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La presentazione di Marco Ostoni del nuovo libro del “nostro” scrittore e illustratore: «Non manca il dolore in queste storie ed è qui dove Calabrese svela forse le doti migliori, trasferendo al lettore, senza mai rinunciare al suo stile piano e immaginifico e al suo funambolico estro descrittivo, le lacerazioni della perdita

Guai ai chimici con la penna. Con i loro alambicchi di parole sapientemente miscelate affondano nella carne del lettore più di tanti scrittori “laureati”. Specie se al talento affiancano una biblioteca personale di tutto rispetto, com’è il caso di Adamo Calabrese, lettore onnivoro con una predilezione per i classici – Dante, Omero, Quevedo e Shakespeare soprattutto – e una grande abilità nel raccogliere oro anche dai filoni più inesplorati della tradizione non canonica italiana ed europea (Ruzante, Rabelais, Nievo solo per fare alcuni nomi), maneggiando con sapienza il mercurio della passione, che stacca la polvere gialla dal metallo della storia e sui calzari alati della scrittura porta in dono dall’Olimpo della fantasia i messaggi universali della grande letteratura.

Cronaca, storia, sogno, mistero, gioia, amore, dolore, paura, guerra, morte, Dio: dal più leggero al più pesante, come nella tavola periodica di Mendeleev, non c’è elemento che manchi nelle brevi storie di questo volume (il terzo, dopo L’anniversario della neve e La cenere dei fulmini, realizzato con i testi pubblicati sul quotidiano «il Cittadino» di Lodi e sulla rivista «Vorrei» di Monza) che Il Filo-Albartros manda in stampa ancora una volta corredato dalle illustrazioni dello stesso autore.

20140322-calabrese-adamo-coverLa scrittura surreale di Calabrese, che abbiamo imparato a conoscere ancora dai tempi del Libro del re (Einaudi, 1983) – la prima incursione nel terreno della narrativa dell’ex rappresentante di prodotti chimici - si fa qui più densa e pensosa, pur senza abbandonare quella straordinaria e magica levitas di cui è impastata, per affrontare un filone nuovo di narrazione: quello autobiografico. Due terzi buoni del libro, infatti, sono dedicati all’infanzia dell’autore, in particolare allo sbocciare della storia d’amore fra i suoi genitori e ai successivi, difficili anni della guerra, con le notti trascorse nell’angoscia dei bombardamenti in un palazzone di Sesto San Giovanni prima dello sfollamento obbligato nella brumosa Bassa di Gerenzago, piccola landa fra Pavese e Lodigiano abitata perlopiù da mosche, vacche e contadini dai contorni resi sfocati e sfuggenti dalla nebbia.
Sono pagine, queste, di alto lirismo, in cui la capacità immaginifica si miscela con il ricordo personale, l’aneddoto familiare, l’episodio raccolto all’osteria, e dove la vita e la storia si intrecciano in modo indissolubile a dipingere quadri che hanno la plastica visionarietà di una tela di Bruegel il Vecchio e la delicatezza aerea di un’antica poesia provenzale. Racconta l’amore, Calabrese, con poche, misurate pennellate e racconta anche il sesso con tale grazia e pudore da mandare gambe all’aria le banalmente pruriginose “sfumature”che hanno svettato per mesi nelle classifiche dei bestseller. Leggere per credere la descrizione delle prime notti di nozze di Mariuccia e Giulietto, lui operaio alle prese con la scrittura di un libro dettatogli personalmente dal Padreterno e lei sarta dalla precisione impeccabile, cui il destino ha dato appuntamento sotto l’altare del Duomo di Milano, benedicendo così per sempre l’unione da cui sarebbe nato l’A. «Per quanto riguarda il letto era sorto un caso speciale. No al letto matrimoniale! Perché mia madre e mio padre erano acerbi in materia. Sì, invece, a due lettini poco distanti uno dall’altro, così che nell’intraprendere la segreta notturna bisogna mia madre doveva darne l’avvio spegnendo la luce. In risposta mio padre fingeva di tossire. Lei sospirava. Lui sospirava il doppio e, non essendoci nessun segnale contrario, si calava dal suo giaciglio e risaliva quello della sposa che l’aspettava con gli occhi spalancati nel buio. Finalmente…finalmente! I battiti dei cuori coniugati volavano dalla finestra su su fino a raggiungere le galassie del cielo, miriadi di stelle col fiato sospeso in attesa dell’unisono sospirone finale: “MariucciaGiulietto…!!!” Poi silenzio e silenzio anche dei due cuori che avevano cessato i loro moti non avendo più alcuna necessità di pulsare perché gli sposi, indissolubilmente abbracciati, erano diventati pura beatitudine» (Il tirapiedi di Dio).

E che dire del racconto del ritorno insperato dal fronte dello zio Giuseppe, disperso in guerra e dato per morto, il quale avanza come un fantasma sulla via di casa preceduto da una nuvola di pidocchi e cui la moglie Lidia corre incontro, sospinta dai battiti di un cuore impazzito che solo nel chiuso della stanza nuziale, però, dietro serrande ben sprangate, può sciogliere il nodo a lungo rinserratto: «”Sei tu?” “Sono io!” “Deh non partire più, più, più!!!” “Taci adesso!” E carezze nel buio della stanza con le imposte subito richiuse perché il mondo sia solo loro due, uno spirito, due bocche, quattro mani, quattro piedi e pari di ogni altra sensibilità che, troppo digiuna, s’ingozza facendo trisboccia tra le lenzuola, traballando il paglione col rischio di cader di bordo, mai saziandosi come se quella fame fosse un sacco col buco…» (Corfù).

