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Sacerdotessa o strega? Reale e più legata al vivere pratico di quanto si potrebbe credere, ecco  una controversa  figura di donna del folclore sardo e il tema, tuttora spinoso, cui essa è connessa: l’eutanasia.

Ci sono storie e storie. Quelle credibili e ritenute vere a lungo e rivelatisi invece, a un certo punto, inventate e quelle considerate di fantasia, magari perché ai confini dell’esperienza umana del quotidiano, attinenti a sfere del sentire non propriamente concrete, che al contrario si sono rivelate reali come una forma di pane appena sfornato. E poi ci sono quelle storie che stanno nel mezzo, attingendo a piene mani dal quotidiano - profondamente legate alla terra e all’esperienza tradizionale e anche - dal mondo misterico della dimensione spirituale, dell’aldilà e dei rituali contadini; e sono storie, queste, di solito destinate a una posizione di confine tra realtà e magia, verità storica e leggenda, vita e morte (nel senso di esistenza o non esistenza) perché consegnate alla fama solo attraverso le diffidenti voci del popolo e le timide testimonianze di quei pochi pellegrini che vi si sono imbattuti.

In assenza di prove concrete, le storie, anche le più antiche, restano chiacchiere, e le circostanze più scottanti - e moralmente (e cristianamente) inaccettabili - pettegolezzi. Cose di cui, anche tra il popolo, è bene parlare il meno possibile. È questo il caso della storia di sa femina accabadora. Figura appartenente al ricco retaggio culturale della terra di Sardegna, deve il suo nome al termine spagnolo “acabar”, che significa “finire”, ed è una donna anziana della comunità che, fino a qualche decennio fa (secondo le testimonianze), veniva chiamata dalle famiglie che avevano in casa un moribondo per praticare l’eutanasia. Spesso si trattava della stessa figura, custode di antiche ed efficaci pratiche curative, cui in paese si rivolgevano per guarire dai mali, togliere il malocchio o per scoprire dove si trovasse il bestiame rubato. Un cerimoniale pagano, dunque, che affonda le proprie radici in epoca arcaica – diversi secoli prima della nascita di Cristo – fortemente osteggiato dalla Chiesa Cattolica, abolito ufficialmente (sempre secondo alcune testimonianze) dal  Concilio di Trento (1545-1563) e dunque fortemente ridimensionato, ma perdurato nelle comunità più rurali della Sardegna fino ai primi anni ’50 del novecento, periodo a cui risalgono le ultime attestazioni: una a Luras nel 1929 e una a Orgosolo nel 1952.

 

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Carta geografica della Sardegna tratta dall’Atlas Novus di Seutter, pubblicato nel 1730 ca.

 

Si tratta evidentemente di una figura inquietante, argomento tabù all’interno delle famiglie stesse,  chiamata ad un compito macabro sì, quanto compassionevole e legato anche a questioni di utilità concreta. Essa era donna dal senso pratico, in grado di assistere a un parto o di cucire ferite senza svenimenti, e capace, in caso di necessità, di dare la morte a chi, anziano o malato che fosse, non aveva più speranza di vita. Questo è un punto fondamentale: l’accabadora veniva chiamata solo come ultima risorsa per dare la pace ai morituri e si riservava la facoltà di esaminare il moribondo e decidere se fosse veramente giunta la sua estrema ora oppure no. A dispetto del suo compito controverso, si trattava dunque di una donna credente che in un atto di estrema misericordia liberava l’anima da un corpo sofferente che languiva tra la vita e la morte in una prolungata agonia. Rispetto all’utilità pratica cui accennato sopra, bisogna ricordare che la popolazione sarda basava la sua economia sull’agricoltura e sulla pastorizia e che, in questo contesto, le cure protratte ad ammalati senza possibilità di guarigione sottraevano tempo e risorse vitali al lavoro e alla sussistenza stessa delle famiglie. È utile sottolineare, inoltre, che la pratica non prevedeva nessuna retribuzione, perché pagare per dare (o far dare) la morte era considerato un peccato. Quella dell’accabadora era dunque una figura perfettamente inserita nella società e riconosciuta da tutti, anche se se ne parlava con molta reticenza, soprattutto a chi non era sardo.

