p. 5)
Come mai secondo te?
Se penso al mio blog, solo quando scrivo – succede raramente - di politica italiana ricevo dei riscontri diretti: commento l'affermazione del politico di turno, i suoi fan si arrabbiano e parte la discussione. Quando scrivo di Afghanistan o altri luoghi più o meno remoti non ho quasi mai riscontri. Temo che in questo paese trionfi ancora uno spirito locale nel senso deteriore del termine, abbiamo sempre l'occhio al nostro ombelico. Quello che succede fuori, persino in un'epoca in cui siamo vestiti con cose fatte in Cina, abbiamo l'iPhone come gli americani, mangiamo tutti nello stesso modo, ci interessa meno o niente.
Emanuele Giordana negli anni Settanta durante un viaggio in treno verso l'“Eden”.
A quegli articoli cos'hai aggiunto?
L'incipit è pressoché immutato, se rileggi quell'articolo ci troverai dentro solo qualche piccola differenza. Ho ampliato il racconto delle singole tappe e aggiunto, per ogni tappa, una parte dedicata a come ho ritrovato, quarant'anni dopo, tornandoci da giornalista, quegli stessi paesi.
«Cosa ci muovesse, allora, alla volta dell'Eden non saprei dire: una specie di febbre il cui batterio originario - covato sotto pelle dall'epopea dei grandi viaggiatori - veniva forse da lontano o era magari appannato, si sarebbe detto allora, con i pidocchi che allignavano nelle nostre folte capigliature.
Quella febbre era il sintomo di una malattia che attraversava tutta l'Europa e l'intero mondo occidentale che, dagli anni Sessanta in avanti, aveva cominciato a fremere, scalpitare, ribellarsi. E se ci sembrava giusto ribellarsi ("Ribellarsi è giusto!", aveva scritto il presidente Mao nel suo Libretto rosso), ci sembrava anche giusto liberarci di tutti quegli orpelli (li chiamavamo allora marxianamente "sovrastrutture") che potevano frenare il nostro desiderio rivoluzionario di cambiare il mondo: famiglia, matrimonio, fabbrica e sagrestia»(Giordana E., Viaggio all'Eden, Laterza, Prologo, p. XIX)
Credo che nel testo tu abbia scelto di eliminare i riferimenti biografici e di parlare di quel viaggio e di quella stagione da “osservatore partecipante”. Nelle pagine usi sempre il “Noi”.
Mi son guardato e mi son detto: la mia vita in sé di che interesse può essere? Così, ho usato nella parte che riguarda la memoria il plurale “Noi”, proprio con il desiderio di riconoscermi in una comunità, in un movimento. Nella parte che riguarda l'attualità l'“Io”, perché in quel caso esprimo interpretazioni personali su ciò che ho osservato, per lavoro, molto tempo dopo. Non volevo fare un libro sulla mia generazione, ma fare il racconto di ciò che noi sentivamo, restituendo l'atmosfera di quel periodo. Le analisi generazionali le lasceremo ai sociologi nei prossimi decenni!
Tra noi parlavamo e ce lo chiedevamo: oltre a fumare, cosa ci facciamo, noi, qui a Kathmandu?
Come ti sei risposto a distanza di tempo?
Come scrivo alla fine del libro, credo che per noi fosse quello un modo per “sprovincializzarci”. Lo era anche per chi veniva da Roma, Amsterdam o Londra. Viaggiare, oggi come ieri, resta una grande lezione di vita. Anche se l'Eden forse non c'è più, il viaggio ci permette di uscire dalla “provincia” del nostro punto di vista e di guardare da un'altra prospettiva. Questo è benefico per tutti: ci si contamina con l'altro, si mette tutto in discussione, idee del mondo, valori, certezze incrollabili.
«A Peshawar [...] c'era anche un antico e fatiscente palazzo mogul dove al prezzo corrispondeva l'ubicazione in altezza della stanza. Ma al contrario: pagavi bene e stavi al primo piano, ombreggiato e ventilato. Meno rupie e salivi a quello superiore. E, infine, se quattrini non ne avevi proprio, passavi la giornata su un terrazzo liquefatto, in stanzette che erano bugigattoli di lamiera caldi come forni. Erano per lo più abitati da junkie all'ultimo stadio, dimenticati dalle ambasciate e inseguiti senza fortuna dai parenti, per i quali il futuro più prossimo era una sostanza grigiastra derivata dallo sbriciolamento di pastiglie di morfina della Merck. La vulgata raccontava che Peshawar fosse diventata, vai a sapere come, il deposito di infinite scorte di morfina a far data dalla seconda guerra mondiale. Costavano nulla e quei ragazzi finivano il loro viaggio esotico cercandosi le vene nel caldo poco mansueto della terrazza del National»
(Giordana E., Viaggio all'Eden, Laterza, Prologo, p. XIX)
Nelle pagine l'esperienza personale resta sempre celata, ma – pensiamo di interpretare il sentimento di molti – non passa riga che non ci si chieda, tra tutti quei ricordi, come fosse stato il tuo viaggio.