Non manca il dolore, anche il più straziante, in queste storie ed è qui dove Calabrese svela forse le doti migliori, trasferendo al lettore, senza mai rinunciare al suo stile piano e immaginifico e al suo funambolico estro descrittivo, le lacerazioni della perdita e il buio in cui la morte può inghiottire anche i congiunti del defunto e la loro stessa vita. Specie quando a mancare è un bambino di tre anni, Apollo, fratello dell’autore ucciso dalla malattia e dalla povertà durante la guerra. «Non so con quale nodo in gola mia madre, nel profondo guscio della notte, tacitamente apriva il cassetto della biancheria di mia fratello Apollo volato in Cielo con le sue piccole ali di pulcino. Mia madre accarezzava le mutandine di mio fratello, le sue magliette, le sue calzine, i suoi calzoncini, il suo pagliaccetto a grandi fiori, lo stesso dell’unica sua fotografia ora sorridente sulla lapide del cimitero. Le mani di mia madre ordinavano gli abitini, li sollevavano dal loro silenzio, li coccolavano contro il petto e su quelle stoffe vane lasciavano che scorresse il pianto muto, senza singhiozzi, perché il sonno della casa non fosse allarmato e non aprisse gli occhi sulle occulte presenze di respiri e moti del piccolino che pareva ancora agitarsi palpitando le stoffe di una finta vita. In quel silenzio il tavolo diventava piombo, le sedie ferro, la credenza macigno chiuso in se stesso, il lampadario scheggia di minerali ultrasotterranei. Ci voleva tutta la forza di mio padre per prendere la casa per i capelli e tirarla fuori dal baratro dove stava precipitando. Mio padre s’inginocchiava accanto a mia madre. La chiamava col verbo di dolcissimi sospiri, mai, mai dimenticati. La chiamava e avrebbe voluto posarle una mano sulla spalla, ma non osava come se fosse troppo misero ciò che offriva la sua voce tremante che parlava della maglia di lana da rattoppare, dei fagioli secchi da mettere a bagno, della conserva di pomodoro che aveva fatto la muffa e necessitava di travaso o l’aggiunta di altro cremortartaro. Io correvo ad abbracciare i miei genitori per carpirne il respiro e il battito del cuore. Mi aggrappavo a loro per il timore che se ne andassero seguendo le tracce segrete di mio fratello nel bosco delle stelle» (Divisioni con la virgola).

Una morte terribile e da togliere il fiato, cui il piccolo Adamo reagì immaginandosi il fratellino alla guisa di angelo custode i cui fischi e battimani potevano salvare, come fecero, la vita ai familiari in occasione dei bombardamenti alleati su Milano: «Metteva due dita in bocca generando un fischio capace di far ballare i bicchieri nella vetrinetta della credenza. Aveva fatto il suo dovere, ci aveva avvisato e si ritirava nell’armadio dei vestiti, attorcigliandosi negli abiti di nostra madre, soprattutto nel suo cappotto col collo di volpe» (Il diavolo).

Quando lo scandaglio di Calabrese lascia le mura domestiche e si inoltra a frugare nei cuori e nelle menti di coloro che abitano le case sparse di Gerenzago, le grigie fabbriche di Sesto San Giovanni e gli altri luoghi del mondo la vena surreale prende il sopravvento e le pagine si popolano di una foresta magica in cui tutti, dagli oggetti agli animali finanche ai morti (quelli senza nome ma anche i grandi protagonisti del tempo: Hitler, Churcill, Mussolini, Stalin) si animano, parlano, fremono, soffrono. Come gli alberi de Il sovversivo, i mobili de Il violinista Brughel, gli animali dell’aia de La caducità di cani e galline, la porta e la stufa nella Borsa nera.... Tutto, sembra dire Calabrese, partecipa empaticamente delle emozioni umane: il cardine piange cigolando dinnanzi alle lacrime di una vedova, la stufa sfrigola di piacere con le sue braci roventi che scaldano gli innamorati, i pioppi si mettono le mani nelle chiome implorando pietà sotto il fuoco dei bombardieri tedeschi.
L’amore, in particolare, è il motore «che tutto move» e a cui tutti obbediscono. Ché quando brucia dentro spinge a imprese folli (il viaggio da Koliken a Odessa del violinista Brughel in cerca dell’inafferrabile Ofelia), mentre quando manca prosciuga e azzera, come accade al signor Aria (nomen-omen), divenuto sottile come un refolo di vento per il dolore della scomparsa della moglie e costretto a infilarsi sotto i letti dei clienti di vecchie bettole per cercare di entrare nei loro sogni e così piangere utilizzando le lacrime altrui, avendo lui esaurito le proprie.

L’amore che, solo, dà un senso anche al morire, regalando il balsamo del ricordo e delle carezze a lenire la fatica del trapasso, l’ultimo sforzo del fiume prima di sfociare nell’alto mare aperto

Marco Ostoni è caposervizio Cultura de IL Cittadino di Lodi Collaboratore del supplemento cuturale " LA LETTURA" del Corriere della sera

 

I racconti di Adamo Calabrese per Vorrei sono tutti qui.