Giuliano Battiston e Emanuele Giordana, assidui frequentatori del paese, raccontano come dall'Afghanistan si possa capire meglio quale sia il futuro del Medioriente e del Nord Africa, anche alla luce della recente Conferenza sull'Afghanistan svoltasi a Bruxelles il 4 – 5 ottobre
Riprendono alla “Casa sul pozzo” di Lecco gli incontri di approfondimento voluti dall'Associazione “L'Altra Via” in collaborazione con la “Comunità di via Gaggio”, il ciclo di incontri di quest'anno sarà dedicato all'Africa, continente che non guadagna mai le prime pagine dei giornali, ma pone interrogativi importanti per il futuro, anche nostro, di cittadini italiani ed europei.
Il primo incontro, in vero, è dedicato all'Afghanistan e al Medioriente e questo – spiegano gli organizzatori - per aggiornare dati etemi emersi dalla serie di incontri dello scorso anno (incontri che avevamo seguito anche su queste pagine: Storia del Medioriente - Turchia – Palestina).
Il calendario degli incontri
Padre Angelo Cupini, responsabile della Comunità di via Gaggio presenta così l'iniziativa: «Un ciclo di incontri sull'Africa ci sembra importante anche per via delle numerose comunità africane presenti nel nostro territorio, vorremmo che fossero anche loro tra i nostri interlocutori in queste serate, per poter affrontare insieme un percorso di ricomprensione. La questione finale infatti è quella che porremo nell'ultimo incontro del nostro percorso: non è sufficiente accogliere, ma imparare a stare insieme. Il Cardinal Martini ricorreva spesso all'espressione “fermentarci reciprocamente”, perdere qualcosa di nostro e riprendere qualcosa dall'altro. Non solo da questo ciclo di incontri vorremmo imparare qualcosa in più, ma provare a pensare al futuro della nostra città insieme, perché, ci piaccia o no, la nostra storia si intreccerà sempre più con altre storie e sarà diversa da ciò che è stata».
Dario Consonni dell'associazione “L'Altra Via” introduce invece tema e ospiti della prima serata: «abbiamo sentito necessità di fare il punto dopo gli incontri dell'anno scorso, ma da un'angolazione diversa. Ospiti di questa sera sono Giuliano Battiston, che scrive per “Edizioni dell'Asino” e la rivista “Lo straniero” - due realtà per noi veri e propri punti di riferimento - e fa parte dell'associazione di giornalismo indipendente “Lettera 22”. Il secondo ospite è Emanuele Giordana, voce di “Radio Tre Mondo” e da molti anni frequentatore dell'Afghanistan. Partiamo da questo paese che, come sottolineeranno i nostri relatori, spiega molti aspetti del Medioriente e del Nord Africa e del loro, e nostro, prossimo futuro».
Da sinistra Giuliano Battiston, Dario Consonni, Emanuele Giordana.
Il paese quindici anni dopo l'intervento USA
Giuliano Battiston apre la serata facendo il punto sulla situazione che si vive oggi in Afghanistan, nei giorni del quindicesimo anniversario dall'attacco degli USA al regime dei talebani: «La domanda che fa da sottotitolo a questo incontro - Medioriente, a che punto siamo? - ci ha preoccupati, perché è complicato formulare qualsiasi risposta. Io ed Emanuele Giordana partiremo dall'Afghanistan, un paese che conosciamo, la cui storia ci racconta molte cose del Medioriente attuale e ci avverte sulle conseguenze di certi modi con cui, noi occidentali, in questi anni siamo intervenuti nella regione. Individuiamo anzitutto obiettivi iniziali e risultati attuali dell'intervento USA di quindici anni fa.
Gli obiettivi di Washington furono principalmente tre: punire chi aveva attaccato gli Stati Uniti l'11 settembre 2001 e chi proteggeva i terroristi (i talebani accusati di dare rifugio ad Osama Bin Laden). Il secondo obiettivo: fare ordine nel paese, per stabilizzare la regione attorno. Il terzo: esportare della democrazia dove mai ce n'era stata l'ombra».
«Com'è andata a quindici anni di distanza? Per rispondere utilizzerò tre indicatori: la sicurezza, la situazione economica e quella politica.
