La difficoltà di controllare la rivoluzione in atto genera un diffuso catastrofismo, che si concentra, oltre che sulla minaccia monopolistica, sul timore che gli “algoritmi” su cui si basano le applicazioni offerte al pubblico e i progressi dell’intelligenza artificiale possano compromettere la libertà degli uomini.
Su questa rivista sono già apparsi due articoli sull’economia comportamentale: uno a firma di Juri Casati, del 29 novembre 2017 dal titolo “Cos’è la finanza comportamentale?” e uno mio del 28 febbraio 2018, dal titolo “Dal dire al fare: questo è il problema. In economia e non solo”. Viene da chiedersi: perché questo argomento attrae l’attenzione di chi si occupa di economia, e perché dovrebbe interessare il lettore di Vorrei?
In generale, per l’insoddisfazione verso una economia tradizionale che appare incapace di prevenire eventi disastrosi come la recente recessione, che non riesce ad arrestare il processo in atto verso una disuguaglianza crescente e un impoverimento di vasti strati della popolazione, un’economia che si basa su indici, come il Prodotto Interno Lordo (PIL), che tutti ormai sanno inadeguati, o addirittura distorcenti, nel rappresentare i miglioramenti o i peggioramenti delle condizioni di vita di una società.
Ebbene, l’economia comportamentale non dà una risposta diretta a questa insoddisfazione. Ma deve interessare ugualmente per due ragioni: la prima, perché costituisce un cambiamento importante della scienza economica. Data la diffusa ignoranza in materia di economia, che porta a credere a molte favole in circolazione (come ad esempio quella della possibilità, in occasione del passaggio dalla lira all’euro, di imporre un cambio molto diverso da quello già imposto dal mercato), un po’ di divulgazione è più che opportuna. La seconda, che questo cambiamento ha a che fare con problemi di scottante attualità conseguenti alla rivoluzione digitale: ad esempio, quello dell’appropriazione di grandi masse di dati personali da parte di pochi soggetti, e quello dei riflessi della rete digitale sui sistemi democratici. Cercherò di affrontare separatamente i due aspetti commentando il libro Misbehaving, la nascita dell’economia comportamentale, di Richard H. Thaler, premio Nobel per l’economia, recentemente tradotto dall’editore Einaudi.
Un pregio del libro è costituito dall’essere un’autobiografia scientifica, che mostra come la conoscenza sia frutto della collaborazione a vasto raggio tra ricercatori, docenti e studenti, membri di una faculty diffusa, che richiama alla mente le origini antiche dell’ univertsitas. Un altro pregio è il senso dell’umorismo dell’autore.
1. La “rivoluzione“ comportamentale.
L’economia comportamentale costituisce un’importante modifica del paradigma tradizionale della scienza economica: il passaggio da una concezione specialistica, nella quale operano soggetti economici virtuali, perfettamente razionali e spinti solo dall’utilità (l’homo oeconomicus), a una concezione basata sulla verifica dei comportamenti reali degli esseri umani (l’homo più o meno sapiens). Questa nuova visione ha comportato un’apertura della scienza economica verso altre scienze sociali, e in particolare verso la psicologia. Il nuovo paradigma è anche, in un certo senso, più “scientifico” del precedente, perché ampiamente basato sulla sperimentazione.
L’elemento fondamentale dell’economia comportamentale è costruito dalla constatazione della razionalità limitata dell’essere umano, dove per “razionale” s’intende un comportamento guidato esclusivamente dall’utilità. «Gli esseri umani dispongono di tempi e capacità mentali in quantità limitate». L’individuo è soggetto a limiti nella razionalità delle sue scelte sia perché le sue conoscenze sono spesso insufficienti, sia perché è guidato da fini diversi dalla utilità. Un esempio significativo è costituito dalla scelta della facoltà universitaria: secondo il modello economico tradizionale, questa scelta avrebbe come riferimento i redditi attesi dall’attività professionale per la quale un giovane si propone di abbracciare un dato curricolo universitario. Nella realtà, gli “umani” scelgono gli studi avendo in mente finalità molto più complesse di quelle esclusivamente economiche.
