Dossier. Le donne, ad esempio. Intervista alla scrittrice milanese: «Gli ostacoli all’affermazione di una donna non vengono da pratiche o atteggiamenti discriminatori, ma dalla difficoltà di conciliare il lavoro con le responsabilità familiari»
Restringiamo subito il campo: non si tratta di fare una panoramica della letteratura al femminile oggi in Italia, o anche solo in Lombardia, ci vorrebbero ben altre competenze che quelle di una semplice lettrice e ben più che lo spazio di un articolo o di una intervista. Ma dato che di “donne, per esempio” (in più di un senso, ovviamente), qui si parla, mi sono venuti in mente alcuni fatti e alcuni casi che ritengo significativi, intorno ai quali imbastire una riflessione e un confronto. A partire dal dato macroscopico, emerso anche dalla nostra inchiesta sui Gruppi di Lettura in Brianza, della caratterizzazione marcatamente femminile dell’universo dei lettori, e in particolare dei lettori di narrativa: lettrici, tout court, verrebbe quasi da dire. Alle quali sarebbe molto interessante capire che tipo di modelli femminili, o di esempi, la narrativa, e quella italiana in particolare, va proponendo.
Anche l’editoria, in verità, ha ormai un volto decisamente sempre più femminile: non solo quello di alcune grandi e famose imprenditrici e direttrici editoriali, ma anche di molte agenti, editor, consulenti; a tirare le fila della pubblicazione di romanzi destinati al grande pubblico c’è ormai uno stuolo foltissimo di donne che decidono cosa proporre, come indirizzare gli autori e come vendere le loro opere, e che per di più, tra gli autori affermati o emergenti, possono anche scegliere tra una ricca rosa di nomi femminili. In apparenza, se c’è un mondo dove le quote rosa non sono più necessarie è quello della scrittura. Ne è passato di inchiostro sulle pagine, potremmo dire, da quando le donne che volevano scrivere e pubblicare dovevano nascondersi dietro uno pseudonimo maschile! Oggi, al contrario, si sospetta che dietro uno pseudonimo femminile possa nascondersi uno scrittore che non vuole rivelare il suo interesse per temi tradizionalmente femminili (è il caso della “misteriosa” Elena Ferrante, autrice del romanzo “L’amore molesto”). Eppure… Se il riconoscimento dell’eccellenza, la “consacrazione” del valore e dell’importanza, sono assegnati dalla critica attraverso i premi letterari e gli inserimenti nelle antologie e nelle storie della letteratura, allora, almeno in Italia, le cose forse vanno come al solito, cioè con una netta prevalenza maschile ai livelli “superiori”. Quella delle scrittrici viene considerata una sottocategoria nel panorama degli autori. E sul piano dei contenuti, dei temi considerati tradizionalmente maschili o femminili nella letteratura di intrattenimento, il discorso è ancora più complesso e ambivalente. Nonostante tutto, si ritiene ancora che ci siano “generi” e contenuti destinati a un pubblico distinto per sesso: sentimentalismo per le donne, azione, guerra, crimini violenti per gli uomini. Fortissima è la funzione di specchio ideale che questo tipo di narrativa può esercitare per i lettori. Così, la narrativa rosa si è aggiornata per il suo pubblico: è ironica, propone giovani donne in carriera (spesso proprio nel mondo dell’editoria, oltre che della moda) e interessate al sesso, non solo all’amore, consumiste, un po’ casiniste, post-femministe. Chick lit, la chiamano nei paesi anglosassoni, letteratura per pollastrelle: Bridget Jones e Sex and City, per intenderci. Più realisticamente, le scrittrici italiane si occupano anche di donne meno giovani, lontane dal mondo glamour e metropolitano delle colleghe inglesi e americane (penso a La bruttina stagionata di Carmen Covito, quasi contemporanea di Bridget Jones, o alle più recenti protagoniste dei romanzi di Borgo Propizio di Loredana Limone, vecchie zie e zitelle un po’ attempate, dinamiche e vitali, però, pronte a più o meno probabili lieti finali): donne che lavorano modestamente nel pubblico impiego oppure se lo inventano, un lavoro, facendo leva sulle proprie passioni e inserendosi nelle pieghe di una società lenta a cambiare. Più spesso, però, l’editoria sembra rivolgersi al pubblico femminile facendo leva su un immaginario piuttosto tradizionale. Farei il caso di titoli e di copertine che, per attrarre il numeroso pubblico delle storie più o meno romantiche, presentano talora romanzi ricchi di sfaccettature tematiche, oltre che stilisticamente originali, come fossero romanzi sentimentali, anche quando la sostanza è più complessa: è, sempre per esempio, quello che accade col secondo romanzo della brianzola Paola Cereda, appena uscito per i tipi di Piemme. Col titolo Se chiedi al vento di restare e con una copertinatutta azzurradi mare, di cielo e di veste ondeggiante, questo libro sullo scaffale sembra parlare solo di sogni e di amore, laddove a leggerlo si scopre invece che parla anche di arte e vita dei circensi, di prigioni e di libertà, di speculazione edilizia, di microcredito, di eventi mirabili e di altro ancora. Tutte cose che forse il marketing editoriale ritiene meno attraenti per le lettrici rispetto alla presunta dimensione femminile per eccellenza, quella dei sentimenti amorosi. Non sempre gli autori hanno potere su queste decisioni e la confezione destinata a fungere da richiamo commerciale può risultare impropria o riduttiva anche rispetto ad opere di scrittori di sesso maschile, ma forse in questo caso i temi in gioco saranno diversi: perché niente come l’immaginario ha a che fare con gli stereotipi, e la pubblicità lavora su questi.
