«Come la priorità del settore della sanità non è quella di fornire agli altri settori dei lavoratori in buona salute, così la priorità del settore della formazione non è quella di preparare a svolgere un mestiere negli altri settori. In tutte le società umane, la salute e l’educazione hanno un valore in sé: riuscire a trascorrere la propria vita in buona salute e ad accedere alla conoscenza e alla cultura scientifica e artistica sono gli obiettivi stessi della civiltà.»
Sono un lettore lento e poco resistente: dopo mezz’ora della lettura più coinvolgente, ho bisogno di una interruzione (magari con uno spuntino). Dopo di che riprendo a leggere con rinnovato interesse e chiarezza di idee.
Per questo, preso in prestito in biblioteca “Il Capitale nel XXI Secolo” di Thomas Piketty (Bompiani, 2014) e constatato che si trattava di 800 pagine, ne ho letto l’introduzione e la brevissima conclusione, convinto del fatto che l’avrei riconsegnato subito.
Ma poi ho cominciato a leggere il primo capitolo. Allora sì, ho riconsegnato il libro, ma ho scaricato da Amazon l’e-book (costo: 8,99 euro), e l’ho letto tutto. Potendo fare ciò che non si può con un libro in prestito: evidenziare, annotare, prendere appunti a fine testo. E senza il peso di 800 pagine!
Il libro è una lezione di economia per gli studenti del primo anno di università, un racconto storico e un saggio impegnato di politica economica. Francese. Piacevolissimo. Il suo obiettivo: ripercorrere le disuguaglianze del capitale e del reddito dal settecento fino ad oggi, tendenzialmente a livello globale, e proporre il che fare per ridurle.
Il capitale è il patrimonio che ciascuno di noi ha (o non ha): le ville o l’appartamento, le azioni o i titoli di stato, i libretti di risparmio o i soldi sotto il materasso, la barca o l’utilitaria, detratti i debiti. Ma la distinzione principale su cui Piketty si sofferma è quella tra il capitale ereditato e quello accumulato nel corso della vita con il lavoro (o non facendo nulla!).
Ma la distinzione principale su cui Piketty si sofferma è quella tra il capitale ereditato e quello accumulato nel corso della vita con il lavoro (o non facendo nulla!).
Il reddito è il reddito. E anche questo, può essere frutto di lavoro (da quello di un operaio a quello di un amministratore delegato) o di una rendita.
E’ chiaro che tra capitale e reddito i rapporti sono molto stretti. E’ interessante, ad esempio, sapere a quanti anni di reddito il capitale posseduto corrisponde in una certa epoca. Oggi nei paesi benestanti si aggira in media su 6 annualità. Un bel po’. Ma chi lo detiene?
E qui emergono le disuguaglianze, che nel corso delle generazioni ci sono sempre state, ma con importanti cambiamenti.
Piketty divide la popolazione in quattro categorie: l’1% ricchissimo, il 10% più ricco, il 40% proprietario di un patrimonio di medio livello, e il 50% dei meno abbienti. Soffermandoci sul 10% più ricco, risulta che nel 1810 (duecento anni fa), in Europa, questa fascia ristretta di popolazione possedeva oltre l’80% della ricchezza (contro poco meno del 60% negli Stati Uniti, allora abitato da pionieri), Cento anni dopo (1910), al culmine della Belle Epoque, alla vigilia della prima guerra mondiale, questa quota era salita al 90% (negli USA oltre l’80%). Oggi (2010) è al 70% (USA 65%), in risalita rispetto al 1970, anno in cui la quota di ricchezza detenuta dai più ricchi aveva toccato il minimo.
E nel settecento? secondo Piketty, era più o meno allo stesso livello dell’ottocento. “La Rivoluzione francese ha avuto un impatto molto debole sul rapporto capitale/reddito... e penso che si possa dire la stessa cosa per la ripartizione del capitale” (posizione 8092 dell’e-book).
Quindi, la distribuzione della ricchezza ha conosciuto nel corso del XX secolo una tendenza a una maggiore equità.
