In principio fu una lettera. Rivive sul grande schermo e sul palcoscenico l'eredità di due geni a confronto
«C
Mi piacerebbe che mi concedeste un’intervista registrata nell'arco di otto giorni, fino a raccogliere circa 30 ore di registrazione. Non ne vorrei fare una serie di articoli ma un intero libro da pubblicare contemporaneamente negli Stati Uniti e in Francia e poi in seguito, più o meno, in tutto il mondo».
Aprile 1962. Quando François Truffaut scrive questa lettera, il giovane regista della Nouvelle Vague è al terzo lungometraggio con Jules e Jim (dopo I quattrocento colpi e Tirate sul pianista) mentre Alfred Hitchcock ha già girato quasi tutti i suoi capolavori e sta terminando il suo quarantottesimo film, Gli Uccelli.
Alla lettera segue un telegramma di risposta: «Gentile Sig. Truffaut, la sua lettera mi ha fatto venire le lacrime agli occhi, e sono molto grato di aver ricevuto un simile tributo da lei».
Lettera ad Alfred Hitchcock
I due si erano incontrati per la prima volta otto anni prima, nell'inverno del 1954, quando Truffaut scriveva recensioni sui Cahiers du Cinèma, la prima rivista cinematografica a riconoscere il valore dei film di Hitchcock e a riabilitarne la figura da mero intrattenitore a regista a 360 gradi.
13 agosto 1962. L’intervista ha inizio in occasione del sessantatreesimo compleanno di Hitchcock.
Per otto giorni, dalle 9 del mattino alle 6 di sera, i due registi dialogano ininterrottamente sul cinema, ripercorrendo passo dopo passo la carriera di Hitchcock, con l’intento di rispondere ad una domanda fondamentale: i suoi film sono soltanto di intrattenimento o piuttosto dei capolavori destinati ad essere sviscerati e studiati?
Il cinema secondo Hitchcock, l’Hitchbook come amava chiamarlo Truffaut, la trascrizione delle registrazioni originali di quegli incontri, è un testo che ha modificato l’approccio critico al cinema di Hitchcock e ha frantumato le concezioni sulla natura stessa del mezzo cinematografico. Un “film vivente” per Truffaut, la “Bibbia” del cinema per i cineasti di oggi.
Locandina del documentario Hitchcock-Truffaut di Kent Jones
Tutto questo prende una nuova vita in Hitchcock-Truffaut il documentario dell’americano Kent Jones presentato al Festival di Cannes nella sezione Cannes Classics lo scorso maggio e riproposto tra gli Omaggi alla Festa del cinema di Roma. E di omaggio si tratta. Non solo ai due grandi registi, ma al cinema tout court.
«Con questo film non ho intenzione di compiacere i cinefili. Voglio che lo spettatore abbia la viscerale rivelazione di cosa sia il cinema nella sua più potente bellezza». E la bellezza del cinema si mostra anche semplicemente dal punto di vista del montaggio. Lettere, conversazioni originali, schizzi, disegni, storyboard, scatti di Philippe Halsman (il fotografo dei “jumps” che faceva saltare i suoi soggetti per coglierne le espressioni in momenti autentici, non in posa), backstage, sequenze di film e testimonianze di altri grandi registi sulla rivoluzione operata da Hitchcock da una parte e dal libro dall’altra.
Scatti di Philippe Halsman ad Alfred Hitchcock e François Truffaut
«Hitchcock aveva una mente che correva, per questo facciamo tutti riferimento a lui» dice Wes Anderson; «con Hitchcock il cinema americano dei sogni si rinnovò» per Kiyoshi Kurosawa; «moltissimi film di Hitchcock funzionano anche nel silenzio» racconta Richard Linklater. E Martin Scorsese: «i film di Hitchcock raggiungono il più alto livello di suspence».
Con loro anche David Fincher, Arnaud Desplechin, James Gray, Olivier Assayas, Peter Bogdanovich e Paul Schrader commentano le sequenze dei film e riprendono alcuni dei grandi temi sui quali si erano interrogati i due cineasti: l’estetica, la tecnica, la narrazione, tra gli altri. Un incontro mitico, un’amicizia durata molti anni, una stima reciproca molto forte, tanto che lo stesso Hitchcock inviava a Truffaut le sue sceneggiature per chiedergli consigli.
Tanti gli aneddoti raccontati dallo stesso Hitchcock: le reazioni del pubblico durante la visione di Psycho che, pur essendo terrorizzato, continuava a guardare lo schermo («degli idioti imbambolati»); il mènage à troit con lo spettatore nella scena del bacio tra Ingrid Bergman e Cary Grant in Notorius («avevo offerto al pubblico un grande privilegio: abbracciare contemporaneamente Cary Grant e Ingrid Bergman»); la diversità di vedute con Montgomery Clift per la scena di Io confesso in cui l’attore non capiva perché dovesse guardare in alto verso l’hotel quando di fronte a sé aveva la folla terrorizzata («Un attore che si permetteva di interferire con il mio senso geografico del film (…) Per questo gli attori non sono altro che bestiame»).
