“Lo stato innovatore” il nuovo libro dell'economista «Quello che manca nelle proposte di gran parte della sinistra keynesiana è un’agenda per la crescita che crei e simultaneamente redistribuisca la ricchezza: si può riuscirci mettendo insieme gli insegnamenti di Keynes e quelli di Schumpeter»
Il fatto che il nuovo leader del Partito Laburista britannico, Jeremy Corbin, abbia costituito una squadra di personaggi di alto livello, come il premio Nobel Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, per consigliarlo nella politica economica, ha trasformato la mia curiosità verso questo nuovo entrante della sinistra in un giudizio tendenzialmente favorevole. E la mia curiosità si è poi concentrata sulla inclusione nella squadra di un’economista italo-americana, Mariana Mazzucato, di cui sto ora leggendo l’ultimo libro, “Lo Stato Innovatore” (Laterza, 2014).
L’argomento su cui Mazzucato concentra la sua attenzione è quello, ultra-dibattuto, dei rapporti tra stato e mercato, tra pubblico e privato. Ma l’approccio è veramente nuovo, e debbo dire che ha inciso in modo positivo sui miei modelli mentali (cosa da salutare sempre con entusiasmo!).
E’ diffusa l’idea che lo stato sia una realtà poco efficiente, burocratica, lenta di riflessi, e che al contrario l’impresa privata sia la sede dell’azione, del fare concreto e veloce. D’altra parte chi tuttora sostiene una forte presenza dello stato nell’economia, lo fa spesso per ragioni ideologiche, da epigono della visione marxista dell’economia che, se contiene ancora elementi di analisi attuali, ha però storicamente fallito.
Di qui le fortune dell’ideologia opposta, quella liberista, del “più privato e meno stato”, che si è infiltrata persino nel pensiero piuttosto disorientato delle sinistre attuali. Tony Blair, e lo stesso Matteo Renzi, ne sono stati e ne sono sicuramente contaminati.
Mazzucato spariglia le carte. Ci dice che lo stato svolge un ruolo innovativo non inferiore, e per certi versi superiore a quello del privato. Dimostra, attraverso una minuziosa esplorazione dei settori e delle aziende più rappresentativi dell’economia, dalla farmaceutica, all’energia, alla info-telematica, fino alla “rivoluzione verde”, da lei considerata la più futuribile; dalle imprese Big Farma, alla Sylicon Valley, ad Apple e dintorni, che i successi attribuiti all’iniziativa privata, alle multinazionali, fino alle imprese “nate nel garage di casa”, hanno le loro radici in attività di ricerca sviluppate dallo stato e da enti pubblici, o comunque finanziate dal settore pubblico.
Il contributo di Mazzucato ci aiuta a chiarirci le idee sul ruolo del settore pubblico nella politica economica e su cosa si intende quando si pronuncia la frase “politica industriale”.
Ancora prosperano due opposti estremisti, di destra e di sinistra, circa il ruolo dello stato in economia. Quello di destra auspica una riduzione al minimo dell’intervento dello stato, e quindi dell’imposizione fiscale, ritenendo che la mano invisibile del mercato crei da sola il benessere collettivo. Quello di sinistra ritiene che per far sì che le attività produttive siano finalizzate agli interessi della collettività, sarebbe utile e opportuno che le più importanti fossero svolte direttamente dallo stato. Le posizioni estreme sono peraltro da tempo superate negli stati più progrediti, che hanno adottato economie miste, basate su diverse combinazioni tra pubblico e privato.
Personalmente, sono tra quelli che ritengono che lo stato (il settore pubblico) debba garantire la libera attività economica delle persone come parte della libertà politica, ma nello stesso tempo assicurare a tutti le “capacitazioni” (parola che rubo al premio Nobel Amartya Sen) fondamentali per la libertà: casa, alimentazione, sanità, istruzione, infrastrutture e servizi comuni, contrastando le diseguaglianze che costituiscono il sottoprodotto tossico della competizione. Ho spesso riassunto questa concezione con lo slogan “più stato, più mercato”.
Mazzucato ci dice qualcosa di più. Vede lo stato (il pubblico) non solo come regolatore, fornitore dei servizi pubblici fondamentali e come pronto soccorso per i fallimenti del mercato, ma come co-protagonista con il privato nella produzione di ricchezza di un paese. In particolare, attribuisce al pubblico un ruolo primario e insostituibile nella ricerca e nel progresso tecnologico, Anzi, considera il settore pubblico più capace e disposto del privato ad assumersi i grandi rischi di fallimenti che questa azione comporta.
