Nel suo libro-intervista “Il piano inclinato” Prodi denuncia senza infingimenti i mali del nostro Paese, a partire dalla criminalità e dall’evasione fiscale, e i diversi aspetti di arretratezza nei confronti di altri paesi occidentali e non. Mali che potrebbero far scendere il nostro Paese ancora più in basso.
Nel mio excursus sul tema della disuguaglianza ho sinora esaminato le analisi e le proposte di diversi economisti (Piketty, Deaton, Stiglitz, Atkinson) non direttamente impegnati in ruoli politici. Questa volta proporrò l’esame delle idee di Romano Prodi, che oltre ad essere un economista di vaglia, ha ricoperto importanti incarichi politici nazionali e internazionali, come Presidente del Consiglio italiano e Presidente della Commissione Europea.
L’occasione è la pubblicazione di un suo denso libro-intervista dal titolo significativo: “Il piano inclinato” (Il Mulino, 2017, p. 160). Significativo, perché Prodi denuncia senza infingimenti i mali del nostro Paese, a partire dalla criminalità e dall’evasione fiscale, e i diversi aspetti di arretratezza nei confronti di altri paesi occidentali e non. Mali che potrebbero far scendere il nostro Paese ancora più in basso.
Così come Atkinson ha proposto un nuovo welfare adeguato al nuovo millennio per il Regno Unito, con uno sguardo ai cambiamenti globali, Prodi propone per l’Italia una via alla “crescita inclusiva”, anche in questo caso nel contesto dei cambiamenti epocali relativi al mondo intero. Ha tutti i numeri per farlo, come emerge fin dalla prima lettura: il suo impegno politico, quello per le ricerche sulle attività produttive (fin dalle origini, come fondatore di Prometeia), nell’insegnamento e nella consulenza a livello globale, soprattutto in Cina e in Africa, ne fanno infatti un raro conoscitore a tutto tondo dei cambiamenti in corso nel pianeta.
Nella sua analisi parte dai due grandi problemi economici degli ultimi decenni: la disuguaglianza crescente e il mancato sviluppo. Nota come la disuguaglianza sia diminuita nel XX secolo come effetto di eventi epocali di natura contrapposta: da una parte quelli devastanti delle due guerre mondiali, dall’altra quelli positivi della diffusione dei sistemi di welfare. Prodi concorda con la tesi, ormai ampiamente condivisa, che la fine del progresso verso l’uguaglianza e l’inizio di una disuguaglianza crescente si collochi tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, con l’avvento dei governi Reagan negli USA e Thatcher nel Regno Unito, ispirati da economisti liberisti come Friedrich Von Hayek e Milton Friedman. Fu allora che, come contraccolpo a un eccesso di statalismo e pianificazione trasmessi a tutto il mondo dal modello sovietico allora in auge, e al suo fallimento segnato dalla crisi del petrolio del 1974, si sviluppò una visione taumaturgica del libero mercato. Al mito dell’economia pianificata si sostituì la convinzione altrettanto mitica che i mercati si regolassero da soli, che i ceti più ricchi coincidessero con i più produttivi, e che il favorire una corsa senza freni all’arricchimento personale avrebbe portato un maggiore sviluppo economico per tutti. Questo tsunami liberista è stato così pervasivo da alimentare una vasta e piuttosto angosciosa letteratura (i romanzi di Don De Lillo, Adam Hashlett, Nassim Taleb) e una filmografia popolare (a partire da Wall Street di Oliver Stone).
Nelle teorie economiche dominanti il problema della disuguaglianza era considerato un corpo estraneo. Contava solo lo sviluppo, supposto come vantaggioso per tutti (“Se il livello dell’acqua sale, tutte le barche si alzano”). Addirittura, le iniziative dirette a ridurre le disuguaglianze erano considerate come un freno allo sviluppo. Solo dopo avere perseguito la crescita si poteva parlare eventualmente di riduzione delle disuguaglianze.
Ma “Oggi”, rileva Prodi, “finalmente, una parte sempre più influente della comunità scientifica (compresi numerosi premi Nobel) sta mettendo in chiaro come non solo le disuguaglianze si possano attenuare senza un rallentamento della crescita, ma anche il senso di insicurezza per il futuro e il freno allo sviluppo siano sempre più la conseguenza di una crescente disuguaglianza. E come i redditi più elevati si indirizzino con sempre maggiore frequenza non verso gli investimenti produttivi, ma verso la speculazione finanziaria”. Ridurre le disuguaglianze, investire nei beni comuni, sostenere i redditi dei ceti medi e inferiori, combattere la povertà, lungi dall’essere in contrasto con la crescita ne diventa una delle condizioni.