Negli ultimi anni della sua carriera Hitchcock aveva dichiarato di essere probabilmente diventato prigioniero della sua stessa sagoma. Se mai tale affermazione fosse stata vera, la sua opera è stata liberata dalla continua attualità dell’ultracinquantenne libro di François Truffaut e dall’odierno documentario di Kent Jones.
Dal cinema ad una lettera. Dagli incontri al libro. Dalla carta stampata di nuovo al grande schermo. Un ritratto vivo, in tutte le sue pennellate, di due maestri.
Il documentario di Kent Jones non è l’unico omaggio a François Truffaut, la cui storia personale e artistica rivive sul palco del Teatro Argentina al termine della Festa del cinema di Roma in Finalmente Truffaut di Valerio Cappelli e Mario Sesti. Uno spettacolo segnato dalla presenza di numerose lettere, tratte dal libro Autoritratto di François Truffaut.
Copertina del libro Autoritratto di François Truffaut
Sul palco uno schermo di proiezione, un leggio, una scrivania con una macchina da scrivere e Sergio Rubini alias François Truffaut che si muove tra questi luoghi. Al leggio dà voce ad alcune delle lettere inviate ad Alfred Hitchcock, ad Eric Rohmer, al suo padre spirituale Andrè Bazin fondatore dei Cahiers du cinèma, al padre adottivo Roland Truffaut, all’amico-nemico Jean Luc Godard. Alla scrivania, spalle al pubblico, si isola nella scrittura per riapparire in riprese video durante le quali narra episodi della sua vita sullo sfondo di spezzoni dei suoi film.
Dall’infanzia problematica e solitaria al percorso scolastico ribelle, dall’abbandono da parte dei genitori all’esperienza del riformatorio. Dall’adolescenza borderline al tentativo di suicidio. Dal successo come critico ai Cahiers du cinèma agli incontri determinanti per la sua vita, privata e artistica. E un’infinita passione per il cinema, le donne, i bambini e i libri, che sono poi anche tra gli elementi caratterizzanti la sua opera. Si pensi ad esempio al meta-cinematografico Effetto Notte, agli affreschi sui bambini in Gli anni in tasca e I quattrocento colpi, sulle donne in L’uomo che amava le donne e sui libri in Fahrenheit 451.
Voci che risuonano potenti sul palco scarno, voci che pervadono la scena e scuotono nella loro sincerità, a volte molto dura, come nel caso dello scambio epistolare avuto con il padre adottivo Roland Truffaut dopo I quattrocento colpi e in quello con Jean Luc Godard dopo Effetto notte.
«Sei libero di scegliere l’ora e il giorno del nostro appuntamento. Rivedrai forse con emozione questo miserabile alloggio dove sei stato così maltrattato da genitori ignoranti, i quali ti avrebbero poi permesso di divenire più tardi quel glorioso e disinteressato martire bambino. Conto sulla tua solita franchezza affinché tu accetti questa piccola conversazione. A presto. Tuo padre».
Alla dura lettera del padre adottivo, Truffaut risponde con toni altrettanto duri. Consapevole di aver girato un film che avrebbe ferito i genitori, ma comunque molto edulcorato rispetto alle ingiustizie subite da piccolo per colpa loro, il malessere del cineasta francese appare in tutta la sua concretezza. Le continue tensioni con la madre, i week end passati a casa in solitudine senza avere nulla da mangiare. La vergogna provata a scuola, unico bambino a non avere mai la merenda, l’impossibilità di sostenere l’esame di riparazione perché i genitori non hanno interrotto uno dei loro famigerati weekend per accompagnarlo a scuola. Lo shock subito alla scoperta di non essere il figlio biologico di Roland. Fin dall’incipit della lettera emergono alcuni dei nodi dolorosi della vita del regista:
«Caro Roland, o posso chiamarti papà? Credo una spiegazione tra noi due sia auspicabile ma soltanto dopo che avrai visto il film. Di tutto quello che mi è successo ho filmato soltanto quello che capita o può capitare anche in altre famiglie. Ho mostrato non un santarellino ma un adolescente che marina la scuola, imita la grafia dei genitori, ruba loro dei soldi, mente in continuazione. Nonostante la seccatura di vedere stampate un certo numero di sciocchezze sui giornali non mi pento minimamente di aver fatto questo film. Sapevo bene che vi avrei causato un dispiacere ma non mi interessa, perché dalla morte di Bazin non ho più genitori io».