La riduzione delle disuguaglianze verificatasi tra le due guerre mondiali e proseguita fino al 1970 è dovuta a diverse cause concomitanti. Da una parte eventi drammatici, come le distruzioni belliche, l’inflazione (cose che evidentemente non fanno bene neanche ai detentori di capitali, specie se ereditati), e la crisi del ’29. Ma dall’altra l’azione positiva delle istituzioni, soprattutto con la diffusione dell’istruzione e la realizzazione di riforme sociali finalizzate ad assicurare a tutti i cittadini servizi fondamentali (sanità, scuola, pensioni, abitazioni). Nello stesso periodo, anche le disuguaglianze in termini di reddito sono diminuite, frutto dell’azione sindacale e di interventi pubblici (Imposta progressiva sul reddito, salario minimo).
Ma come si è articolata questa riduzione delle disuguaglianze? i dati dimostrano che essa non è andata a vantaggio di tutta la popolazione al di sotto del 10% più ricco. Essa ha favorito soprattutto quel 40% dotato di una ricchezza (e di un reddito) di livello medio.
Ciò che più colpisce”, Piketty e noi stessi, “è che la metà più povera della popolazione non possiede quasi nulla: il 50% più indigente possiede sempre meno del 10% del patrimonio nazionale, in genere meno del 5% (p. 5927)... per metà della popolazione la nozione stessa dii patrimonio e di capitale rimane una nozione in gran parte astratta... per milioni di persone il patrimonio si riduce, più o meno, a poche settimane di salario” (p.5972) contro i 4-6 anni in media di reddito dei paesi più progrediti.
Piketty fa molti esempi, che portano il lettore a passare agevolmente dalla macro alla microeconomia. Viene infatti da chiedersi: quanto ho messo da parte e a quanto ammonta il mio reddito annuale? Se non altro per la curiosità di sapere se rientro nella massa dei poveri, nell’empireo dei ricchi o tra i i così così. Ovviamente, io rientro tra i così così.
Come ha fatto Piketty a raccogliere i dati del sette-ottocento, quando non c’erano le serie statistiche tuttora peraltro ancora scarse a livello mondiale? Con il metodo di Agatha Christie. Cioè, in mancanza di prove, mettendo insieme e incrociando una massa enorme di indizi. A questo sono servite le 800 pagine del libro, e la documentazione di un “allegato tecnico” non incluso nel testo.
(En passant: siccome una fonte preziosa di informazioni sui patrimoni e sulle rendite di ricchi e poveri nell’ottocento è stato il romanzo di Honoré de Balzac “Papà Goriot”, con mia moglie abbiamo passato le serate a leggerlo: il bello dell’ignoranza è che si scoprono sempre dei tesori!).
Piketty ci dice due cose, all’apparenza contrastanti: da una parte che la disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze è qualcosa di inesorabile, che pur variando nel corso delle generazioni, c’è sempre stata, c’è ancora e dal 1970 ha ripreso ad allargarsi. Dall’altra, che le istituzioni ai diversi livelli possono e debbono agire per contrastarla, come è avvenuto nella parte centrale del secolo scorso.
La causa dell’aumento della disuguaglianza è data da quella che Piketty chiama “la contraddizione di fondo del capitalismo”: il fatto che “il tasso di rendimento privato del capitale può essere molto e per molto tempo superiore al tasso di crescita del reddito e del prodotto”.
La causa dell’aumento della disuguaglianza è data da quella che Piketty chiama “la contraddizione di fondo del capitalismo” (p. 14624): il fatto che “il tasso di rendimento privato del capitale può essere molto e per molto tempo superiore al tasso di crescita del reddito e del prodotto”. In parole povere, se il famoso PIL (prodotto interno lordo) cresce dell’1%, mentre chi detiene un patrimonio consistente e diversificato (non certo i soliti BOT) ricava un interesse del 4-5% (e se il patrimonio è altissimo, può arrivare al 5-10%), la disuguaglianza tende a crescere all’infinito.