Ma il cambiamento attuale e futuro non dipende solo dalla finanziarizzazione dell’economia. Alla domanda “Perché si è interrotta la crescita nei paesi più ricchi?” Prodi risponde: “Tecnologia, globalizzazione e finanza: da un loro perverso intreccio nasce l’insicurezza della nostra società. La perversione non deriva da un processo spontaneo e fatale, ma dal fatto che le scelte politiche non sono state in grado di gestire al meglio i nuovi grandi passaggi della storia umana”.
Il progresso tecnologico taglia i posti di lavoro tradizionali senza crearne a sufficienza di nuovi, a differenza delle precedenti rivoluzioni industriali (basta pensare alla diffusione delle ferrovie e dell’automobile). A sua volta la globalizzazione ha spinto le imprese dei paesi più progrediti a delocalizzare le produzioni verso i paesi arretrati a basso costo del lavoro, incidendo profondamente sull’occupazione e sulle retribuzioni dei primi. Se la crescita prorompente dei paesi emergenti ha ridotto le disuguaglianze globali, le ha però aumentate nei singoli paesi, soprattutto occidentali.
Di fronte a questi eventi epocali, Prodi sottolinea il fatto che per molti versi occorre operare a livelli internazionali e globali (di qui la necessità di una Unione Europea politicamente più consistente), ma che anche a livello nazionale, e in particolare italiano, è possibile e necessario agire.
Prende le mosse dalla famosa Tobin Tax, la proposta “avanzata dal premio Nobel dell’economia James Tobin, che già nel 1974 aveva lanciato l’idea di una tassa mondiale sulle transazioni finanziarie… con lo scopo (del tutto lungimirante) di frenare l’incontrollata espansione di un altrettanto incontrollato dominio della finanza. Nella mente del proponente i proventi di tale tassa avrebbero potuto essere impiegati nella lotta contro la povertà”. Secondo Prodi “non se n’è fatto nulla semplicemente perché una misura di questo tipo o è condivisa a livello mondiale o finisce per creare distorsioni ancora peggiori”. Occorre però osservare che secondo altri economisti, come Piketty, se i paesi economicamente più importanti raggiungessero un accordo, costringerebbero gli altri ad adeguarsi. Purtroppo, tra quei paesi ce ne sono alcuni (a partire dal Regno Unito) drogati dalla finanza, che occorrerebbe disintossicare! E occorrerebbe sconfiggere gli spacciatori, i “poteri oscuri” della finanza, che condizionano le scelte politiche dei paesi più ricchi.
Prodi condivide la tesi, che sta riprendendo quota, della necessità di restituire una maggiore progressività alle imposte e di tassare i patrimoni. “La Banca d’Italia”, osserva Prodi, “ha stimato che la quota di ricchezza netta delle famiglie ricevuta in eredità o donazione si attesta tra il 30 e il 55% della ricchezza totale delle famiglie. E’ sempre più vero che ricchi non si diventa ma si nasce”. E propone: “Per contrastare la diffusa ostilità dell’opinione pubblica all’imposta di successione potrebbe essere utile dichiarare in modo esplicito che i maggiori introiti sarebbero destinati a potenziare lo strumento che più di ogni altro combatte la disuguaglianza, cioè l’istruzione e la formazione”. Comunque, "una redistribuzione del reddito più equa a favore della classe media e delle componenti più povere della popolazione” consentirebbe di rilanciare la domanda interna e quindi la crescita. In questo quadro dovrebbe prevedersi anche una “imposta negativa”, cioè una integrazione del reddito dei più poveri, per portarlo a un livello adeguato ai diritti dell'uomo.
Ma la proposta di Prodi, come del resto quelle di Stiglitz o di Atkinson, non si limita all’aspetto fiscale, che interviene come un correttivo solo dopo il verificarsi delle disuguaglianze. E’ una strategia organica, un sistema di interventi relativi al sistema fiscale, del welfare, dei consumi dei ceti medi e meno abbienti, del contrasto alla povertà.
Prodi propone per l’Italia una “crescita inclusiva”, basata su due capisaldi: una politica industriale e del lavoro di vasta portata e una sviluppo del capitale umano basato sull’istruzione.