Partiamo dalla sicurezza. Vado in terra afgana da un decennio e ho visitato molte delle province del paese, l'ho fatto via via limitando i miei spostamenti perché le zone divenute pericolose sono oggi molte più di ieri. Al di là delle mie, e nostre, sensazioni, altri dati più oggettivi provengono direttamente dagli Stati Uniti. Un rapporto del Dipartimento della difesa americano ci dice che i talebani oggi controllano più territorio di ieri. Secondo dati ONU le vittime civili nel 2015 crescono rispetto agli anni precedenti, toccando il numero più alto mai raggiunto dal 2009 (anno da cui sono disponibili delle statistiche): 3.545 morti e più di 7000 feriti. Sul tema sicurezza la domanda che bisogna porsi è infine quella relativa al grado di sicurezza che percepiscono gli afgani: una ricerca interessante presentata al Congresso dal Dipartimento della Difesa dice che solo il 20% degli afgani oggi si sente sicuro; erano il 40% nel 2001».
«Secondo indicatore: la situazione economica è disastrosa. Il deficit fiscale è grave, il reddito medio pro-capite è basso e continua a scendere. Il 75% dell'economia del paese ancora dipende dagli aiuti internazionali. La comunità internazionale insiste nel richiedere al governo progetti seri, strategici, ma il governo non ha fatto molto in questi anni. Tuttavia è riuscito a ottenere prestiti per 15 miliardi di euro per i prossimi 4 anni accettando, proprio in questi giorni, le condizioni imposte dall'UE sul rimpatrio dei migranti afgani».
Paesi per PIL pro-capite
«Infine, la situazione politica. Nel settembre 2014 è stato eletto Ashraf Ghani Ahmadzai, un tecnocrate, già ministro delle finanze nel governo di Hamid Karzai. Il suo sfidante era Abdullah Abdullah, ex mujaheddin cui, in barba alla Costituzione, gli americani, veri artefici della nascita del nuovo governo, hanno ritagliato – per raffreddare le sue accuse di brogli - un ruolo di primo piano, chiedendo ad Ahmadzai una soluzione di compromesso in cambio di nuovi aiuti. La formazione di un governo a due teste ha così istituzionalizzato il conflitto politico al potere, paralizzando di fatto il paese».
I talebani che fine hanno fatto?
Battiston: «I talebani oggi controllano più territorio di prima: sono forti anche nel nord-est e nord-ovest del paese, dove non lo erano dieci anni fa. Ci sono forti differenze tra aree urbane e rurali, in queste ultime vive il 70% della popolazione e lì, dove sta la maggioranza degli afgani, il consenso dei talebani è più forte. Hanno un modo di amministrare la cosa pubblica spesso più gradito di quello del governo. Un esempio: per ottenere un'udienza nei tribunali statali ci vogliono soldi e conoscenze, i tribunali talebani funzionano meglio, costano meno e sono ritenuti più equi.
A livello diplomatico fino a qualche anno fa i talebani erano considerati terroristi tout court, oggi invece gli viene riconosciuta una patente di credibilità politica e c'è sempre un posto per loro ai tavoli riguardanti il futuro del paese. Hanno ottenuto questi risultati nonostante abbiano dovuto attraversare il non semplice passaggio di potere seguito alla morte del mullah Omar – loro leader indiscusso fino al 2013 - e nonostante la forte presenza della coalizione internazionale sul territorio. La vera forza dei talebani - oltre agli aiuti che ricevono dai paesi confinanti - è la debolezza del governo al potere, di cui la gente ha pochissima fiducia.
Resta il fatto che, anche se si giungesse ad un accordo di pace, il negoziato avverrebbe tra due attori con scarsa legittimazione: il governo di Kabul, predatorio e distante dalla popolazione, e i talebani, considerati comunque militanti che non guardano al benessere del paese».
La carta geografica del paese
ISIS e Al-Qaeda
L'IS ha cercato in questi mesi di mettere piede in Afghanistan per potersi attribuire la paternità di tutta la galassia jihadista, ma è riuscito a penetrare in poche aree del paese, in particolare verso il confine col Pakistan dove la maggiore presenza di salafiti ha portato ad un maggiore appoggio da parte della popolazione locale. Le due organizzazioni comunque sono in contrasto tra loro. Tutto nacque nel 2013 quando Al-Baghdadi - che successivamente verrà considerato uno dei principali padri dell'IS - era a capo delle operazioni di Al-Qaeda in Iraq. Il legame con l'associazione di Bin Laden andò avanti fino a quando, violando gli ordini ricevuti, Al-Baghdadi decise autonomamente di proseguire le proprie mosse in Siria. Il mancato rispetto delle indicazioni di Al-Qaeda – che chiedevano ad Al-Baghdadi di restare in Iraq - portò alla rottura dei rapporti. Nel 2014, non a caso, comparve sulle scene l'IS.