Il mio primo viaggio fu dopo la maturità, andai in Sud America con un caro amico, Guido Corradi. Avevamo pochi soldi, volammo negli Stati Uniti, perché il biglietto costava meno, e da lì con un Greyhound, da New York arrivammo fino al confine messicano. Dal Messico proseguimmo, esclusi brevi tratti, in autostop. Ero il primo dei miei amici che andò in Sud America, forse proprio per distinguermi dai molti che partivano per l'India. L'Asia sarebbe arrivata da lì a poco. Al ritorno dal Sud America lavorai come imbianchino, tirai su i soldi necessari e ripartii per il mio “viaggio all'Eden”, durò 6 mesi. In India sono poi ritornato due anni dopo, d'inverno. Erano gli anni dell'università: furono viaggi di formazione, motivo che poi mi spinse a studiare geografia.
Quanto si sono fecondate le esperienze di studio e di viaggio?
Sono andate di pari passo. Mi laureai in Statale con una tesi di ricerca sul cambiamento delle colture agricole in un piccolo arcipelago delle Molucche. Mentre la preparavo, il professor Corna Pellegrini, che era mio relatore, mi incoraggiò ad andare a vedere di persona, sul campo. Fu un'ottima scusa per lasciare Milano e passare quattro mesi in Indonesia. Per prepararmi a quella partenza studiai indonesiano all'Ismeo. Le isole in cui ero diretto afferivano già all'universo linguistico della Polinesia, ma per ragioni politiche l'indonesiano era imposto come lingua ufficiale. Gli isolani quindi parlavano in maniera molto semplificata e questo rese più semplice intenderci. Queste esperienze stimolarono sicuramente il mio percorso successivo e anche il modo in cui l'ho affrontato.
Quando è avvenuto il salto al giornalismo?
Avevo il mito recondito del giornalismo. Dico “recondito” perché non ho mai avuto l'ambizione della carriera o dei soldi, pensavo che le cose importanti fossero le relazioni con le persone e la capacità di riuscire a star bene con se stessi. Continuo a pensarla così. Tutto il resto sono cose che facciamo per occupare il tempo.
Poi però uno deve anche lavorare per vivere e così, dopo l'università e i lavori più svariati, venendo da una famiglia di giornalisti - mio nonno era direttore de La Tribuna -, mi sono trasferito a Roma e ho iniziato a lavorare per Avanti. Credo sia stato il primo giornale italiano ad entrare in crisi, nei primi anni Novanta. Al di là delle questioni politiche, il giornalismo cominciava a trasformarsi. Di lì a poco tanti altri giornali sarebbero andati in difficoltà, avrebbero preso a licenziare; all'orizzonte lentamente apparve internet.
Lì inizia l'esperienza di Lettera22?
Sì, a quel punto, rimasti senza lavoro, con diversi colleghi ci siamo guardati in faccia, abbiamo cercato qualche buona idea e abbiamo fondato l'associazione Lettera22. Ognuno di noi aveva una tradizione di studi alle spalle, progetti di ricerca in diversi campi, abbiamo fatto una scommessa sugli esteri: in Italia una scommessa rischiosa! L'idea era quella di essere giornalisti che non fanno solo cronaca, ma studiano e si prendono a cuore delle aree di specializzazione di cui conoscono la lingua, il contesto, e in cui hanno contatti diretti. Già ai tempi sapevamo perfettamente di non poter fare concorrenza stando sulle notizie: così ci mettemmo a vendere contenuti di approfondimento ai quotidiani. Molte testate italiane, dal Gazzettino di Venezia al Mattino di Napoli, e magazine, come Diario o l'Espresso, si avvalevano della nostra collaborazione per gli esteri. L'iniziativa ebbe delle risposte positive in breve tempo. Ricordo, per esempio, quando nel 2001 il re Birendra e la sua famiglia vennero assassinati in Nepal: in pochi tra i nostri colleghi avevano chiaro dove fosse il Nepal, men che meno avevano modo di leggere correttamente la situazione. Noi fornimmo il nostro contributo in diverse occasioni come quella, favoriti anche dall'intensificarsi dei processi di globalizzazione.
