Analizziamo uno per uno i mantra che dovrebbero spiegare l’attuale momento economico.
Le cause delle crisi non sono quelle che vanno per la maggiore.
Quando si atterra in ambito economico si ascolta più o meno la solita solfa: la crisi è responsabilità del debito pubblico abnorme, della corruzione e dell’evasione fiscale che devasta il Paese, della scarsa produttività del sistema Italia che, insieme, hanno prodotto una spirale al ribasso. Ok, la ricostruzione ha una sua forza persuasiva ma i dati cosa dicono? Siamo proprio sicuri che sia un problema di corruzionecastacriccadebitopubblicofancazzismonazionalemenomalecheleurocihadifeso? Proviamo ad analizzare e verificare le singole tesi mainstream.
IL PROBLEMA È IL DEBITO PUBBLICO
Toh, e come mai la crisi è scoppiata proprio quando i debiti pubblici (italiano e non) erano da qualche anno in fase di contrazione o stabilità? E come mai le difficoltà economiche non si sono fatte sentire in maniera così acuta in Giappone (dal 183% del rapporto debito/pil nel 2007, anno pre-crisi, al 243% del 2013; avete letto bene: 243% contro il 175,7% dei malcapitati greci)? E come mai gli Stati Uniti continuano a crescere nonostante il loro debito pubblico si faccia preoccupante (preoccupante se usiamo parametri europei, ovvio), passando al 64,4% del 2007 all’attuale 107%? [fonte dei dati è il Fondo Monetario Internazionale]
Se l’attuale crisi fosse originata da un problema di eccessivo debito pubblico, il Giappone dovrebbe essere morto e gli Stati Uniti in fase di pre-collasso. Invece, ricordando gli avvenimenti storici, le prime economie europee a saltare non sono state quelle più indebitate per quanto riguarda la parte pubblica (Italia, Grecia, Belgio, rispettivamente al 103%, 107% e 84% di debito/pil sei anni fa) ma due di quelle con meno problemi come Irlanda (24,9% di debito/pil nel 2007) e Spagna (36,3%). Perchè? Evidentemente perchè il problema scatenante non è il debito pubblico ma quello privato (ricordate? i mutui irlandesi, la bolla edilizia spagnola che sono i primi sintomi della crisi). Ad esempio, vediamo cosa accade al saldo delle partite correnti (ossia la registrazione delle transazioni internazionali in merci e servizi, redditi e trasferimenti unilaterali correnti. [citiamo da wikipedia: i crediti riportano le entrate rivenienti da esportazioni di beni e servizi, nonché da prestazioni dei fattori produttivi (lavoro di residenti, capitale di proprietà di residenti) utilizzate da altri paesi; i debiti riportano le uscite per importazioni di beni e servizi e per prestazioni di fattori produttivi non residenti].
Il secondo grafico è tratto da http://www.linksicilia.it/2013/04/alla-ricerca-del-cambio-perduto-ottava-parte-chi-vince-germania-e-chi-perde-nati-non-fummo-per-essere-piigs/ ed è basato sulle serie storiche del Fondo Monetario Internazionale. Come vedete, c’è un solo paese in avanzo strutturale e tale avanzo (se riportato a valori assoluti da quelli percentuali qui espressi) è così grande da contenere i disavanzi di tutti i PIIGS. Insomma il cambio fisso e forte dell’euro rende in alcuni paesi più convenienti i beni di importazione. Allo stesso modo, l’euro risulta essere sottovalutato per alcuni paesi, che si ritrovano con una fantastica arma di export. Non solo: questi paesi accumulano così tanto surplus che possono investire/prestare soldi a più non posso proprio ai potenziali clienti delle loro merci (e infatti le banche tedesche erano stra-esposte in Grecia e Spagna, per dirne una).
In un sistema di cambi fissi come quello dell’euro, quindi senza la possibilità che il tasso di cambio si deprezzi o apprezzi in virtù di tanto import vs tanto export, ai paesi in disavanzo non resta che una sola strada per recuperare competitività e riequilibrare i conti: comprimi i costi interni ossia diminuisci i salari (di solito tramite tassazione o non rinegoziando i contratti nazionali o precarizzando). Si attiva questa dinamica: meno soldi per i cittadini, meno acquisti (dei quali una parte sono le relativamente convenienti importazioni), aziende nazionali “costrette” a rivolgersi a mercati esteri più liquidi perchè i cittadini del proprio paese hanno meno soldi in tasca, miglioramento del saldo delle partite correnti. Ma con una conseguenza spiacevole: peggiora il debito pubblico perchè diminuisce la base imponibile ed entrano meno soldi dalle tasse pur con tutti gli sforzi di spremere il limone in un periodo di vacche magre. Ed ecco che la crisi diventa crisi di debito pubblico, ma solo in ultima istanza, perchè l’origine del problema è nettamente di parte privata. Del resto Monti lo aveva spiegato in maniera chiarissima in una intervista alla CNN del 20 maggio 2012:
Ah, per inciso che il problema sia originato dal debito privato lo ha affermato anche Vitor Constancio, vice presidente BCE, intervenuto il 23/05/2012 ad una conferenza ad Atene sul tema “The crisis in the euro area”. Qui il link per chi vuole approfondire.
IL PROBLEMA È LA CORRUZIONE E LA CASTA
Proviamo a usare la logica. Se il problema è la corruzione e la casta e poichè tutte le evidenze ci dicono che la corruzione e la casta c’erano pure 5, 10, 20 e 30 anni fa, come mai la parabola discendente degli indicatori economici e lo stato acuto di crisi si palesano solo a partire dal 1999 (i primi) e dal 2008 (la seconda)? Vuol dire che quel che stiamo economicamente vivendo non ha nulla a che vedere con corruzione e casta ma è direttamente legato ai processi di avvicinamento all’euro e alla sua strenua difesa. Sicuramente corruzione e casta incidono su elementi di equità, partecipazione e inclusione sociale, senso di appartenenza e rispetto per le istituzioni eccetera eccetera ma, a livello macro, non sono affatto causa della crisi.