Tra gli ideologi dei due gruppi c'è oggi una grande guerra mediatica: entrambe le fazioni sanno che avere maggiore influenza significa attirare a sé più soldi e più reclute. L'obiettivo di fondare il califfato è comune, ma le strategie per giungere al traguardo sono estremamente diverse. Mentre l'IS vuole prendere dominio dei territori e fondare il califfato con l'uso della velocità e della violenza, Al-Qaeda sostiene la necessità di creare prima il consenso popolare, senza il quale l'esperienza del califfato avrebbe vita breve. Oggi Al-Qaeda è più forte di prima, il fatto che non la si senta più nominare è parte di una strategia di occultamento intenzionale. L'ordine per i qaedisti oggi è di mettersi al servizio delle comunità locali in ogni paese del Medioriente e guadagnarsi la fiducia della popolazione. Al-Nusra è il braccio di Al-Qaeda in Siria e oggi è più forte e temibile dell'IS».
Ci sono anche i cinesi
Successivamente, Battiston, sollecitato dal pubblico, specifica le relazioni che corrono oggi tra Cina e Afghanistan: «i cinesi sono silenziosi, hanno stipulato accordi segreti per lo sfruttamento di miniere di carbone e altre materie preziose. Qualcuno sostiene che questi accordi siano di così grande portata da aver ipotecato il futuro del paese. Io penso che - a parte in campo minerario - per ora non ci siano grossi interessi dei cinesi verso l'Afghanistan. La Banca mondiale, che di neoliberismo se ne intende più di me, ha però insistito molto sul fatto che il paese diventerà un nodo nevralgico dei corridoi energetici dall'Asia all'Europa. Resta da vedere come quei progetti infrstrutturali potranno essere realizzati e messi al sicuro in aree così turbolente. Le risorse nella situazione afgana rischiano di diventare un fattore di instabilità e non di ricchezza.
Infine, come altre potenze esterne, anche i cinesi utilizzano i talebani, lo fanno sia in funzione anti-americana che come tutori dell'ordine pubblico nelle zone in cui lavorano le loro imprese».
Hamid Karzai, ex presidente afgano, e Hu Jintao, ex presidente della Repubblica Popolare Cinese
Emigrazione e ricatti targati UE
«Economia stagnante, governo di unità nazionale paralizzato, talebani più forti, hanno portato a una pressione migratoria fortissima, oggi il 65% degli afgani con meno di 25 anni sceglie di lasciare il paese. L'Afghanistan per 33 anni consecutivi ha prodotto il più alto numero di rifugiati al mondo, primato che solo il dramma siriano degli ultimi anni gli ha tolto.
Oggi ci sono ancora 3 milioni di rifugiati afgani nel mondo, in Europa ne ospitiamo solo 200.000. Negli scorsi giorni a Bruxelles si è giocato sporco: al vertice sull'Afghanistan i diplomatici europei hanno legato i futuri aiuti economici verso l'Afghanistan a un progetto di rimpatrio forzato. Non sono andati per il sottile, il discorso è stato questo: abbiamo pochi soldi per l'Afghanistan o li spendiamo in Europa per accogliere i vostri rifugiati, oppure, se volete soldi per lo sviluppo del paese, dovete rimpatriare i connazionali che attualmente sono ospitati dentro i confini dell'UE. La retorica dell'esportazione della democrazia accostata a questo tipo di politiche chiarisce in modo inequivocabile la malafede dell'Europa».
Come mai gli afgani scappano?
Emanuele Giordana prova a spiegare come mai perduri questa forte pressione a lasciare il paese: «Per capirlo vi porto oltre l'India, in Bangladesh. Dal Bangladesh scappa tantissima gente eppure non c'è la guerra. Tentano di andare soprattutto in India. Lungo la frontiera del Bengala gli indiani hanno costruito un muro di sei metri lungo 4000 km. Tutti i giorni dei disperati provano a saltarlo e vengono uccisi. Di questo muro non sappiamo niente.