Per fare un esempio concreto: se a una persona si presenta al giorno d’oggi l’alternativa tra l’investire le proprie risorse economiche e umane in una attività impegnativa di studio e di lavoro (ad esempio avviando un’impresa), con la prospettiva di un reddito rischioso e limitato, e il destinare le stesse risorse in operazioni finanziarie, meno rischiose, poco faticose e più redditizie, è molto probabile che sceglierà la seconda alternativa. Una alternativa non molto diversa da quella dei tempi di Balzac, tra l’intraprendere una faticosa attività di studio e di lavoro destinata a procurare una posizione rispettabile ma non eccezionale, e l’impalmare una ricca ereditiera.
Oltre che le disuguaglianze patrimoniali, Il libro esamina a fondo anche le disuguaglianze in termini di reddito, il cui andamento non differisce molto da quello delle ricchezze possedute dalle diverse fasce della popolazione. In particolare, egli rileva che quando i redditi da capitale (finanziari) sopravanzano quelli da lavoro, lo sviluppo declina e le disuguaglianze aumentano.
Esaminando i redditi da lavoro del 10% e del’1% della popolazione (quelli stratosferici dei top manager), l’autore mette in dubbio la correlazione di questi compensi con il merito, scarsamente accertabile. Quanto alle fasce dei meno abbienti, esprime un parere favorevole sulla fissazione d’autorità di un salario minimo,osservando che la sua introduzione e le sue variazioni nel tempo hanno svolto “un ruolo essenziale” nel contenimento delle disuguaglianze (p.7256).
Dopo il 1970, politiche orientate all’eliminazione di ogni vincolo alla dinamica dei mercati, soprattutto finanziari, nei paesi ricchi come gli USA e la Gran Bretagna, ma anche in Italia, e addirittura nei paesi dove lo statalismo di stampo comunista aveva fallito (Russia, Cina), hanno invertito la tendenza verso una maggiore eguaglianza verificatasi nel cuore del novecento, facendo sì che la forbice tra privilegiati e meno abbienti si riaprisse.
Sono i tempi che hanno portato al potere, negli anni ‘80, Ronald Reagan in USA, Margaret Thatcher in Gran Bretagna, e anche Bettino Craxi in Italia (con il triste seguito berlusconiamo). Sono i tempi del crollo dell’economia pianificata dell’URSS seguita a quello del muro di Berlino, e del compromesso del comunismo cinese con il capitalismo.
Se queste vicende plurisecolari dimostrano l’esistenza di una tendenza universale alla disuguaglianza (del capitalismo, ma anche, probabilmente, di altri sistemi economici, per i quali non si dispone di adeguate conoscenze), le vicende del ‘900 dimostrano a loro volta che questa tendenza può essere combattuta.
Secondo Piketty, nel XXI secolo l’obiettivo della riduzione delle disuguaglianze può essere raggiunto istituendo “una imposta progressiva sul capitale prelevata a livello mondiale (o quantomeno a livello di aree economiche regionali sufficientemente importanti, come l’Europa e l’America del Nord)” (p.10533), sia pure accompagnata da altre misure fiscali, come l’imposta progressiva sui redditi introdotta, superando violente opposizioni, circa un secolo fa. Secondo l’autore l’imposta progressiva sul reddito ha costituito, insieme allo stato sociale, una delle “due istituzioni fondamentali inventate nel XX secolo e destinate a svolgere un ruolo cruciale nel futuro” (p. 12821).
“L’obiettivo”, specifica Piketty, “deve essere un’imposta annua e progressiva prelevata sul capitale a livello individuale, ossia sul valore netto degli attivi di cui ciascuno ha il controllo” (p.12847). E aggiunge: “Il compito principale dell’imposta sul capitale non è tanto quello di finanziare lo Stato sociale, quanto di regolare il capitalismo” (p.12908).
Il nostro autore è ben consapevole della natura utopica, allo stato attuale, della proposta (la definisce “Una utopia utile” (p. 12847). Ma ritiene che se i paesi ricchi procedessero in questa direzione, si potrebbe avviare il processo dell’adozione a livello globale di questo tipo di imposizione.