Quanto è durata?
Per quindici anni l'associazione è andata avanti coniugando giornalismo, buone letture, studio e attenzione ai cambiamenti in atto. Poi le cose sono cambiate.
Oggi si legge poco, cose brevi, c'è molta più concorrenza, i compensi sono crollati. Prima dell'euro un articolo venduto ai giornali veniva pagato 200.000 lire, con l'avvento della moneta unica si è passati a 100 euro – che non erano certo la stessa cosa! -, per decrescere fino ai – quando va male - 10 euro di oggi.
Davanti a questi cambiamenti Lettera22 si è trasformata. Siamo passati a pubblicare libri di approfondimento (l'ultimo in ordine di tempo è “A Oriente del Califfo”): giornalismo sostenuto da studi e approfondimenti.
Srinagar, 1974, Viaggio all'Eden con Marc Charrier (Foto di Guido Cornale)
Pochi euro per un articolo. É possibile lavorare in queste condizioni?
Lavorare da freelance è sempre stata dura. Non c'è paragone possibile tra la mia condizione economica, quella di uno che ha fatto il freelance per vent'anni, e la situazione di un collega che ha lavorato per vent'anni in una redazione. Perlomeno però in passato un freelance guadagnava a sufficienza per vivere. Oggi un giornalista indipendente per vivere del suo lavoro deve essere anche videomaker, fotografo, grafico, avere capacità di utilizzare insomma tutti i nuovi mezzi necessari per comunicare a 360°. I più giovani collaboratori di Lettera22 hanno preso strade autonome e ce l'hanno fatta. Hanno fondato nuove agenzie o intrapreso percorsi in cui riescono a vivere del loro – ottimo - lavoro. Hanno trasformato un'esperienza di scrittura in un mestiere diverso, che sfrutta molti più canali per fare giornalismo.
Quindi c'è un futuro possibile per del buon lavoro di approfondimento?
Uno spazio c'è, da un lato ci vogliono grandi capacità e una testa in grado di adattarsi alle nuove esigenze, dall'altro lentamente si spera maturi un cambiamento nel mondo del giornalismo. Ovvero l'idea che le testate non siano più semplicemente il luogo della notizia - perché la notizia alla velocità attuale nasce già vecchia. Il giornale dovrà diventare qualcosa di simile a uno spazio per le riflessioni e gli approfondimenti. Le prime avvisaglie di cambiamento si scorgono anche in Italia. Infine, c'è un discorso di consapevolezza che riguarda il lavoro in generale e non solo il giornalismo: l'artigianato, il turismo responsabile, l'agricoltura biologica, l'attenzione a quel che si compra in generale; a me sembra ci siano crescenti speranze per chi, anche nel piccolo, produce qualità.
Succederà quindi anche per l'informazione?
Forse c'è speranza.
Emanuele Giordana oggi e Fanny
A proposito di cambiamenti, nel libro uno dei fenomeni che ritorna spesso, come fattore di radicale trasformazione dei luoghi, è il turismo. A volte ne descrivi i danni, altre volte ne dai una lettura positiva...
Il turismo è uno dei grandi fenomeni di distruzione delle culture autoctone e dei luoghi, ma innegabilmente è anche fonte di ricchezza e possibile miglioramento delle condizioni di vita per un grandissimo numero di persone nel mondo: per questo è un fenomeno che va letto senza banalizzazioni. Il turismo va bene se è consapevole, altrimenti produce pesanti effetti negativi: le tradizioni locali diventano siparietti ad uso e consumo di stranieri, l'atmosfera di un luogo è cancellata dall'arrivo della massa, la natura viene danneggiata. Attenzione: non dico che un luogo o una cultura si debbano conservare così come sono, ogni angolo di mondo deve avere la sua evoluzione e quindi anche fare i conti col turismo, il problema è sempre nel rapporto di forza: se la tua cultura è debole – non ha strumenti culturali per affrontare criticamente il fenomeno - il turismo può essere distruttivo. Nel libro cito il caso emblematico di Varkala, in India, dove un promontorio bellissimo e delicato, già soggetto a frane e smottamenti, viene continuamente cementificato. Si andrà avanti finché un giorno non crollerà un pezzo di montagna e moriranno cinquanta turisti; da quel giorno in poi lì non andrà più nessuno e il turismo, con la stessa velocità con cui aveva generato ricchezza, l'avrà tolta. Anche perché quando si interviene in modi così impattanti, dopo poco tempo, alla “tua” località se ne preferirà un'altra più bella, meno affollata, più “autentica” qualsiasi cosa questo aggettivo voglia dire.