Questo ha a che vedere con la nozione di confine che ci appartiene, noi abbiamo una responsabilità storica: li abbiamo disegnati noi, i confini, come ci faceva comodo all'epoca.
Nel caso dell'Afghanistan i confini li hanno disegnati dei funzionari incaricati dalla Regina d'Inghilterra. Nel 1880 i funzionari tirano una riga che segue il profilo montuoso del territorio, ma divide in due una comunità, quella pashtun, che ora si trova divisa tra Afghanistan - dove mantiene il suo nome originale - e Pakistan, dove oggi viene chiamata patani. Hanno diviso la stessa gente, la stessa comunità. Lo ha fatto un tizio arrivato da fuori, senza alcuna legittimazione agli occhi della popolazione locale. Quale tipo di risentimento avrà potuto generare un gesto del genere? Si saranno domandati: e ora a cosa appartengo io? Forse a niente, allora me ne vado».
La guerra non è finita
«Oltre a questo tema dello sradicamento, dell'identità violata, un sondaggio dell'anno scorso ci aiuta a capire qualche altra cosa; ci dice che, contrariamente al 2001, molti afgani oggi vogliono lasciare il paese per via della guerra. Ma non era finita?
Le notizie che arrivano dall'Afghanistan sono state silenziate, ma i bombardamenti sono quotidiani, i cieli sono solcati da aerei senza pilota che, in barba alla legislazione internazionale, colpiscono persone che stanno sotto di loro. Ogni tanto sbagliano, qualche mese fa hanno preso una famiglia di sedici persone. Sedici civili ammazzati e nessun terrorista.
Ci troviamo davanti un paese dimenticato. Non è solo questione di notizie. Noi italiani avevamo 4000 soldati sul territorio dopo l'intervento USA, ora ne sono rimasti 800. Cosa possono fare 800 soldati in un paese del genere? Guardano il perimetro della caserma in cui sono rinchiusi, senza portare alcun vantaggio alla popolazione».
Kabul oggi
L'economia di guerra
«La guerra dà avvio a un ciclo che inietta ricchezza virtuale. L'afghani - la moneta del paese - fino al 2013 è stata la moneta più forte di tutta l'area: la presenza di 140.000 soldati più tutte le persone di supporto a questo contingente, sono una calamita che attira denaro e fa girare l'economia distorcendo la realtà. Il denaro a volte si limita al transito: gli stipendi dei funzionari, le spese della diplomazia, quelle dell'esercito. L'occupazione straniera ha creato una moneta forte in un paese dall'economia debole, con conseguenze disastrose: fine delle esportazioni e corsa alle importazioni dai paesi circostanti. Lungo il confine hanno iniziato a comprare polli, uova e verdura dal Pakistan, semplicemente perché erano per loro molto più convenienti. La guerra ha fatto alzare i prezzi e ha richiamato denaro, ma non appena Osama Bin Laden è stato ucciso e gli Stati Uniti hanno deciso di tornare a casa l'illusione è finita. Anche noi, ubbidendo - come facciamo sempre con gli ordini di Washington - abbiamo richiamato in patria i nostri soldati. Nel giro di pochi mesi americani ed europei hanno lasciato il paese disastrato e illuso: prima delle presidenziali del 2014 il 75% degli afgani credeva nella possibilità di un futuro migliore, solo sette mesi dopo - abbandonati ad un governo nazionale di compromesso incapace di agire - erano il 40%».
L'Afghanistan è un modello
Questa è l'analisi della situazione. Emanuele Giordana chiarisce in seguito perché è importante parlarne: «E' fondamentale analizzare il caso afgano perché è il modello su cui si vanno formando le guerre del nuovo secolo. Da quella lezione possiamo imparare. Oggi l'Afghanistan è una colonia della comunità internazionale, è una colonia perché dipende dai nostri soldi e noi i soldi li erogheremo solo in cambio dell'accettazione da parte afgana di un rimpatrio forzato dei loro connazionali. Un piano, di cui si è discusso a Bruxelles negli scorsi giorni, che prevede il rimpatrio di tutti coloro a cui verrà negato il diritto di asilo. In altre parole si tratta di una deportazione concordata. A che ritmo? Per i prossimi sei mesi, si legge, almeno 50 persone per aereo su voli diretti a Kabul, anche se il numero dei voli non viene quantificato. Si capisce però che non saranno pochi, tanto che le parti si sono accordate per un eventuale nuovo terminal dedicato agli espulsi nell’aeroporto della capitale».