Il rito del donare la morte era molto articolato. Innanzi tutto c’era la credenza, e questo non solo in Sardegna, che se un’anima faticava a distaccarsi da un corpo morente era perché quella persona in vita aveva peccato e dunque espiava le sue colpe nelle sofferenze dell’agonia. Trattandosi, come già detto, di comunità rurali, i peccati erano di un tipo e di un ordine prioritario che a noi oggi può sembrare strano; in ogni modo si riteneva che il tormento di una morte lunga e difficile potesse essere causato dallo spostamento di una pietra di confine tra i campi (che significava rubare terra e raccolto al vicino), dal furto di uno strumento agricolo (che, di nuovo, significava impedire a qualcuno di poter svolgere il proprio lavoro e sfamare la propria famiglia) o ancora - e questo era ritenuto un vero e proprio sacrilegio – dall’aver buttato o bruciato il giogo di un aratro o di un carro. Il giogo – su juvale in lingua sarda – era considerato oggetto sacro ed era religiosamente rispettato, probabilmente in quanto simbolo del lavoro agricolo (ma legato anche ai culti di Dioniso praticati in Tracia, Grecia, Asia Minore e Italia Meridionale in epoca precristiana), al punto tale che una volta consumato e diventato inservibile, veniva sistemato in un angolo della casa e lasciato là ad invecchiare. Eliminarlo era atto empio. Questa tradizione è riscontrabile anche in altre aree del mediterraneo: dal Salento all’Aspromonte calabrese, da zone della Romagna fino ad alcune regioni della Francia. Proprio per questo, una delle prime azioni del cerimoniale di morte da compiersi (eseguita dall’accabadora o talvolta dalla famiglia) era quella di porre su juvale sotto il cuscino del moribondo come gesto scaramantico (e non solo, come poi spiegheremo) in grado di liberare l’anima dal corpo. Rispetto alla tradizione legata al giogo e all’enorme importanza simbolica che esso ricopriva in queste società, è interessante segnalare che esso veniva posto anche sotto il letto delle partorienti, a presiedere in qualche modo l’entrata e l’uscita dalla vita delle persone che vi appartenevano.

Mano a mano che la pratica dell’eutanasia è venuta meno, la tradizione di su juvale si è mantenuta acquistando un aspetto sempre più allegorico: il pesante giogo dei buoi infatti è stato sostituito da piccoli gioghi in miniatura (jualeddos), di valore esclusivamente simbolico, intagliati da un ramo d’olivo o d’olivastro in chiesa, la domenica delle palme o il giovedì santo, durante il canto del Passio, alcuni dei quali sono ancora custoditi in qualche abitazione dell’isola.

Altra pratica dell’accabbadora era quella di far spogliare la stanza e il morente di qualsiasi oggetto sacro, medagliette, santini o crocifissi che, attraverso la mediazione e la preghiera dei cari, proteggessero e potessero prolungare il distacco dell’anima dal corpo, motivo per cui essa richiedeva anche che tutti i familiari uscissero dalla stanza. C’è chi legge in questa usanza una contrapposizione palese al cristianesimo. Se dopo queste azioni preliminari la morte non sopraggiungeva, allora e solo dopo aver valutato attentamente le condizioni dell’ammalato, s’accabadora procedeva all’eutanasia. Nella stanza vuota, solo la sacerdotessa della morte e il rendente l’anima al cielo. Erano diverse le modalità che essa poteva utilizzare. Soffocare il moribondo con un cuscino, dargli un colpo secco in un preciso punto del capo, la fronte o la nuca, con una specie di martelletto di legno d’ulivo o d’olivastro (su mazzolu), di cui esiste un esemplare conservato presso il Museo etnografico Galluras a Luras, oppure utilizzare il giogo posto sotto la nuca con un colpo che avrebbe dovuto provocare una morte istantanea. È ragionevole pensare che non sempre l’operazione fosse veloce e indolore e che talvolta all’agonizzante sfuggisse un lamento. Ed è probabilmente legato a questa circostanza un detto sardo che suona così: “su ohi de s’accabadore”, cioè “l’ohi provocato dall’accabadora”.

 

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L’esemplare di su mazzolu conservato presso il Museo Galluras a Luras.

 

È interessante notare che quello di un’agonia prolungata era un terrore ancestrale che serviva realmente al mantenimento della pace sociale e al rispetto di alcune regole basilari di convivenza, probabilmente molto più del timore del giudizio divino nell’aldilà.

Riguardo questo tipo di pratiche in Sardegna, bisogna ricordare che Timeo di Tauromenio, storico siciliano vissuto tra il IV e il III secolo a.C., racconta che in antichità nell’isola è stato praticato il geronticidio rituale dei genitori maschi al compimento del settantesimo anno d’età, da parte dei figli.