Di rapporti tra donne e narrativa ho chiesto di parlare ad Elisabetta Bucciarelli, una scrittrice che è anche giornalista, drammaturga e “maestra di scrittura”: presenza attiva in molte delle manifestazioni letterarie nel nostro territorio, la Bucciarelli sa affrontare come poche altre la riflessione sul reale e sul simbolico dell’universo femminile; ma soprattutto, si segnala proprio per la sua scelta di un genere non tradizionalmente “femminile” come il noir. Perciò è a lei che ho rivolto queste domande.
C’è uno scarto significativo tra una stragrande maggioranza di donne lettrici, scrittrici e operatrici, e la sparuta presenza di autrici in alcuni generi tradizionalmente identificati come maschili: il noir in particolare
C’è oggi, a suo parere, una “questione di genere” nel mondo letterario? E’ davvero ormai superata la difficoltà di inserimento e di affermazione delle scrittrici in questo mondo?
C’è un differente trattamento del genere femminile sia nella realtà del mondo letterario che in ciò che concerne l’immaginario, che è lo specifico della letteratura. Non parlo tanto di eventuali ostacoli frapposti alle donne in quanto tali: non posso dire di aver faticato ad ottenere attenzione perché donna, semmai ho dovuto affrontare la fatica che era riservata a un esordiente dieci anni fa, quando ho iniziato a pubblicare. Gli ostacoli all’affermazione di una donna, in questo come in altri settori, non vengono da pratiche o atteggiamenti discriminatori, ma dalla difficoltà di conciliare il lavoro con le responsabilità familiari che ancora a noi donne vengono delegate pressoché in esclusiva. Al di là di questo, però, c’è uno scarto significativo tra il dato oggettivo di una stragrande maggioranza di donne fra lettrici, scrittrici e operatrici del mondo editoriale da una parte, e la sparuta presenza, dall’altra, di autrici in alcuni generi tradizionalmente identificati come maschili: il noir in particolare. Soltanto nell’ultimo decennio in Italia qualche “penna” femminile, preceduta da scrittrici di altri paesi, (cito solo a mo’ di esempio fra la altre la spagnola Teresa Solana), si è cimentata con questa forma letteraria ritenuta estranea all’immaginario femminile. Ma, soprattutto, su venti riconoscimenti assegnati attraverso il più prestigioso tra i premi letterari, al genere noir, il Premio Scerbanenco, solo tre sono andati ad una donna.
La narrativa solitamente propone donne oggetto, sessualmente appetibili, femmine spesso traditrici, non indipendenti economicamente e affettivamente. Soprattutto, giovani
Uno dei quali a Elisabetta Bucciarelli, per l’appunto… Che ha ottenuto anche altri premi e riconoscimenti nel settore, dal Bloody Mary Award, al Fedeli. Con lei, una scrittrice italiana raggiunge l’eccellenza in un genere tradizionalmente ritenuto maschile, imponendo anche un personaggio femminile diverso dagli stereotipi. Che “esempio” di donna è il suo ispettore di polizia Maria Dolores Vergani? In che modo si rapporta con la sua stessa femminilità da una parte e col potere connesso al suo ruolo dall’altra?
Proponendo questo personaggio ho voluto mantenere uno spazio di autonomia nell’immaginario rispetto ad una narrativa che solitamente propone donne oggetto, sessualmente appetibili, femmine spesso traditrici, non indipendenti economicamente e affettivamente; e soprattutto, giovani: praticamente inesistente la donna matura come personaggio nella narrativa più in voga. La Vergani, che da questi stereotipi è ben lontana, che critica l’universo maschile piuttosto che esserne emotivamente dominata, che fatica a tenere insieme famiglia e lavoro, è giudicata fredda, distante, non molto adatta a far scattare i meccanismi di identificazione.
Poco femminile, allora? Lo stereotipo del suo ruolo potrebbe comportare una rinuncia agli aspetti di tenerezza connessi alla femminilità…
Al contrario: la femminilità a cui Maria Dolores non rinuncia è quella che esercita accoglienza e comprensione nei confronti dell’umanità che incontra nel suo lavoro, è capacità di com-muoversi, muoversi verso gli altri, desiderio di comprenderne le motivazioni. Sa di essere fragile per questo, esposta a una sofferenza da cui altri cercano di tenersi lontani, ma questa fragilità è ben altro che debolezza. Ciò a cui rinuncia, invece, sono quelli che io chiamo gli orpelli della femminilità: i tacchi, le gonne, la scollatura. Pur considerandoli senza giudizio nelle altre, come un atto di libertà. La sua fisicità è androgina: nel corpo e nel rapporto col cibo si esprime buona parte del vissuto legato al femminile, e in questo caso la rinuncia alla morbidezza, alla linea curva è l’habitus che la protegge dai rischi di indebolimento della sua persona.
Come dire che la rinuncia all’apparenza della femminilità è una sorta di strategia difensiva da rischi di sopraffazione o appiattimento in ruolo predeterminato?
Bisogna intendersi proprio sul senso che attribuiamo alla femminilità. Maria Dolores non è una wonder woman, è in difetto, si mette in discussione: e perciò appare distante, distaccata, a parte. Ma non si adegua al maschile che le sta intorno nella quotidianità del suo lavoro: ad esempio, al linguaggio sbrigativo e rozzo. Lei ha cura delle parole, sa quanto sono importanti. Coltiva sensibilità e complessità, e sa accogliere la pochezza maschile. Le aspettative connesse agli stereotipi sono il problema che occorre superare per entrare in una possibilità di comunicazione più autentica, ed è a questo genere di riflessione che spero di poter contribuire con la mia protagonista e con le mie scelte letterarie.