In “La grande frattura” aleggia un quesito: se i gruppi dominanti hanno il potere di perpetuare ed accrescere la propria ricchezza a danno degli altri, com’è possibile rompere questo circolo vizioso?
Nel suo ultimo libro (La grande frattura, Einaudi, 2016) Joseph E. Stiglitz raccoglie gli articoli scritti nel corso di diversi anni a scopo divulgativo e, commentandoli estesamente, ci consente di comprendere pienamente il suo pensiero.
Stiglitz è stato insignito del Premio Nobel di economia nel 2001 per le sue ricerche sulle asimmetrie nell’informazione economica, ma è assurto a grande notorietà presso milioni di non esperti con un articolo pubblicato nel 2011 sulla rivista Vanity Fair, dal titolo “Dell’uno per cento, dall’uno per cento, per l’uno per cento”.L’articolo cominciava così: “Oggi, il primo uno per cento degli americani si porta a casa ogni anno quasi un quarto del reddito della nazione. In termini non di reddito, ma di ricchezza economica del paese, il primo uno per cento ne controlla il 40 per cento... Venticinque anni fa, i numeri di quei rapporti erano 12 e 33”. Il che significa che se il reddito e la ricchezza complessivi degli USA sono aumentati nel corso degli ultimi anni, chi se ne è avvantaggiato sono solo i più ricchi, mentre tutti gli altri sono diventati più poveri. Le cause di tutto ciò: il trattamento fiscale preferenziale per le classi alte, l’aumento del potere monopolistico delle grandi aziende e una crescente finanziarizzazione dell’economia.
Questi dati hanno alimentato le manifestazioni del 2011 all’insegna degli slogan Occupy Wall Street e Siamo il 99 per cento, esplose contemporaneamente in decine di città del mondo, a partire da quella del Parco Zuccotti di New York
Del resto, già all'inizio del millennio il movimento no-global, divampato a Seattle come a Genova, si ispirava alle idee di Stiglitz sugli aspetti negativi della globalizzazione (il quale però contemporaneamente pubblicava un libro dal titolo La globalizzazione che funziona).
La tesi fondamentale di Stiglitz è che la crescita della disuguaglianza degli ultimi decenni non è nel DNA del capitalismo (sarebbe del resto facile dimostrare che, storicamente, la disuguaglianza non è legata solo al capitalismo). Non è un fatto naturale, è il risultato di precise scelte di politica economica. Politica che secondo la “teoria della produttività marginale” ritiene che chi possiede redditi più elevati ha una più elevata produttività e offre un maggior contributo alla collettività. E’ la concezione secondo cui, se il livello dell’acqua (del reddito) si alza, tutte le barche si alzano; o in altri termini quella del “thrickle down”, dello sgocciolamento, secondo cui se riempi la cisterna in alto l’acqua scenderà in basso a dissetare tutti quanti.
La concezione di Stiglitz è radicalmente opposta. Egli ritiene che, siccome i ceti alti tendono inevitabilmente a non spendere gli ingenti aumenti di ricchezza e ad accumularli in modo improduttivo, la disuguaglianza è destinata a frenare la crescita economica. Per promuoverla occorre invece fare il contrario: stimolare direttamente la domanda di prodotti e servizi da parte della maggior parte della popolazione, riducendo la disuguaglianza e mettendo in moto una sorta di “thrickle up”, di arricchimento partendo dai ceti meno abbienti (ho usato quest'ultima espressione in un mio precedente articolo per Vorrei, credendo di averla inventata io, ma vedo ora che era un thrickle down dalle idee di Stiglitz!).
È opinione diffusa che, se si vuole distribuire il prodotto in modo più equo e crescente per tutti, occorra prima produrlo, e porsi solo dopo il problema della sua distribuzione. Stiglitz rovescia il discorso: è proprio distribuendo in modo più equo il prodotto, riducendo la disuguaglianza, che si genera l’aumento della ricchezza per tutti.
Il libro è dedicato fondamentalmente alla realtà degli USA. Ma negli ultimi capitoli Stiglitz estende l’analisi a diversi paesi di diverse dimensioni, dalla Cina, al Giappone, all’Australia fino al caso esemplare delle Isole Mauritius, puntando a dimostrare che le politiche basate sulla domanda e sulla riduzione delle disuguaglianze ottengono performance economiche migliori rispetto al il modello dominante, promosso dal cosiddetto “Washington consent”.