«Il silenzio tombale è vergognoso – continua Giordana - e abbiamo ridotto le relazioni con il paese a una questione di ricatti e portafogli. Stiamo facendo la stessa cosa in Libia. Fra qualche tempo, nelle zone dove dovremo controllare i pozzi di petrolio libico, manderemo altri 800.000 soldati che diventeranno, in breve tempo, nuovi obiettivi per i terroristi.
In questi anni e oggi ancora stiamo utilizzando le questioni relative ai diritti umani o alla condizione delle donne per farci scudo e non affrontare il tema vero: quello della guerra e della pace. Velo o non velo, scuola o non scuola, diritti riconosciuti o meno, ma se si continua a morire ogni conquista è vana. Se ci sono violenza e guerra, se si muore ogni giorno, di quali diritti parliamo? La politica è complice di un sistema di nuova colonizzazione che passa attraverso la guerra».
Conferenza sull'Afghanistan, Bruxelles 4-5 ottobre 2016
Le difficoltà della politica estera europea
Battiston conclude sottolineando altri due aspetti che emergono evidenti dal caso afgano: «Il primo è legato a un equivoco che caratterizza spesso l'Europa degli ultimi anni: il realismo politico coincide sempre con l'interventismo militare. Sembra sempre che siano i militari a dettare l'agenda. L'Afghanistan ci racconta che questo è un grosso sbaglio.
Il secondo aspetto è relativo al comportamento dell'Alleanza atlantica a partire dagli anni '90, quando la NATO decide che per assicurare la stabilità interna sia il caso di lavorare anche fuori dai propri confini. Gli attentati che colpiscono l'Europa negli ultimi mesi sono reazioni alle nostre avventure malpensate».
Realpolitik o fine della politica?
All'ultima domanda dell'incontro risponde Emanuele Giordana: «Nel mondo sono in corso 36 conflitti. In questi conflitti non ci sono solo USA e Russia, ma anche attori regionali importanti. E' un mondo più complesso. Pensiamo all'India e al Pakistan che si stanno avvicinando minacciosamente ad una nuova guerra, di cui non ci occuperemo fino a che non inizieranno ad arrivare nei nostri paesi altri richiedenti asilo.
Io penso che il mondo vada avanti, c'è una tensione nell'opinione pubblica contro nuove guerre, nuovi soprusi. Le primavere arabe ci hanno ricordato che si va a scuola anche nelle dittature e poi quell'andare a scuola alla fine un effetto lo ha: la gente è più informata, più consapevole, protesta, chiede.
C'è tuttavia un'incapacità delle nostre istituzioni, la nostra diplomazia non sembra più capace di capire come girano le cose. Questo lo vedo bene in Afghanistan: per capire i paesi bisogna andare in giro, nei bar, per strada, nelle piazze, tra la gente, parlare. I diplomatici italiani non lo fanno da anni. Dall'ambasciata italiana in Afghanistan nessuno esce, se non su un'auto blindata pronti per entrare in un altro edificio blindato. Cosa si può capire così?
Questa cosa sta succedendo anche a noi giornalisti. In un mondo in cui pensiamo di essere più informati lo siamo di meno perché l'opera di selezione ed elaborazione delle informazioni non c'è più e siamo travolti da flussi di dati enormi e indistinti. Lavoriamo dalla scrivania con notizie prodotte da chissà quali agenzie, difficili da verificare.
Tornando alla politica o c'è un piano dove la dottrina militare venga applicata secondo fini politici, oppure - ed è quel che temo più probabile - la politica non sapendo più comprendere e quindi non sapendo cosa fare, come intervenire nelle situazioni, si affida ai militari. L'idea che ha guidato per secoli l'occidente, quella di progresso, si è rotta. Non riusciamo più a immaginare un futuro e, senza un piano in testa, si ricorre al guardiano violento per cercare di tenere sotto controllo quel che sotto controllo non si ha».
La foto di apertura è tratta da prn.fm
PER APPROFONDIRE:
Dossier di D. Castellani Perelli per Repubblica sui costi della guerra in Afghanistan (6/10/2016)
Articolo di Giuliano Battiston sugli esiti della conferenza sull'Afghanistan a Bruxelles (5/10/2016)
Articolo di Giuliano Battiston in cui si illustrano con maggior dettagli le relazioni tra IS e Al-Qaeda (18/08/2016)