Per questo, attribuisce allo stato non solo l’aggettivo di “innovatore”, ma addirittura quello di “imprenditore”. I due termini non sono sinonimi: si può essere innovatori, pionieri, senza essere imprenditori: lo sanno bene molti apripista, il cui insuccesso fa la fortuna di chi viene dopo. Imprenditore è invece chi, da solo o con altri, combina le doti di pioniere con quelle manageriali e finanziarie, conseguendo in tal modo il successo economico.
Secondo Mazzucato è proprio ciò che fa lo stato, in ambiti, quelli della ricerca e dell’innovazione più avanzata, che per il loro livello di rischio, di possibilità di insuccesso, vengono evitati dal privato, anche dal venture capital, che dovrebbe finanziare le iniziative e le start-up più avventurose. Il settore privato, infatti, esige risultati a breve-medio termine, ritorni economici da conseguire in pochi anni. Il pubblico, al contrario, può mettere in campo capitali “pazienti”, i cui risultati possono comportare attese ultra-decennali.
Se lo stato è imprenditore né più né meno del privato, sia pure con funzioni diverse, sarebbe giusto, nota la Mazzucato, che ne traesse anche i relativi risultati economici. Cosa che normalmente non avviene: i privati che traggono vantaggio dall’attività imprenditoriale dello stato nella ricerca e nell’innovazione, normalmente non ne pagano il prezzo, e non solo: spesso riescono anche a sottrarsi ai relativi oneri fiscali.
Mazzucato non propone un aumento dell’intervento pubblico, ma una sua rivalutazione e riqualificazione. Ad esempio, considera sbagliato agevolare la piccola impresa in quanto tale, perché ne scoraggia la crescita. Occorrerebbe sostenere solo le start.up e le imprese innovative.
La cosa più importante è comunque che pubblico e privato non vengono più concepiti come contrapposti, o alternativi, o l'uno subalterno dell'altro, ma come facenti parte di un unico sistema finalizzato allo sviluppo economico. L’espressione “politica industriale”, spesso formulata senza che si abbia una chiara idea del suo significato o avendo in mente modelli del passato, assume in tal modo un senso più completo riguardo a ciò che lo stato, il pubblico, può e deve fare nell’ambito dell’economia complessiva di una data comunità: ovviamente provvedere agli investimenti e ai servizi essenziali, ma anche assumere un ruolo imprenditoriale decisivo nel campo della ricerca, dell’innovazione scientifica e tecnologica.
In conclusione: con “Lo stato innovatore” Mazzuccato si lancia in un appassionata difesa dello stato, mettendone in luce le benemerenze normalmente oscurate a favore dell’iniziativa privata. Esprime anche un ricordo positivo dell’IRI, il conglomerato pubblico italiano del passato, “prima che vi entrasse la politica”.
Tuttavia, a mio parere, così come è importante soffermarsi sui “fallimenti del mercato” e sul mancato riconoscimento del ruolo imprenditoriale svolto dallo stato, è giusto anche tener conto dei numerosi “fallimenti dello stato”, degli sprechi e delle malversazioni che ne hanno intaccato in modo profondo il prestigio.
Quando il mercato funziona, quando cioè la concorrenza fiorisce, cioè quando nessuno è in grado di abusare di una posizione dominante, è il cliente, il consumatore che esercita quasi automaticamente il controllo sul sistema. Ma quando è lo stato a non funzionare, la cosa si complica. Perché in questo caso tocca al cittadino esercitare un controllo continuo sulle istituzioni. E qui si torna a quella che forse è la più importante funzione di uno stato democratico: la diffusione della cultura, che è qualcosa di più dell’istruzione. Perché non basta adeguare le capacità degli uomini allo sviluppo delle tecnologie, come sembrano pensare molti economisti, a partire da Joseph Stiglitz. Occorre accrescerne le capacità di giudizio e di scelta, che sono frutto di una cultura diffusa.
Mazzucato, come Stiglitz, non sembra porsi più di tanto il problema delle disuguaglianze, che invece è al centro delle riflessioni di Thomas Piketty, in quale propone di ridurle anche con imposte patrimoniali ed ereditarie. Ma le azioni dirette a promuovere livelli di istruzione adeguati al progresso tecnologico, per gestire, in sostanza, l’inesauribile spirito prometeico dell’essere umano, sono necessarie ma non sufficienti: perché non risolvono di per sé il problema primario della povertà e della mancanza di libertà. Sarebbe come credere in una nuova “mano invisibile” benefattrice dell’economia, sia pure spostata al livello alto dell’innovazione tecnologica; o, peggio, in un nuovo “trickle down”, cioè nell’illusione che favorendo le classi privilegiate (sia pure perché dotate di competenze superiori) si aiutino anche le classi svantaggiate.
Occorre agire sui due (o meglio su tre) fronti: sull’istruzione da una parte, e sul contrasto alle disuguaglianze dall’altra. Ma anche, e forse soprattutto, sulla diffusione della cultura, fonte dei più alti valori umani e civili.