Sergio Rubini in Finalmente Truffaut
Dolore, sincerità, desiderio di chiarezza ed onestà intellettuale caratterizzano anche la risposta ad una lettera di Jean Luc Godard, che scrive a Truffaut dopo la visione di Effetto notte, chiedendogli di partecipare al finanziamento del suo nuovo film. «Ho visto ieri Effetto Notte. Probabilmente nessuno ti dirà che sei un bugiardo, così lo faccio io. non è affatto un insulto fascista, è una critica, ed è senza un punto di vista critico che ci lasciano film come quello di Chabrol, Ferreri, Verneuil, Delannoi, Renoir, ecc, di cui mi lamento».
È il 1973. Cresciuti insieme dal punto di vista umano e cinematografico, i due registi francesi sono ora molto distanti sotto i profili estetico e politico. Godard si è ormai da anni lasciato alle spalle la filosofia della Nouvelle Vague per approdare al “Cinema verità”, più sperimentale nella forma, impegnato nei contenuti e quasi del tutto privo di finzione narrativa. Ha fondato il Gruppo Dziga Vertov, un collettivo di registi francesi, ribaltando la “politica degli autori”, base delle teorie dei Cahiers du cinema. Al contrario Truffaut continua a raccontare storie personali lasciando fuori i riferimenti sociali ed ideologici, utilizza un montaggio convenzionale e si guadagna ben presto la fama di qualunquista per la sua costante volontà di concentrarsi sulla narrazione. Tuttavia è proprio a Truffaut che Godard chiede di partecipare con 10 o 5 mila franchi al finanziamento del film che sta girando e che mostra per davvero, e non come in Effetto Notte, i retroscena della produzione di un film quali ad esempio:
«il numero di previdenza sociale della tirocinante non pagata, il dispendio sessuale del vecchio della publi dècor e quello di Brando, il preventivo della vita quotidiana del contabile e il preventivo della Grande Abbuffata, ecc. Per colpa delle grane di Malle e di Rassam che producono alla grande (come te), la grana che era prevista per me l’hanno buttata nel film di Ferreri (...) visto Effetto notte dovresti aiutarmi affinché gli spettatori non credano che i film si fanno solo come i tuoi».
Ma non sono nè la diversità di vedute, né la critica negativa a Effetto notte ad accendere l’animo di Truffaut, e a fargli rifiutare di entrare in coproduzione e soprattutto a scatenare un lungo e feroce flusso di coscienza che fa guadagnare a Rubini-Truffaut un applauso a scena aperta.
«Me ne strasbatto di quel che pensi di Effetto notte, quel che trovo penoso da parte tua è il fatto di andare, ancora oggi, a vedere un film come quello, film di cui conosci in anticipo il contenuto che non corrisponde né alla tua idea del cinema né alla tua idea di vita. (...) Tu hai cambiato la tua vita e la tua testa, eppure continui a perdere un sacco di ore al cinema per stancarti gli occhi. Perché? Per trovare di che alimentare il tuo disprezzo per noi tutti, per rafforzarti nelle tue nuove certezze? Tocca a me adesso darti del bugiardo».
Lettera a Jean Luc Godard
È soprattutto il Jean Luc Gordard uomo il bersaglio delle invettive di Truffaut che passa in rassegna le occasioni in cui l’amico ha tenuto un “comportamento di merda sul piedistallo”.
Disgustosa è la lettera scritta a Jean-Pierre Lèaud, disgustoso è l’aver tentato di scroccargli dei soldi e l’averlo pagato una miseria per film che gli rendevano 30 volte tanto. Menzognere le dichiarazioni rilasciate sugli ingaggi di divi, sulla sua partecipazione a dibattiti televisivi e sulla volontà di realizzare alcuni progetti. Come ad esempio La mort de mon fere, film su un lavoratore nero malato, lasciato morire nel seminterrato di una fabbrica di televisori:
«ascoltandoti, malgrado il tremito nella voce capisco che: 1) la storia non è giusta, o comunque è truccata; 2) non girerai mai quel film. E mi dico: se quel tipo aveva una famiglia e la famiglia vivesse d’ora in poi nella speranza di vedere il film?».
Inaccettabile la sua capacità di conservare un’immagine pura anche ai danni di persone indifese come Janine Bazin, che non ha più lavorato in televisione per colpa di Godard e che poi non avrà nemmeno il privilegio di una visita del regista quando finirà in ospedale. Elitario il suo comportamento nei confronti di operai e elettricisti che preparavano i set e poi aspettavano invano il regista, quasi fosse Marlon Brando.
E se Truffaut svuota il sacco soltanto ora è perché negli anni precedenti aveva provato compassione per le sofferenze d’amore dell’amico:
«Oggi sei forte, ti si crede forte, non sei più l’innamorato che soffre, tu sei in possesso della verità sulla vita, la politica, l’impegno, il cinema, l’amore (...). Amante di gesti e dichiarazioni spettacolari, altezzoso e perentorio, nel 1973 stai sempre sul tuo piedistallo, indifferente agli altri, incapace di dedicare qualche ora disinteressata per aiutare qualcuno. Tra il tuo interesse per le masse e il tuo narcisismo, non c’è posto per niente e per nessuno».
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