Inoltre, l’assunzione che ciascuno di noi avrebbe la stessa “funzione di utilità”, cioè gli stessi gusti, è evidentemente falsa. Ciò vale non solo per le scelte delle persone comuni, ma anche per quelle di esperti in materie economiche e finanziarie. Spiritosamente, ma realisticamente, l’autore dimostra l’irrazionalità del vecchio paradigma economico, manipolando una famosa frase di Groucho Marx “Nessun agente razionale vorrà acquistare una azione che un altro agente razionale è disposto a vendere”. Evidentemente compratore e venditore hanno (per fortuna) diverse motivazioni.
Un’altro assioma dell’economia tradizionale è che il denaro “non ha odore”, cioè che una moneta vale l’altra. In realtà per la “contabilità mentale” degli umani il denaro non è del tutto fungibile. E’ diverso per la casa, la scuola, il cibo, oggi, domani, per chi ne ha di più e chi ne ha di meno. Spostarlo non è indolore.
L’essere umano non agisce soltanto in modo utilitario perché è stupido o ignorante, ma perché spinto da obiettivi di altra natura: umanitari, culturali, sportivi o di altro tipo.
Oltre alla razionalità limitata e all’interesse economico limitato, l’economia comportamentale mette in luce un terzo fattore: la forza di volontà, o autocontrollo, limitato. La difficoltà di smettere di fumare è un fenomeno che va molto al di là del caso, che comunque ha formato oggetto di interesse di grandi scrittori come Sinclair Lewis e Italo Svevo.
Nell’essere umano convivono due visioni: la visione a breve, prevalentemente impulsiva, e quella a lungo termine, prevalentemente riflessiva. La prima è vissuta come evidente e urgente, la seconda come sfumata e trascurabile. Thaler cita in proposito Adamo Smith, padre dell’economia moderna ma anche antesignano degli studi psicologici: «il piacere di cui godremo di qui a dieci anni ci interessa molto poco a confronto di quello godibile oggi». Le due visioni sono spesso in contrasto, e la scelta della visione riflessiva, di lungo termine, richiede una capacità di autocontrollo. Secondo Thaler, “in ogni momento del tempo un individuo consiste in due sé. C’è un “pianificatore lungimirante” che nutre buone intenzioni e si preoccupa del futuro, e un disinvolto “esecutore” che vive per il presente». E come noto, l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Un corollario importante di questa constatazione è che gli umani possono gradire un intervento esterno diretto a rafforzare la loro capacità di scelta orientata al lungo termine, accettando di sostenere un sacrificio attuale.
Un’altra acquisizione importante dell’economia comportamentale è costituita dall’“Effetto dotazione”. «Le persone hanno una tendenza a sviluppare un attaccamento per ciò che possiedono, almeno in parte a causa dell’avversione alla perdita». Più in generale si tratta di una preferenza dello status quo, di una avversione al cambiamento. Questo si traduce in una avversione al rischio: chi possiede o ha acquisito un bene è poco disposto al rischio di perderlo, mentre chi ha perso un bene, è più disposto a rischiare . E’ sperimentalmente provato che «la sofferenza inflitta dalla perdita è due volte superiore alla soddisfazione generata dal guadagno». E’ un’evidenza che spiega, tra l’altro, la diffusione delle ludopatie. Colpisce il fatto che la maggiore propensione al rischio di chi è in perdita non caratterizza solo la gente comune, ma anche chi è dotata di conoscenze superiori come ad esempio i professionisti finanziari.
Un altro elemento importante messo in luce dall’economia comportamentale è la “fallacia dei costi sommersi (sunk cost)”. Chi ha sostenuto un costo si aspetta di trarne una soddisfazione adeguata. Ma ciò non sempre avviene: spesso gli eventi privano di questa soddisfazione. Quando ciò accade, il comportamento più diffuso è di agire irrazionalmente, magari con ulteriori perdite, per recuperare i costi ormai perduti. Questo vale sia per i drammi famigliari, sia per start-up sfortunate, ma addirittura per grandi eventi storici: la difesa impossibile di Stalingrado ordinata da Hitler, come la prosecuzione della guerra del Vietnam da parte degli USA, con i loro ingenti costi in vite umane e in risorse economiche, sono esempi tragici del complesso dei costi ormai irrecuperabili.