Come ho detto, Piketty è stato costretto, per la scarsità d’informazioni sia sulle vicende economiche del passato più lontane nel tempo, sia su quelle del resto del mondo rispetto ai paesi più progrediti, a lavorare molto sugli “indizi” (i romanzi di de Balzac e di Jane Austen ne sono un esempio). Ma proprio per questo è continuo il suo auspicio a che la ricerca possa disporre di conoscenze più solide. In particolare, ritiene necessario che “l’imposta mondiale e progressiva sul capitale sia accompagnata da un altissimo grado di trasparenza finanziaria internazionale (p. 12821).
Comunque, a suo parere, queste conoscenze nei paesi più progrediti sono già a un livello tale da consentire di adottare una imposta progressiva sul capitale sulla parte più consistente dell’economia mondiale. Del resto, osserva, si tratta di perfezionare ed estendere forme diverse di imposte sul capitale che sono già in atto.
(Recentemente, oltre ad aver sdrammatizzato e quasi auspicato la prospettiva di una vittoria elettorale della sinistra di Syriza in Grecia, Piketty ha proposto un’azione congiunta delle sinistre europee per “un accentramento presso l’UE di politiche di base per uno sviluppo comune a partire da quella fiscale, riorientando quest’ultima verso la tassazione delle maggiori rendite personali e industriali” (la Repubblica, 31/12714, p.15). E recentissimamente, Obama sembra aver fatto proprio, nel discorso sullo “Stato dell’Unione, le indicazioni di Piketty, proponendo un aumento della tassa sugli aumenti di valore dei capitali (capital gain) e un maggior rigore nell’imposizione della tassa sulle successioni. Infine, sembra che il come far fronte all’aumento delle disuguaglianze stia finalmente salendo ai primi posti nelle agende dei consessi economici internazionali, come quello in corso a Davos).
Non è mia intenzione imbarcarmi in una critica sul metodo scientifico e sulla accettabilità delle conclusioni de “Il capitale nel XXI secolo”. Lascio questo compito agli economisti di professione. Ai quali peraltro Piketty rimprovera l’esasperazione modellistica, che porta a suo parere spesso a risultati scarsamente realistici, e soprattutto lo specialismo, che separa l’economia dalle altre scienze sociali e dalla storia, con le quali, egli sostiene, è indissolubilmente legata. Per questo dichiara di preferire la politica economica all’economia come scienza a sé.
Forse i suoi studi potrebbero in futuro puntare su una maggiore analisi delle condizioni del 50% della popolazione che possiede poco o nulla e spesso ha redditi che, come si dice oggi, non consentono di arrivare a fine mese. Per verificare in che misura la disuguaglianza, in sé inevitabile e non priva di aspetti positivi, si traduce in povertà e alla fine nella perdita della libertà “sostanziale” di una persona, come direbbe Amartya Sen.
Essendomi occupato tempo fa del problema degli orari di lavoro e dello squilibrio assurdo tra chi è costretto a lavorare ancora oggi 40 ore alla settimana, nonostante le innovazioni tecnologiche applicate ai processi produttivi, e chi viene espulso dal mercato del lavoro a causa delle stesse innovazioni, ho cercato nel testo di Piketty eventuali accenni al “lavorare meno, lavorare tutti”. Nessun riferimento. Ma implicito in quest’ultima citazione, e che mi piace riportare per esteso:
“Come la priorità del settore della sanità non è quella di fornire agli altri settori dei lavoratori in buona salute, così la priorità del settore della formazione non è quella di preparare a svolgere un mestiere negli altri settori. In tutte le società umane, la salute e l’educazione hanno un valore in sé: riuscire a trascorrere la propria vita in buona salute e ad accedere alla conoscenza e alla cultura scientifica e artistica sono gli obiettivi stessi della civiltà. Non è proibito immaginare una società ideale in cui tutte le altre mansioni siano quasi completamente automatizzate e in cui ciascuno possa dedicarsi quasi a tempo pieno all’educazione, alla cultura e alla salute, sue e degli altri, una società in cui ciascuno sia l’insegnante, lo scrittore, l’attore, il dottore di qualcun altro... si tratta di una strada in qualche misura già tracciata: la crescita moderna si qualifica per uno sviluppo notevole della componente delle attività educative, culturali e mediche nel totale complessivo della ricchezza prodotta e nella struttura dell’impiego” (p. 7227).