Anche se per il futuro del nostro Paese si dà giustamente un grande peso all’attrattività dei beni culturali e ambientali e al settore agroalimentare, si dimentica spesso che l’Italia è uno dei paesi più forti nel settore manifatturiero, e compete con successo con USA, Germania, Giappone in comparti molti sofisticati come la robotica e le macchine utensili. Prodi auspica che la percentuale del PIL proveniente dalle attività industriali sul totale torni al 20%, dal 15% a cui si è ridotta. L’innovazione (Tecnoliogie dell'informazione, nanotecnologie, materiali e lavorazioni avanzati, biotecnologie) dovrebbe essere sostenuta da “una rete di strutture di ricerca” al servizio delle imprese. Occorrerebbe inoltre una politica di forte sostegno alle nuove imprese (startup), fonti di innovazione e di occupazione. La politica industriale dovrebbe coinvolgere tutti i protagonisti, dallo stato agli imprenditori ai lavoratori, in un impegno comune per l’aumento della produttività. A questo scopo immagina l’utilizzo di un CNEL (Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro) riformato. Questo organismo, considerato sinora e a ragione inutile tanto da prevederne l’abolizione nella riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre scorso, torna in auge in una veste diversa, al punto che Atkinson propone un ente simile per il Regno Unito. Non si tratta, dice Prodi, di un ritorno al dirigismo del passato, ma di uno strumento di coordinamento di comportamenti oggi casuali e spesso contraddittori, inefficaci o addirittura controproducenti.
Per l’istruzione, Prodi insiste nella sua visione che privilegia la formazione tecnica, sul modello tedesco, ed afferma: “L’investimento in istruzione moltiplica l’effetto redistribuivo, da un lato agendo come strumento di contrasto alla concentrazione di ricchezza e di riattivazione della mobilità sociale, dall’altro incidendo sulla componente formativa che più di ogni altra è in grado di segnare i percorsi di lavoro e di vita”.
Queste due leve (politica industriale e istruzione) non potranno che agire sul lungo termine. Per il breve termine, Prodi propone un insieme di interventi sui beni comuni, come il territorio, l’ambiente, i beni culturali (particolarmente importanti anche per il recupero del sud del Paese). E, sempre per l’immediato, Prodi ritiene essenziale la riorganizzazione del sistema del welfare e del lavoro, per adeguarlo alle esigenze epocali della mobilità, delle migrazioni, della povertà.
Ma soprattutto Prodi attribuisce una grande importanza alle molteplici attività solidaristiche che caratterizzano il nostro Paese, e che a suo parere e conoscenza costituiscono, tra i tanti punti di debolezza , un punto di forza di grande potenza e rilievo anche economico. Egli afferma infatti che “L’associazionismo spontaneo, il volontariato, il terzo settore hanno negli anni fatto del nostro Paese la nazione con la rete di non profit più radicate al mondo, sostenendo la coesione sociale e il senso di cittadinanza”. In questo quadro si inserisce l’auspicio di un rilancio del servizio civile “per progetti che abbiano come finalità la solidarietà sociale, l’assistenza, le pari opportunità, la valorizzazione e la tutela del patrimonio ambientale, artistico e culturale e, infine la ‘ricucitura’ delle periferie”. Il servizio civile potrebbe inoltre contrastare il fenomeno dei NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Prodi è inoltre favorevole a un reddito minimo che sostituisca e integri le varie forme di assistenza alla povertà, che però deve essere “accompagnato da un progetto di vita… da un impegno reciproco tra istituzione e cittadino… in varie forme di collaborazione attiva del beneficiario”. Forse il progetto prodiano non dedica sufficiente attenzione al problema dell’immigrazione, al cui proposito dichiara di non averne “parlato in modo separato perché la condizione di immigrato si inserisce, anche se con una accentuata drammaticità, nel grande elenco delle disuguaglianze di cui abbiamo parlato”.
Prodi calcola puntualmente i costi (ma anche i risparmi) degli interventi proposti, per configurare una strategia che rispetti i vincoli finanziari.
Ma per invertire lo squilibrio del “piano inclinato”, Prodi auspica anche un profondo rinnovamento strutturale dei comportamenti sociali, sia nel settore pubblico che in quello privato: dal contrasto al burocratismo imperante nella Pubblica Amministrazione e nella magistratura, al cambiamento della visione gretta di molti imprenditori, che invece di reinvestire gli utili nella crescita della propria azienda li mettono al sicuro, ricorrendo eccessivamente al credito. Prodi auspica che si diffonda l’esempio delle imprese più lungimiranti, il cui successo deriva dall’aver capito che non conviene fare solo gl’interessi immediati degli azionisti (della proprietà), ma anche quelli degli altri “stakeholder” (i clienti, i lavoratori, l’ambiente).
Con questo libro Prodi offre alla frammentata e autolesionista sinistra italiana una visione e una strategia chiara, organica e matura, su cui discutere in modo tollerante delle possibili divergenze attuative, ma accettando poi le decisioni di chi è alla guida. Parafrasando lo slogan di una pubblicità corrente, si potrebbe dire ai litigiosi contendenti : “Non avete più scuse”!