Si potrebbe infatti essere portati a pensare che l’economia comportamentale riguardi più la microeconomia, i comportamenti economici umani nella vita di ogni giorno, e meno la macroeconomia, cioè le scelte relative ai grandi problemi economici e finanziari. Ma se si pensa al verificarsi periodico di bolle economiche, che esprimono il manifestarsi di fenomeni di irrazionalità collettiva, si comprende che l’economia comportamentale ha implicazioni a tutti i livelli.
Essendomi in precedenti articoli occupato dei problemi delle disuguaglianze e della povertà, mi sembra interessante rilevare che gli studiosi di economia comportamentale hanno condotto esperimenti proprio sui paesi più poveri e su situazioni sociali problematiche (come l’abbandono scolastico e le ludopatie), evidentemente per proporre interventi più efficaci di quelli tradizionali, spesso fallimentari.
Conviene osservare che gli esperimenti su cui si basa l’economia comportamentale portano a risultati statistici, a distribuzioni percentuali dei comportamenti. Questo significa che, ad esempio, se la maggioranza è portata a non rischiare, non vuol dire che non ci siano persone più disposte al rischio, magari calcolato. Ne sono un esempio gli imprenditori, quelli veri, che non a caso sono psicologicamente classificati come devianti! Non così i dirigenti, spesso miopi perché più attenti al il proprio interesse immediato.
Ultima osservazione: per quanto sperimentale e aperta al contributo di altre scienze, l’economia comportamentale resta una scienza economica. Nella ricerca sui comportamenti usa strumenti anche psicologici, addirittura neurologici nelle sue forme più avanzate, ma essa riguarda pur sempre scelte di natura economica, per quanto diversificate con riferimento a specifici soggetti e situazioni.
2. L’economia comportamentale e la rivoluzione digitale.
L’economia comportamentale, mettendo in evidenza il dato di fatto della razionalità limitata, e più in generale che le scelte degli “umani” seguono diversi impulsi e motivazioni, apre la strada a politiche economiche più sofisticate, basate non solo su provvedimenti normativi (leggi e regole varie), ma anche su interventi sulla cultura ambiente. Viene in mente l’antico detto del diritto romano: “jus sine mores esse non potest”, la legge senza il costume non può esistere, non può essere efficace. Si tratta di agire con messaggi ed incentivi sulle convinzioni e preferenze diffuse ma spesso errate, addirittura sui miti più o meno consolidati, prima ancora che con le leggi. Di qui la proposta di Thaler di un “paternalismo liberista”: l’offerta al cittadini di possibili alternative per le loro scelte, accompagnate da “nudges” (stimoli, soluzioni “spintanee”) e proposte di “default” (alternative preferibili) e da incentivi o facilitazioni, con l’obiettivo di indurli a scelte reputate più convenienti, senza tuttavia impedirgli la libertà di scelta.
È evidente che una politica economica basata sullo studio psico-sociologico dei comportamenti umani impatta direttamente sulla politica tout court e addirittura sulla struttura delle istituzioni. Inoltre è basata ampiamente sulla comunicazione, sui suoi contenuti, metodi e tecnologie. Cioè sulla rivoluzione digitale in atto.
Ma le “architetture delle scelte” proposte dalle istituzioni, considerate a priori democratiche, si inseriscono in un mare di altre, economiche e politiche, a cui il cittadino è sottoposto, con finalità lecite o illecite. Molte delle quali tendenti a ridurrlo a mero consumatore (pubblicità) o a suddito (propaganda).