Tornando all’incipit di questo articolo, viene naturale chiedersi quanto di vero ci sia in questa storia dai risvolti noir e quanto, invece, sia il frutto di credenze e superstizioni popolari tramandatesi nel corso dei secoli. Certa è però la presenza di un corredo di testimonianze e memorie, alcune illustri, e anche di proverbi tradizionali che lasciano pensare che il fenomeno, se non esattamente nei termini qui illustrati, sia comunque esistito. Esiste una brutta maledizione in sardo, che dice: “sa e s’acabadora ti dian” che è l’augurio di una morte difficile, che preveda l’intervento dell’accabadora. Tra le testimonianze più ufficiali si possono citare quella del politico Alberto La Marmora, che fu generale dell’esercito nel Regno di Sardegna e che nella prima edizione della sua opera Voyage in Sardaigne (1826) accennava all’accabadura come a una pratica barbara, quella dell’ammiraglio della marina britannica William Henry Smith che, nello stesso periodo, durante un viaggio in Sardegna annotava sul proprio diario lo stupore procuratogli dall’accabadura, usanza che egli indica come abolita tra il 1725 e il 1775 grazie all’opera evangelica del gesuita Giovanni Battista Vassallo, e quella dell’intellettuale e politico sardo Vittorio Angius, il quale si domanda se l’accabadura non possa in qualche modo essere messa in relazione con il geronticidio di cui parlava Timeo di Tauromenio. Nel 1833, inoltre, il termine “accabadoras” veniva inserito nel dizionario redatto dallo storico Goffredo Casalis. Accanto a queste, si menzionano numerosi racconti, riportati da alcuni studiosi, su moribondi che alla vista dell’accabadora si sono talmente spaventati da riuscire a riprendersi dal malanno e storie simili. Non ultima la testimonianza video di Paolina Concas che, in un’intervista rilasciata a Dolores Turchi – autrice del libro “Ho visto agire s’accabadora” – racconta di aver assistito coi propri occhi all’operato dell’accabadora del suo paese, Seulo, nei primi anni ’40, nella propria casa, dove la zia da giorni soffriva un’atroce agonia senza riuscire a morire in pace.

 

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Camera da letto sarda contenente alcuni oggetti che fanno riferimento alla pratica dell’accabadura.

 

Onestamente è difficile dire se quella dell’accabadora sia verità storica o leggenda e sarebbe un errore giudicare fuori dal contesto d’appartenenza la sua figura e le pratiche ad essa annesse. Una cosa, però, più in quanto appassionata di tradizioni popolari che studiosa, mi sento di dirla. Che se oggi avessimo una conoscenza più approfondita della cultura popolare della nostra terra, se fossimo in grado di riconoscere e afferrare quanto di più pratico, genuino e saggio certe usanze e tradizioni racchiudono, queste ci verrebbero in aiuto personalmente e anche comunitariamente di fronte a quegli interrogativi che ancora oggi non trovano risposta.

Eutanasia sì, eutanasia no? Quello che mi preme sottolineare è che la storia, tutta, la nostra e anche quella degli altri popoli, è un patrimonio inesauribile di ricchezze, esperienze e ammonimenti ai quali possiamo, anzi dobbiamo, attingere per poter affrontare meglio l’oggi e il domani, senza sottovalutarne l’importanza.

Fino a non moltissimo tempo fa, e non solo in Sardegna, l’eutanasia non era una barbarie, ma un atto di misericordia del vivere quotidiano di una comunità, come la storia delle accabadoras ci insegna.

 

Alcune delle immagini sono una gentile concessione del Museo Galluras – Il Museo della Femina Agabbadora – di Luras. Per info: www.galluras.it

 

Gli autori di Vorrei
Carola Dessena
Carola Dessena

Umanista per natura ma anche per scelta, dopo il diploma di maturità classica e gli studi universitari in Scienze dei Beni Culturali, si è recentemente iscritta e sta frequentando (seppur non più fanciullina) il Corso di laurea in Lettere Moderne presso la Statale di Milano. Il suo percorso di formazione professionale principia nel settore comunicazione e ufficio stampa - declinandosi in collaborazioni con teatri, agenzie di comunicazione e di brand design - per approdare poi al mondo dell’editoria con l’esperienza di redattrice per diverse riviste B2B. Attualmente è web editor e SEO editor per due aziende e scrive contributi per alcuni magazine online.

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