Cercando il senso delle immagini che ci circondano, abbiamo intervistato la fotografa: «Tutto contamina le cose che produci, e tu stesso contamini quello che vedi. La fotografia è solo la punta di un iceberg.»
C'è stato un tempo in cui una foto era un oggetto eccezionale: un evento che a sua volta ne testimoniava un altro. Un tempo in cui evento era parola densa di significato perché di eventi nella vita non se ne contavano tanti. La foto era in buona sostanza un oggetto raro e prezioso. Difficile da comprendere oggi, immersi in immagini per tutto il tempo in cui i nostri occhi non riposano. Alle fotografie e alle immagini dedichiamo pochissimi istanti ciascuna. Alcuni di noi si illudono possano avere ancora una forza generatrice di buone azioni, altri sono sopraffatti dalla bulimia e basta. Durano il battere delle palpebre della nostra attenzione.
Allora che rilevanza hanno oggi le immagini? Che forza hanno le fotografie, il cinema, le opere d'arte, i disegni, le illustrazioni? Da oggi, proveremo a capirlo incontrando autori di diversa formazione e attitudine. Come Chiara Vitellozzi, la fotografa toscana che oggi vive a Milano e che ci ha colpito soprattutto per il lavoro sull'autoritratto, convinti come siamo che questi sia cosa assai diversa dai benedetti selfie. Nata a Massa nel 1983, Vitellozzi ha studiato architettura a Firenze. Nella sua formazione di fotografa si è nutrita di Weston, Stieglitz così come di Ghirri e Basilico.
Qual è l’aspetto che trovi più interessante della fotografia?
Lo scambio. Offrire una propria visione sulle cose, su ciò che si pensa, su quello che si vive. Far conoscere più mondi possibili, riuscire ad entrare in contatto con l’immaginario di una persona.
Cosa pensi dell’incredibile quantità di immagini che viene prodotta quotidianamente?
Che è appunto una quantità incredibile. Più che un pensiero sull’immagine prodotta, mi soffermo a pensare alla necessità di condividerla incessantemente, un modo per far vedere che esistiamo, che siamo presenti e costantemente raggiungibili.
Quando e come hai cominciato, come ti sei formata?
Tardi, ero all’università. Nessuna storia da copione, mio padre non mi ha regalato nessuna macchina fotografica medio formato all’età di 6 anni. Semplicemente frequentavo architettura e dovevo fotografare cantieri e architetture per gli esami. Così ho iniziato a studiare fotografia e poco dopo iniziai ad esserne ossessionata. Fotografavo tutti i miei amici, i posti in cui andavo e via dicendo.
È un po’ il mio carattere: quando inizio a “fissarmi” su una cosa è come se ne fossi drogata. Divento curiosissima, devo riuscire a studiarne il più possibile, a vedere il più possibile. Tutt’ora ci sono moltissimi aspetti che ignoro e che mi stimolano a conoscerne di più ogni volta.
Come sei arrivata a vivere a Milano?
In auto :D In toscana ho cambiato cinque case, vediamo quante saranno a Milano :D
Diciamo, per semplificare, che amo i cambiamenti.
Il tuo lavoro commerciale e quello di ricerca sono sempre nettamente separati?
Mi piacerebbe dire di no, ma mentirei. Più che separati penso siano dicotomici, ma per il semplice fatto che riflettono una parte contraddittoria di me stessa. Quando sono in mezzo alle persone o quando lavoro con persone nuove (lavorando con famiglie e coppie conosco continuamente gente diversa ed è un aspetto che amo della fotografia) è come se portassi la parte di me spensierata, luminosa, che vuole mettere a proprio agio le persone.
Quando mi dedico ad altri lavori do spazio alla mia parte introspettiva, buia, malinconica, alle mie paure. In me coesistono queste due realtà nette, separate e contrastanti.
I tuoi riferimenti visivi sono comunque fotografici o spaziano anche in altri ambiti?
In altri ambiti sicuramente. In realtà credo che ci siano tanti riferimenti inconsci che poi vengono richiamati in automatico; perché quando leggi libri, ascolti musica, guardi film, parli con le persone, insomma quando ti confronti con il mondo in cui vivi, tutto si riflette in quello che fai. Tutto contamina le cose che produci, e tu stesso contamini quello che vedi. La fotografia è solo la punta di un iceberg.
Cosa ti fa decidere se sviluppare una foto in bianco e nero o a colori?
A seconda di come penso quella fotografia.
Molte delle tue foto sono autoritratti. Salvo rare eccezioni, o ci sei tu o non c’è nessuno.
Credo tutte le mie foto siano autoritratti. Il vuoto e l’assenza mi fanno paura da sempre. I luoghi deserti, il buio, le cose che non vedo, tutto ciò di cui non ho il controllo. La cosa buffa è che spesso mi ritrovo in situazioni che mi costringono ad affrontare i miei draghi e, quando ci sono dentro, mi accorgo che non ci sto poi così male.
Quando punti l’obiettivo verso te stessa cerchi conferme o speri nella scoperta?
Uso me stessa per dire qualcosa, non cerco niente.
Cosa intendi per “dire qualcosa”?
Intendo comunicare. Mettere in foto la propria percezione di ciò che accade, un proprio pensiero o un interrogativo. È come esternarlo, dargli una concretezza. Puoi affrontarlo e comprenderlo, ridimensionarlo.
Come immagini, se lo immagini, l’interlocutore di questo “dire”?
Interessante questa domanda, credo chiunque si riconosca in quello che fotografo.
Hai sempre bene in mente cosa ottenere prima di scattare?
Sempre.
È un lavoro solitario il tuo?
Dipende, non è sempre uguale :) Alcuni lavori richiedono solitudine altri il contrario
C’è silenzio nelle tue foto. Sbaglio?
Impossibile dire “sbagliata” ad una sensazione. Se qualcuno la avverte, da qualche parte c’è del vero.
Quanto conta e influisce lo sguardo esterno nel tuo lavoro di ricerca?
Per sguardo esterno intendi giudizio? Ascolto tutto e tutti, ma faccio di testa mia, infatti sono specializzata nel prendere le cantonate.