«Centinaia di alberghi, guest house, casette per tutte le borse (da 1.000 a 10.000 rupie e oltre), ristoranti con offerta di ogni bevanda e una sorta di cucina addomesticata per palati delicati e generalmente di qualità medio-bassa. Pesce fresco spesso mal cucinato, curry sbiaditi, cucina locale appiattita sul gusto di europei, russi, indiani facoltosi e così via. Persino qualche caso di prostituzione. Decine di ospedali e centri ayurvedici che sono in sostanza beauty farm. Da questo posto senz'anima (almeno a ridosso della scogliera lungo la quale si sviluppa l'offerta turistica) gli dei sembrano essere scappati. Fa tenerezza la coppietta che osserva il tramonto nella posizione del loto in cerca di benedizione. Shiva e Parvati non abitano più qui. É il turismo, bellezza!»
(Giordana E., Viaggio all'Eden, Laterza, p. 69)
Che viaggiatori erano quelli che facevano il viaggio all'Eden?
Noi in un certo senso eravamo, sì, una prima avvisaglia di turismo, perché eravamo comunque numerosi e il nostro arrivo portò in quei paesi delle trasformazioni. In Afghanistan, ad esempio, si moltiplicarono gli alberghetti, che però mantennero la forma di case riadattate alla bell'e meglio. Ci accontentavamo, avevamo piacere ad adeguarci alle condizioni di chi ci ospitava, non chiedevamo la sauna e l'aria condizionata. Eravamo rispettosi, non esigevamo. Il viaggiatore è un turista più attento, più consapevole.
«L'eterna diatriba resta quella tra il turista e il viaggiatore che, nel fonde dell'animo, ha sempre l'idea che sta andando alla scoperta di qualcosa. Non diremo di “genuino”, termine di per sé imperfetto, e neppure di “nuovo”, ma di qualcosa. Qualcosa di non ancora visto (almeno da noi). Spesso quel qualcosa è solo una sensazione o una breve conversazione con il proprietario di un piccolo locale dove si prepara il tè»
(Giordana E., Viaggio all'Eden, Laterza, p. 70)
Non è un po' una storia che ci raccontiamo questa del turismo “consapevole”? Non si tratta solo dell'avvio di fenomeni turistici che poi danno il là a flussi di massa che riproducono sempre gli stessi effetti negativi?
Non vanno trascurati gli effetti positivi di una forma di turismo rispettoso: le comunità chiuse non hanno speranza, anche e semplicemente dal punto di vista biologico. La diversità ci fa più belli! La contaminazione è un fenomeno che fa andare avanti le culture. I rischi sono tanti, ma vedo positivo: noto che adesso molti ragazzi che hanno l'età dei miei figli fanno viaggi più consapevoli di quelli che facevo io alla loro età. Hanno studiato di più ed il mondo stesso è cambiato. Io che ho fatto l'università e ho studiato tanta storia negli anni Settanta, non sapevo cosa fosse stato l'impero cinese o chi fossero i Moghul per l'India. Noi studiavamo la storia europea e un po' di storia americana. Oggi un ragazzo che studia come si deve, che va all'estero, magari va a fare un'esperienza di volontariato con una ONG, parte con un orizzonte più chiaro. Non sono tanti, certo, ma in prospettiva credo che sarà sempre più spesso così.
«Cosa siamo stati veramente? Fuor di dubbio fummo un pezzo di quell’avanguardia giovanile che sconvolse il mondo tra gli anni Sessanta e Settanta. Fuor di dubbio di quell’avanguardia fummo la frangia più anarchica e libertaria. Ma, alla fine della fiera, fummo anche l’avanguardia del turismo di massa e - proprio noi che viaggiavamo con consapevolezza, anticipando di trent’anni il turismo sostenibile ecofriendly - fummo anche gli araldi di una globalizzazione della valigia nel frattempo divenuta trolley. Quel vasto movimento di arrivi e partenze è senz’altro una risorsa ineludibile per tanti Paesi, ma è stata ed è – come un po’ abbiamo raccontato – anche il segno della sua rovina, della fine di un sogno tropicale»
(Giordana E., Viaggio all'Eden, Laterza, p. 110)
Negli ultimi anni, tra le tante tappe e i tanti interessi nati nei viaggi in Asia, ti sei dedicato in particolare all'Afghanistan: una scelta dettata dall'attualità?