Stiglitz richiama la semplice argomentazione di Piketty nel suo bestseller del 2013 dal titolo Il capitale nel XXI secolo, circa il meccanismo apparentemente inesorabile che determina la progressione dell'ineguaglianza: se l’incremento del reddito medio globale è di un certo livello (ad es. il 2 per cento), i ricchi, grazie alla propria posizione dominante e alla possibilità di retribuire competenze finanziarie superiori, possono superare anche di molto quella media, ottenendo il 5, o addirittura il 10 per cento di aumento del reddito. Quindi la media può anche aumentare, ma "mediando" un aumento spropositato delle rendite dei più ricchi con una perdita di potere d’acquisto di tutti gli altri. La trilussiana e un po’ qualunquistica riduzione della scienza statistica alla media dei due polli per due persone, delle quali una ne mangia due e l’altra nessuno, riceve in questo caso una oggettiva conferma.
Che fare allora concretamente per realizzare una politica che, facendo leva sulla domanda, realizzi contemporaneamente lo sviluppo e la riduzione delle disuguaglianze?
Piketty punta soprattutto su una politica fiscale universale, che partendo dai paesi più importanti imponga una imposta sui patrimoni, a integrazione delle conquiste del secolo scorso sul piano della progressività delle imposte e del welfare.
Stiglitz è forse eccessivamente scettico (per invidia?) su quella proposta (”La proposta di Piketty di un’imposta patrimoniale globale è politicamente fallita in partenza, qualunque cosa se ne pensi”, p. 132), anche perché poi la ripropone in altre forme, come ad es. la tassazione degli incrementi di capitale. Egli ritiene comunque giustamente che la politica fiscale sia solo una parte di una politica economica complessiva, che deve combattere la disuguaglianza e il suo continuo incremento già “prima” delle imposte: leggi antitrust, priorità degli investimenti e spese per l’istruzione, regole e vincoli per le attività bancarie, limiti alle retribuzioni dei vertici aziendali, limiti restrittivi per le spese per le campagne elettorali, salario minimo (che a mio parere, essendo ormai il mercato del lavoro globale, come osserva lo stesso Stiglitz, dovrebbe essere collegato ad orari che evitino lo sfruttamento e rendano possibile la libertà sostanziale dei lavoratori).
La stessa politica fiscale non serve solo per raccogliere denaro e per una generica redistribuzione, ma per favorire le attività positive (come le fonti di energia rinnovabili) e contrastare quelle negative (come la finanza speculativa, o quelle che generano l’aumento del riscaldamento globale). Si potrebbe riassumere la proposta di Stiglitz riprendendo lo slogan “più mercato e più stato”: più mercato per combattere monopoli e posizioni di rendita, più stato per accrescere il potere d’acquisto dei ceti meno abbienti e creare un clima di maggiore sicurezza e fiducia nel sistema non solo economico, ma anche sociopolitico.
Su tutto lo scritto di Stiglitz aleggia tuttavia il quesito: se i gruppi dominanti hanno il potere di perpetuare ed accrescere la propria ricchezza a danno degli altri, rafforzando in tal modo anche il loro potere, com’è possibile rompere questo circolo vizioso tra ricchezza e potere? Come contrastare concretamente e con successo il potere dell’uno per cento? Questo potere sembra inesorabile, imbattibile, per i mezzi che può dispiegare per difendere e accrescere i propri privilegi, la propria ricchezza, se stesso.
Nel corso della lettura non mi sembrava che Stiglitz desse indicazioni in proposito, se non quella implicita nella sua tesi della convenienza per tutti, al limite anche dell’uno per cento, in termini di benessere e di sicurezza, di una politica economica basata sul perseguimento di una maggiore uguaglianza.
Da parte mia, una risposta al quesito la derivavo dal mio orientamento politico, che all’italiana definisco “ulivista”, o “prodiano”, favorevole a una sinistra, vera, che però guardi al centro. Ma non la trovavo, questa risposta, nel libro.
Fino alle ultime pagine, dove è riportata l’intervista concessa a Cullen Murphy su Vanity Fair nel 2012. Inaspettatamente, proprio nell’ultima pagina del libro, come in un classico libro giallo, si scopre non il colpevole, bensì il possibile alleato nella guerra contro la disuguaglianza: Warren Buffett, finanziere, secondo uomo più ricco della terra, sostenitore di tasse più alte per i ricchi e compensi più bassi per i manager, e solo se meritevoli. E addirittura il “pentito” George Soros, a cui a suo tempo furono addebitate crisi monetarie globali, tra cui quella della sterlina e della lira, è indicato da Stiglitz tra i possibili (e discutibili) “patriotic billionaires”!
Come dire: per vincere la guerra le truppe hanno bisogno anche della cavalleria. Più semplicemente: basterebbe che la metà più debole del 99 per cento stabilisse alleanze con una minoranza dell’altra metà, compreso qualcuno dell’uno per cento, per cambiare il mondo.