Non si tratta di cose del tutto nuove, legate all’avvento della rivoluzione digitale. Liberiamo il campo dal mito del “bel tempo antico”. La manipolazione dei sentimenti umani e delle masse è nata insieme all’umanità, e per molti versi è stata nel passato ben peggiore che al giorno d’oggi.
Ma con la rivoluzione digitale i “costi di transazione” per comunicare si sono ridotti drasticamente. Basta pensare alla differenza tra il costo di un referendum tradizionale e quello di uno che, attraverso la rete, potrebbe raggiungere milioni di persone con costi tendenti a zero. La rete consente a chiunque di accedere sempre più rapidamente e a costi decrescenti a qualsiasi informazione, e di trasmettere istantaneamente i propri messaggi a milioni di persone. Di converso, essa tende ad accrescere a dismisura la possibilità, per chi viene in possesso dei dati che gli stessi utenti della rete forniscono con i loro messaggi, di monopolizzarne l’uso e di influenzare gli stessi milioni di persone con informazioni e narrazioni di qualsiasi tipo. E’ in atto un circolo vizioso perverso: recenti dati (la Repubblica, 24/04/18 p. 24) ci dicono che i ricavi di Alphabet, holding di Google, derivano per l’83% da pubblicità (e presumibilmente da propaganda politica), e solo il resto da servizi. Questo significa che gli utenti del social network pagano con l’essere oggetto di manipolazioni pubblicitarie e politiche la libertà di esprimersi attraverso il social network!
La difficoltà di controllare la rivoluzione in atto genera un diffuso catastrofismo, che si concentra, oltre che sulla minaccia monopolistica, sul timore che gli “algoritmi” su cui si basano le applicazioni offerte al pubblico e i progressi dell’intelligenza artificiale possano compromettere la libertà degli uomini. Nello stesso tempo si immagina che la rivoluzione digitale possa portare a una rivoluzione anche dei sistemi democratici, tradizionalmente basati sulla rappresentanza e sulla mediazione, verso forme di democrazia diretta di cui sono ignoti, se non allarmanti, gli esiti finali.
Sicuramente siamo in una fase di transizione, caratterizzata da cambiamenti ancora fuori controllo. Ma credo e auspico che gli “umani”, come negli eventi rivoluzionari del passato, riusciranno progressivamente a prendere il controllo dell’era dell’informazione.
In conclusione, che fare? Resto fedele al principio enunciato da Luigi Einaudi nelle sue “Prediche inutili”, secondo cui la libertà d’informazione, con i suoi contrasti di opinione anche accesi, sia tra i principi fondamentali e inviolabili della convivenza civile. Si tratterà quindi di usare in forme nuove gli strumenti diretti a difendere la dialettica e con essa i regimi democratici e le attività produttive contro le forze che l’insidiano: le norme contro i monopoli, per la difesa della privatezza, sistemi di fact-checking per smascherare il più possibile le fake news e narrazioni che imperversano nell’informazione politica ed economica, al servizio di interessi più o meno oscuri. E soprattutto occorrerà porre istruzione, formazione civile, cultura come prioritarie negl’investimenti e nella spesa pubblica.
Ma sicuramente, nell’era della informazione, la competizione si svolgerà soprattutto a questo livello. E su questo piano l’economia comportamentale potrà dare un forte e d essenziale contributo.
Chiudo con un divertente caso di studio della lista che Thaler ha inserito nel libro: un padrone di casa invita gli amici ad un pranzo, e per ingannare l’attesa offre agli ospiti degli stuzzichini. Gli ospiti, spinti dall’appetito, ne fanno golosamente incetta. Sono consapevoli del fatto che se ne mangeranno troppi comprometteranno il gradimento del pranzo, ma non sanno resistere. Ed ecco che il padrone di casa, rendendosi conto della situazione, interviene e porta via i vassoi. E gli ospiti, invece di offendersi, lo ringraziano. Lezione: vanno bene i sondaggi e forme di democrazia diretta, ma una classe dirigente, e una leadership, saranno sempre necessarie. Forse il difetto di Thaler è di darlo per scontato!
Immagine tratta da www.iab.it