Una scelta solo in parte legata all'attualità. A Lettera22 eravamo convinti che se avessimo raccontato il paese inseguendo le notizie di attualità avremmo fatto il lavoro che facevano tutti. Non potevamo neanche pensare di andare in prima linea, poiché non avremmo avuto i soldi per sostenere i rischi, le assicurazioni e quant'altro. Sono partito per l'Afghanistan, come ero partito prima per i Balcani, per raccontare il contesto. L'Afghanistan mi aveva affascinato negli anni Settanta e quel fascino era rimasto in me; ci sono tornato per motivi di lavoro e dal 2007 sono tornato nel paese a cadenza regolare, per periodi più o meno lunghi. L'ultima volta sono stato con mio fratello per girare alcune scene di “Due soldati”, il film che è stato presentato in questi giorni al Festival di Locarno. Gli ho fatto una piccola consulenza, una bella occasione: la prima volta in cui lo vedo al lavoro.
Emanuele Giordana con suo fratello, il regista Marco Tullio, ad Herat (in Afghanistan) durante le riprese di 'Due soldati'
Come si vive il lavoro sul campo in un paese così complesso?
Abbastanza semplice: adotto lo stesso sistema che adottavo durante il “viaggio all'Eden”. Vado dove vive la gente comune, vado a fare la spesa al mercato, tendo a non andare in albergo, mi faccio ospitare. Se insegui le notizie – l'esplosione, la bomba, l'attentato, l'aumento del numero di soldati – senza indagare cosa succede dopo non fai un buon lavoro. Faccio un esempio: in primavera gli USA hanno sganciato sul paese la “madre di tutte le bombe”, un ordigno che ha la capacità di perforare una superficie di cemento armato profonda cento metri. Crediamo ancora alla favola che ci hanno raccontato che questa esplosione ha permesso di uccidere settanta terroristi islamici? Non hanno ammazzato manco una pecora perché la bomba è stata fatta esplodere in un luogo deserto. É sempre stato così, solo che oggi il meccanismo è più raffinato perché i militari ti raccontano tutto quel che fanno, tranne quello che non vogliono che tu sappia. Tu giornalista hai la sensazione che i militari siano diventati più democratici, che ti diano più accesso alle informazioni. La verità è che è cambiato il modo di far guerra. La guerra è sempre schifosa come prima e tu la capisci solo se stai con le vittime. La capisci con l'empatia, e qui torniamo alla vecchia lezione di Kapuscinski: nel lavoro di reporter cerchi di essere imparziale raccontando ciò che vedi, ma non è necessario che tu sia neutrale. Io credo lo si debba dire al proprio lettore: io vado in Afghanistan, ma ti racconto la guerra da una parte, quella delle vittime. Perché quell'altra non mi interessa, te l'hanno già raccontata i bollettini o quelli che vanno negli hotel di lusso e non escono di lì. I giornalisti che vanno all'hotel Serena, che è il più lussuoso di Kabul – e per questo il più pericoloso - e si chiudono lì dentro sperando che non gli tirino un razzo. Non escono mai, incontrano il referente della NATO, l'ambasciatore, il capo della polizia. Cosa puoi capire della guerra da questi incontri? Tutti si rimpallano la notizia uscita da quartier generale della NATO che è stata detta all'ambasciatore, che l'ha riferita al capo della polizia di Kabul e che, alla fine, dicono a te giornalista. Nessuno di questi ha il polso del territorio, perché vivono blindati in un mondo parallelo. Cosa potrai raccontare ascoltando solo il loro parere? Cose che potresti raccontare anche da Roma! Se vivi in mezzo alla gente è diverso: puoi capire se le persone hanno paura, come riescono a sopravvivere in una città sulla linea del fronte, vedi una guerra sotto un'altra luce e cambia la tua percezione delle notizie. Insomma, quando posso cerco di svicolare dal canale istituzionale, che devia per forza sulla direzione che interessa a lui.