Si dirà: ma se c’è tanta castacriccacorruzione i soldi vengono spesi male e aumenta il debito pubblico. Usiamo anche qui la logica: il debito di qualcuno è sempre il credito di qualcun altro. Per intenderci, il debito pubblico sono pagamenti di stipendi, pensioni, erogazioni di servizi, costruzione di opere. Vogliamo ridurre il debito pubblico? Ah sì? Bene, sia chiaro che non stiamo facendo altro che peggiorare la situazione di difficoltà dell’economia nel suo complesso facendo mancare risorse per adeguamenti di stipendio (che già abbiamo visto è volontà politica comprimere), tagliando posti di lavoro, riducendo i finanziamenti, non facendo partire cantieri. E, come i numeri attestano, tale approccio non serve poi nemmeno a ridurlo il debito pubblico, perchè alla fine dei giochi viene drasticamente meno il gettito fiscale preventivato (e torniamo al punto di cui sopra).
IL PROBLEMA È LA PRODUTTIVITÁ (ossia gli italiani sono fancazzisti)
La logica viene in soccorso anche in questo caso. Dicesi produttività, il rapporto tra la quantità di output e le quantità di uno o più input utilizzati nel processo di produzione, ad esempio quanti pezzi un operaio riesce a produrre in un’ora. Insomma, una questione di offerta per cui investendo x (in macchine, operai, software, ecc.) cerco di produrre quanto più possibile per abbassare i costi unitari per unità di prodotto. Scusate, ma se produco tante auto e poi non le vendo, me ne faccio qualcosa? Se sono in grado di preparare tanti panini siamo poi sicuri che automaticamente, per il solo fatto di averli prodotti eed esposti sul bancone, li venderò? Sì, avete dedotto bene: il problema non è l’offerta e dunque la produttività ma la domanda. Ossia: ci sono soldi per acquistare quel bene? Quel bene serve a qualcosa? Risponde ad un mio bisogno? Invece ci vogliono far credere che, siccome non produciamo abbastanza, abbiamo prodotti che costano di più, ergo dobbiamo abbassare i salari/lavorare di più con gli stessi soldi (come se il costo industriale di un bene fosse tutto o in maggioranza costo del lavoro, mentre di solito è una netta minoranza)... con la conseguenza finale che manca potere d’acquisto per comprarselo quel bene (ammesso che serva)... che le aziende produttrici si rivolgono all’export per bypassare gli stenti del mercato nazionale... che, con salari più bassi e contrazione dei consumi interni, viene a mancare gettito fiscale. E torniamo pure qui ai punti di cui sopra.
Per inciso, non pensiate che gli italiani (o i greci, a cui ne hanno dette di tutti i colori) siano fancazzisti. Questa la classifica delle ore lavorate in media da ogni occupato secondo l’OCSE nel 2012.
SE SVALUTIAMO, SAREMO TRAVOLTI DALL’INFLAZIONE
Anche questa affermazione dogmatica si dimostra falsa, se si prova a verificarla. Non è affatto vero che ad una svalutazione di x punti percentuali corrisponda un aumento di x punti di inflazione. Avete mai buttato un occhio ai cosiddetti coefficienti di pass-through? Probabilmente no, eppure sarebbe un esercizio interessante. Si tratta semplicemente dei coefficienti di trasferimento da svalutazione a inflazione. I valori qui sotto sono tratti da pagina 13 dello studio di Ilan Goldfajn e Sergio Werlang (Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro), che hanno analizzato un campione di 71 paesi nel periodo 1980-1998.
Come vedete, in nessuna parte del mondo, tranne in (Sud) America dopo 18 mesi, una svalutazione si traduce in una superiore inflazione. I coefficienti di trasferimento da svalutazione a inflazione sono, in Europa, ben inferiori all’unità. E, del resto, lo sapete cosa è successo quando l’Italia nal 1992/93 svalutò del 20%? L’inflazione, invece di aumentare, diminuì di 1 punto percentuale (dal 5 al 4%).
I PAESI CHE STANNO SEGUENDO LA RICETTA ECONOMICA SOMMINISTRATA MIGLIORANO, AD ESEMPIO L’IRLANDA
Intendiamoci sul significato della parola miglioramento. I dati del Fondo Monetario Internazionale dicono questo: la prode Irlanda nel 2018, nonostante tutti gli sforzi, avrà un tasso di disoccupazione più che doppio rispetto al periodo ante crisi, la civile Spagna praticamente triplo, il ligio Portogallo e la convalescente Grecia doppio, la disciplinata Italia del 60% superiore. È un miglioramento o un impoverimento strutturale secondo voi?
Qualche link per saperne di più e verificare da sè i dati:
www.goofynomics.blogspot.com (sito di Alberto Bagnai, professore associato di Politica Economica all’Università di Pescara)
http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2013/02/weodata/index.aspx (database del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale)
http://memmt.info/site/ (sito che propone analisi e approcci economici non proprio da mainstream massmediale)
http://www.claudioborghi.com/ (sito di Claudio Borghi Aquilini, professore incaricato di Economia degli Intermediari Finanziari, Economia delle Aziende di Credito ed Economia e Mercato dell'Artepresso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
http://www.asimmetrie.org/mission/per-uneconomia-simmetrica/ (sito dell'Associazione Italiana per lo studio delle Asimmetrie Economiche)