Oggi, infine, abbiamo una possibilità che una volta non avevamo. Sono le ONG, che con la legittimazione delle Nazioni Unite, ti consentono di muoverti in questi paesi con maggiore semplicità, so infatti di essere appoggiato da una rete di soggetti che ha una sensibilità molto simile alla mia.
«La notte, a quelle latitudini, arriva velocemente. Avevamo appena lasciato il posto di frontiera iraniano di Taiebad ed eravamo entrati in Afghanistan, che le luci del giorno si andavano affievolendo. Il passaggio del confine non era stato indolore ma sapevamo che la vera frontiera del «Viaggio all’Eden», la mitica strada che portava dall’Europa sino all’India e a Kathmandu negli anni Settanta, si trovava lì dove il grande altipiano del Khorasan persiano si perde nei deserti dell’Afghanistan, un luogo, un nome che con l’andar del viaggio – nelle storie raccolte a Istanbul o Teheran – stava diventando qualcosa in più di una semplice tappa.
Alla frontiera iraniana la polizia dello Scià imponeva, a chi andava o veniva, un passaggio obbligato in un corridoio degli orrori: batterie scoperchiate, scatole di conserva squarciate, gomme rivoltate come calzini, cruscotti smontati, tubetti di dentifricio svuotati. L’avvertimento era chiaro così come il biglietto da visita dell’Afghanistan, patria tra l’altro dell’ «afgano nero», l’hascisc più ricercato del pianeta. Lasciavi la Persia del Trono del pavone con le sue lugubri promesse penitenziarie e agenti azzimati dalle divise luccicanti e arrivavi al posto di frontiera de la République d’Afghanistan, che allora il francese era la lingua di una monarchia che, appena un anno prima, nel 1973, era diventata repubblica mentre il re Zaher Shah era in vacanza a Capri»(Giordana E., Viaggio all'Eden, Laterza, p. 27)
Come vedi ora la situazione dell'Afghanistan, rispetto a quella che tu e Giuliano Battiston ci avevate raccontato alcuni mesi fa?
Male, perché vedo una nostra presenza militare in aumento e inutile. Abbiamo già avuto 130.000 soldati in passato, adesso ce ne sono 12.000, li vogliono portare a 20.000. Prevedo nei prossimi mesi un aumento dei raid aerei, un aumento dell'utilizzo di droni, un aumento delle operazioni speciali, fatte di notte, di nascosto, by passando le autorità locali, un ampio uso dei contractors, quindi un nuovo tipo di guerra. Una guerra per far cosa? Non per difendere i diritti, non si può più credere a questa fandonia dopo 16 anni! Penso che prima di tutto ce ne dovremmo andare, ritirarci, garantendo comunque soldi e appoggio al governo locale che è legittimo sostenere. Finché restiamo lì, siamo un elemento di destabilizzazione.
All'inizio si poteva pensare diversamente, ma oggi è evidente. Gli americani sono gli unici ad avere un interesse reale a rimanere nel paese. L'interesse è rappresentato dalle basi militari utili al Pentagono per avere controllo del backstage iraniano e russo. É ancora la geografia che conta, perché la guerra si fa ancora con il controllo del territorio. Se hai in Afghanistan un contingente militare che gestisce nove basi aeree tu quel quadrante lì ce l'hai sotto controllo e sei un elemento destabilizzante perché gli iraniani non ti vogliono, i russi non ti vogliono, gli afgani non ti vogliono. Ti vuole solo il governo perché dipende dai tuoi soldi.
In che misura?
Anzitutto, il 75% dell'economia del paese ancora dipende dagli aiuti internazionali. Poi, c'è la questione dell'economia di guerra. La situazione di conflitto dà avvio a un ciclo che inietta ricchezza virtuale. L'afghani - la moneta del paese - fino al 2013 è stata la moneta più forte di tutta l'area: la presenza di 130.000 soldati e di tutte le persone di supporto a questo contingente sono una calamita che attira denaro e fa girare l'economia distorcendo la realtà. Il denaro a volte si limita al transito: gli stipendi dei funzionari, le spese della diplomazia, quelle dell'esercito. L'occupazione straniera ha creato una moneta forte in un paese dall'economia debole, con conseguenze disastrose: fine delle esportazioni e corsa alle importazioni dai paesi circostanti. Lungo il confine hanno iniziato a comprare polli, uova e verdura dal Pakistan, semplicemente perché erano per loro molto più convenienti. Se gli USA decidono di tornare a casa l'illusione finisce. A pagare è sempre la popolazione.